P rima di iniziare l’intervista, qualche riga sull’ultimo romanzo di Domenico Starnone. Confidenza è un romanzo breve. Il protagonista è un professore di scuola, Pietro Vella, che da giovane ha una storia d’amore felice con una sua ex studentessa, Teresa, finita nel momento in cui i due decidono di rivelarsi reciprocamente un proprio segreto, la “confidenza”. La vita va avanti, Pietro si sposa con Nadia, con cui fa tre figli, e diventa anche un personaggio noto, perché interviene pubblicamente, con articoli e libri, nel dibattito sulla scuola. Ma il legame con Teresa nei decenni rimane vivo, non tormentato né pacificato, forse proprio a causa di quella sorta di patto giovanile. Finché tutti arrivano alla vecchiaia, Pietro, Nadia e Teresa, e qualcosa sembra dover sciogliersi; nell’ultima parte del romanzo la voce narrante passa da Pietro, prima a sua figlia e poi a Teresa.
Christian Raimo: Il tuo ultimo romanzo è una specie di variazione più azzardata di Lacci, il libro che ha consacrato una felice renaissance di lettori, una specie di terza o quarta ondata della tua produzione. Dopo i libri sulla scuola che hanno contraddistinto il tuo esordio (tardivo, Ex cattedra esce nel 1987, tu hai 44 anni); la trilogia di Segni d’oro, Eccesso di zelo e Denti (pubblicati tra il 1990 e il 1994, libri raccolti l’anno scorso da Einaudi in un unico volume dal titolo Le false resurrezioni) che provavano a restituire in presa diretta il passaggio nevrotico di una generazione che aveva creduto al mito della politica se non della rivoluzione; le opere più riflessive che si confrontano con l’eredità del Novecento, la grande storia ma anche le molte ferite private (da Via Gemito, con cui hai vinto il Premio Strega, a Prima esecuzione); c’è stato prima quel romanzone liberatorio che è Vita erotica di Aristide Gambia – forse uno dei tuoi libri meno amati dai lettori e più amato da te scrittore – e poi questa trilogia Lacci, Scherzetto (tradotto per Europa Books e finalista al National Book Award 2018 nella categoria translated) e ora Confidenza, che sono tre libri che hanno avuto un successo rotondo e che mettono a frutto un’ambizione o almeno un’intuizione: il bisogno di prendere distacco, ironicamente, dal passato secolo lunghissimo, dalla stagione dell’impegno politico, che ti ha contrassegnato come intellettuale, organico o disorganico, ancora prima che come narratore, editorialista del manifesto, alla fine comunque militante, esposto, appassionato. Non mi sembra ovviamente soltanto una piega data dall’avanzare del tempo, ma una precisa scelta poetica e insieme politica. È così?
Domenico Starnone: Non so risponderti con un sì o un no. La politica di qualche spessore, ridotta all’osso, mi è sembrata e mi sembra tuttora la spinta in base a cui l’individuo prova a uscire dalla sua solitudine e a fare comunità con l’altro, raddrizzando tutti i possibili torti passati, presenti e perfino da venire. Ma di fatto, a partire dagli anni Ottanta, ho raccontato esattamente il contrario: come l’individuo si scopre, di fronte all’altro, impotente, declassato, travolto dalla sua stessa medietà abitudinaria e priva di strumenti fini di orientamento, più solo che mai mentre intorno tutto viene giù a pezzi, persino il racconto dentro cui è inserito. Quindi che dire? Lacci, Scherzetto e Confidenza, se non sono un congedo, sono probabilmente un capolinea.
CR: Questo congedo vale anche per il racconto della scuola? È naturale prendere Confidenza anche come un libro sulla scuola. Il protagonista, Pietro Vella, è un insegnante impegnato solo nella vita di classe, che a un certo punto scrive un piccolo articolo critico di riflessione sulla scuola, da cui comincia la sua carriera di intellettuale. Non è difficile associare questa vicenda di Pietro Vella alla tua: il successo che non ti aspetti, la credibilità e la responsabilità che quelle parole hanno, la costruzione di una figura pubblica intorno a un insegnante-intellettuale di scuola, quella che tu più di qualunque altro forse hai incarnato in questo paese. Nello sguardo di Vella su di sé c’è sempre un dubbio, se quello che sta dicendo sulla scuola sia utile o inutile, o sia addirittura un’impostura. Che considerazione fai sulla tua produzione scolastica, su quel ruolo, e sul senso del racconto della scuola come impegno – anche questo politico in senso lato?
