Torna in libreria il saggio di Daniele Giglioli su letteratura del Ventunesimo secolo e trauma, dove si affronta, e forse si combatte, il postmoderno e l’apparato ideologico della nostra società del benessere, cercando nella letteratura la nuova funzione di squarciare il cartellone pubblicitario, per rivendicare la possibilità del trauma come intuizione dirompente in una società persa ad adorare il feticcio. Pubblichiamo la postfazione alla nuova edizione.
R ipubblico a distanza di dieci anni Senza Trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, con grande riconoscenza per l’editore Quodlibet che si sobbarcò allora e si risobbarca ora lo sforzo. Quanto al mondo è mutato dal tempo in cui fu scritto sarà agevole a chi legge misurarlo. Aggiungo solo una postilla su due idee che, messe a fuoco all’epoca, lo avrebbero reso non migliore ma di certo diverso. Tante cose non le sapevo, su altre avrei dovuto riflettere di più. Se è vero che si legge per scrivere, è vero anche che poi si legge e si vive per mettere alla prova quello che si è scritto.
Dieci anni sono tanti. La prima idea è che in questo libro, come negli altri miei che gli hanno fatto seguito, veniva presa troppo alla lettera non la modernità ma la sua narrazione, i suoi slogan, la sua ideologia: emancipazione, uscita dallo stato di minorità, costruzione di un mondo di cui l’animale umano non fosse più suddito ma libero signore. Tutte cose credute, e vissute, e tutte ancora all’ordine del giorno, giacché interamente moderne sono le strutture sociali in cui viviamo, ivi compreso il romanzo, che maramaldeggia beatamente in letteratura come se per affermarsi non dovesse continuare a far strage di ogni altro genere. Ma di cui, nella realtà effettuale, non è rimasto in giro granché, semmai il loro contrario. Ciò non significa che una siffatta eterogenesi fosse a priori deducibile dalle premesse, come recita la tesi claustrofobica della Scuola di Francoforte, che sempre espone alla tentazione di pensare tanto valeva stare a casa. Si dia invece, lealmente, alla contingenza quello che le spetta.
Del mondo che ci appare ostile e impenetrabile come una muraglia cinese non c’è pietra che non sia stata posta con il nostro consenso – o con la violenza, per le popolazioni presso cui la modernità è arrivata sulla punta delle baionette.
Non “doveva” andare così. Ma è andata così. Ed è andata così anche perché, fin dalle sue origini, la modernità non era solo i valori che sbandierava, ma gli interessi che, in verità mai nascondendoli, prometteva di tutelare: sicurezza, prevedibilità, calcolo, assicurazione sul futuro, una sostanza (la natura, il divino) interamente svuotata a favore di un soggetto che la riduce a oggetto, immagine, calcolo e in ultima istanza merce, ivi compreso il soggetto stesso che pretendeva di emancipare. Controspinte ce n’erano, e poderose, anche se non hanno funzionato. L’ipotesi socialista è stata pur qualcosa.
Non si trattava, in ogni caso, del solito twist tra ideologia e realtà. Impossibile districare i due momenti. Il che rende tanto più difficile e tanto più necessario il compito di un realismo critico che non vagheggi tardive nuove nozze con Gaia, Pacha Mama, Madreterra, come accade purtroppo alla senilità di Bruno Latour e di tanti suoi inconsapevoli seguaci. Non sarà la natura a venirci incontro soccorrevole. Del mondo che ci appare ostile e impenetrabile come una muraglia cinese non c’è pietra che non sia stata posta con il nostro consenso – o con la violenza, per le popolazioni presso cui la modernità è arrivata sulla punta delle baionette. Camminare eretti, sì, ma sopra i corpi altrui: questo è oggi l’unico comandamento. Non mi attento a dire che le cose stiano così per essenza, dubbio che fece quasi impazzire di dolore coloro che nel secolo scorso se lo posero con lucidità spietata, Weber, Husserl, morti entrambi disperati. Ma la muraglia è lì, più spaventosa e noncurante di qualsiasi stato di natura da cui avesse promesso di cintarci. Né si vede al momento come oltrepassarla, e in quale direzione. E con quale coraggio affermare che è una bella sfida per il pensiero, quando per la maggior parte dei consimili non è altro che l’incertezza su come procurarsi la garanzia di sopravvivere come nuda vita, prima ancora che come vita degna di essere vissuta.
Mancava a questo libro la piena comprensione di quanto fosse necessario il senso di sgomento che si nascondeva sotto le spoglie dell’immaginario traumatico, o vittimario.
La seconda idea è che quando in queste pagine ce la si prendeva, forse con un eccesso di acredine, contro il ricorso ansioso a ogni possibile trauma immaginario sfruttato al fine di rendere ancora rappresentabile una forma di vita resa ormai immeritevole anche solo di essere detta a causa degli strati geologici di cliché che la comunicazione le va sversando quotidianamente addosso, c’era una parte di ragione e una di torto. Che il trauma vero renda muti e non garruli è quanto ogni terapeuta ha scritto sulla porta del suo studio. “Udite or tutti del mio cor gli affanni” è la divisa del tenore romantico, non di chi è sopravvissuto a un genocidio, a uno stupro, a un’ingiustizia o a una discriminazione. Che la società dello spettacolo tenda a trasformarci tutti in tenori (a ognuno il suo quarto d’ora di lamentazione) è cosa che dovrebbe far riflettere, e non sarà male ricordare che i francesi dicevano una volta “idiota come un tenore”. Fino a qui, dunque, nulla di cui pentirsi o da disdire. Perché chiamare traumi quelli che andrebbero chiamati nemici? La precarietà che ti attanaglia la vita non è un pavor nocturnus o un atto di incomprensibile malvagità, insondabile come il mysterium iniquitatis, ma il concretissimo interesse di qualcuno abbastanza ricco da potersi comprare la convinzione collettiva che così sia giusto. Forse però mancava a questo libro la piena comprensione di quanto fosse necessario il senso di sgomento che si nascondeva sotto le spoglie dell’immaginario traumatico, o vittimario, come mi è occorso di chiamarlo altrove. Fin troppo facile segnarne a dito il tentativo di razionalizzare un generale senso di inibizione alla prassi: che posso farci? non vedete che sono traumatizzato? A quella praxis che mondo antico, cristianesimo e modernità avevano congiuntamente, pur da sponde diverse quando non rivali, individuato come il “proprio” dell’animale umano. Che ne è di te, che sei venuto a fare a questo mondo se poi non agisci?
Quelle che Senza trauma non coglieva a pieno erano, per citare Pirandello nella sua difesa di Don Abbondio, le ragioni del coniglio. Quale prassi? Dov’è che ci si iscrive? Ti rendi conto a quale sproporzione di forze siamo esposti, tanto più che tra coloro che ci si invita a chiamare nemici dobbiamo inscrivere, in quanto costruttori della muraglia, anche il nostro nome, come diceva, presago al suo solito, Franco Fortini? Non penso qui tanto a degli avvenimenti: l’11 settembre, la crisi dei mutui, l’austerità, l’attuale pandemia: non è mai un fatto a confutare una teoria, solo un’altra teoria può farlo. Ma a delle logiche profonde che nel frattempo sono emerse, senza più infingimenti come nei melensi anni Novanta, nella loro purezza adamantina.
Neoliberismo e ordoliberalismo
Una globalizzazione che non è riuscita nemmeno per dieci anni a mantenere la sua ilare maschera da baraccone, e che al suo reflusso ci ha restituito un mondo pluralistico, dunque pericoloso (e interessante, ma attenzione anche qui a non essere cinici) come non mai. Politiche identitarie per tutte le tasche, dal martirio jihadista ai dipartimenti universitari dove ti licenziano per comportamento inappropriato prima ancora che lo shitstorm sui social abbia raggiunto il livello di guardia. Ricomparsa in grande stile della sovranità, che da preteso ferrovecchio è tornata a signoreggiare in tutta l’infondatezza originaria della sua logica profonda. Razionalisticamente, utilitaristicamente rivestita, da Hobbes: vuoi vivere? Datti un Leviatano artificiale, non vedi che a forza di Dio qua e Dio là tra un po’ finiamo tutti scannati? O irrazionalmente ma realisticamente scatenata, come il drago dell’Apocalisse, da Carl Schmitt: purché però tu tenga sempre a mente che il Leviatano non ha altro fondamento che il nulla-di-ordine da cui scaturisce ogni costitutivamente precario momento di equilibrio. (Non che alla lettera siano stati proprio loro. La realtà non fa mai quello che dicono i filosofi, che tutt’al più forniscono modelli per descriverla. Peccato che i più calzanti sembrerebbero oggi questi). Le misteriose, chissà poi perché, profondità, di per sé abbastanza ovvie, della geopolitica. Da ultima, e senza dilungarcisi troppo, tanto dilettantesco è il modo in cui se ne parla al punto che non si sa nemmeno con chi litigare, la questione ambientale.
Alzi la mano chi non mugugna contro le disuguaglianze. Alzi la mano chi non le alimenta mettendo in vendita l’intera sua esistenza su internet, per non fare che il più banale degli esempi.
Risultato: un mondo interamente costruito dall’animale umano in cui l’animale umano non si riconosce più, e tra la ginestra e il Vesuvio quasi quasi tifa per il Vesuvio, almeno la si fa finita. L’estraneazione più totale da ciò che porta esclusivamente la propria firma, e che non è una pittoresca eccezione come il mostro di Frankenstein o la bomba atomica, ma un’intera forma di vita cui non sfugge uno spillo. Alzi la mano chi non mugugna contro le disuguaglianze. Alzi la mano chi non le alimenta mettendo in vendita l’intera sua esistenza su internet, per non fare che il più banale degli esempi. La sproporzione, gli antichi greci avevano trovato un bellissimo modo di chiamarla: hỳbris, tracotanza, l’accorgersi di essere andati upermoron, oltre la propria Moira, i propri limiti, i confini assegnati. Bei tempi, quando il mondo umano era piccolo e l’universo gigantesco. Ma come potrebbe assumersi questa responsabilità, ancora partecipe dell’idea di praxis giacché al suo fondo risuona pur sempre la consapevolezza, la dignità dell’“io ho fatto”, chi oggi, di fronte a ciò che ha fatto, e senza la complicità di nessun dio che acceca chi vuol perdere o di nessun demiurgo gnostico che gode nell’additare nel pianeta una montagna di merda, non riesce a dire altro che “io ho subito”?
Un bel guaio. In Senza trauma, tutto quanto detto sopra non è stato, non si dice risolto, ma probabilmente nemmeno inquadrato in tutta chiarezza. Né, per quello che vale, in altri saggi di oggetto analogo che all’autore è capitato di scrivere. Intravisto, immaginato, questo sì. Niente di più. È di buon tono in casi simili dire che non solo il giudizio ma anche la prosecuzione del lavoro spetta a chi legge. Onestamente, confesso invece che non mi sembra un bell’augurio. Ma altrettanto onestamente non saprei cos’altro suggerire, tanto più che finito un libro tra l’autore e chi legge non c’è più differenza. La sproporzione che paralizza tutti paralizza per definizione anche me. Se in queste pagine i temi a cui si è fatto cenno fossero stati fissati con maggiore accuratezza ne sarebbe derivato solo un libro, non un mondo migliore. Non bisogna chiedere a un libro più di quanto un libro possa dare. Il che non ci obbliga, però, a rinunciare al nesso tra interpretare e trasformare. Non sarà scontato come lo sognava Marx, ma salvo invasioni aliene o Apocalissi definitive non si vede proprio altro santo a cui votarsi.
Estratto dalla postfazione della nuova edizione di Senza Trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio di Daniele Giglioli (Quodlibet, 2022).