DS: Partirei dall’insegnamento in sé, che mi è sembrato sempre una delle forme più alte di azione politica. O comunque, fin dalla metà degli anni sessanta, la mia natura politica più vera è venuta fuori nelle aule. Lì mi sentivo, molto più che in altre sedi, uno che sta fornendo strumenti anche sofisticati per riorganizzare al meglio il mondo. Il racconto scolastico arriva dopo, in una fase diversa, al culmine della delusione. Avevo l’impressione che ci fossimo tutti scollati da noi stessi, che esibissimo senza convinzione il nostro impegno celebrandolo con rituali e formulari che nascondevano il nostro scontento e la disfunzione se non lo sfascio dell’istituzione dentro cui lavoravamo da almeno vent’anni. Ex cattedra è stata la mia prima esperienza di forte divergenza tra tono bonario, accattivante, e racconto angoscioso della fine di una fase. L’intenzione politica di quelle storie scolastiche era mostrare che ormai ci eravamo banalizzati, che da sinistra lucida e combattiva, come eravamo stati nella scuola e dappertutto, eravamo diventati “sinistra patetica”, tutta preconcetti e frasi fatte. Confidenza rivisita quel periodo attraverso un personaggio di insegnante che la scollatura la sente in sé stesso con esiti sempre più dolorosi.
Io però coincido solo parzialmente con Pietro. Oggi continuo a credere che insegnare sia una manifestazione alta della passione politica, e che istruire diseguali non organizzandosi contro la disuguaglianza, ma facendo finta di niente, sia un errore gravissimo. Quanto al racconto scolastico è l’unica forma che abbiamo per conoscere ciò che accade davvero dietro la porta delle aule. Naturalmente non deve essere un racconto edificante, devoto alla “linea giusta”. Il racconto scolastico, come ogni racconto, è buono e utile solo quando non fa sconti a nessuno, quando è autocritico fino alla spietatezza.
CR: Ti seguo sulla spietatezza. In Confidenza sembra che tu ti muovi sul filo tra delusione e cinismo, usando spietatezza più che pietas. Pietro sente quello scollamento tra il riconoscimento della sua figura pubblica e le miserie che gli passano in testa. Nadia, la moglie, e Teresa, la ex fidanzata a cui resta avvinto per tutta la vita, a loro modo, tradiscono Pietro, pur di lasciarlo nelle sue illusioni. Ancora più disarmata sembra sua figlia. Come accadeva in Lacci sembra che tu voglia mostrare come noi non soltanto non siamo padroni della nostra esistenza, ma non ne veniamo nemmeno a capo in punto di morte. E questo non solo perché equivochiamo di continuo, ci lasciamo abbindolare da retoriche autoimposte, proiezioni e sirene di vario genere, ma perché forse quel desiderio che dovrebbe corrispondere a un senso della nostra vita non esiste. Persino il segreto, persino l’inconscio non svela nulla ai protagonisti e noi, quella macchia umana che qui in Confidenza non riveli sembra indicibile perché forse banale. Allora mi colpisce come i personaggi reagiscono alla gravità della storia che ogni tanto gli passa di fronte: inscenando una risata di sollievo, una battuta che non lasci affondare. C’è una tragedia quasi shakespeariana dentro quella mezza risata.
DS: È la risata di quando non c’è niente da ridere. Una risata complicata, difficile da raccontare, che viene dall’interno della nostra insufficienza. I personaggi di questi ultimi libri, specialmente quelli maschili, sono così. Volevano capire e la vita se n’è andata moltiplicando gli interrogativi. Le tecniche della comprensione che si sono dati nel pieno della loro giovinezza e maturità, ora gli restituiscono sempre meno un mondo a misura della loro savia competenza. Non hanno un dio che li rassereni. Ogni nozione collettiva è vuota, ridotta a una finzione alla quale loro stessi, nella loro singolarità, aderiscono come attori non in parte. Gli altri appaiono a uno come Pietro più misteriosi che mai, sempre sfuggenti, persino quando ormai costituiscono un gruppo ristrettissimo: moglie, figli, nipoti. E sebbene sia alla fine della vita, Pietro quando dice ‘io’ non sa di cosa parla, teme di non essere riuscito a portare alla luce niente di sé stesso che sia vero, anche se ha coperto un ruolo di qualche prestigio. Quindi sì, sono personaggi che reagiscono con una risatina che taglia le frasi, una risata di insofferenza per come s’è messa la vita dopo la stagione della speranza. Tuttavia, ai miei occhi, li salva il modo di farsi del racconto, che sarebbe esso stesso insufficiente, se non intervenissero le voci degli altri. Il problema, al fondo, per me resta lo stesso: da soli, anche se ci pare di avercela fatta, non possiamo che perderci.
CR: L’equilibrio tra la pietas e la spietatezza è quello che permette forse ancora alla letteratura di essere un’ermeneutica per il mondo, come le religioni, o la psicanalisi. La letteratura può occuparsi del male senza doverne ridimensionare la portata spirituale, morale, sociale, senza pensarsi edificante. Dall’altra parte però quello che sempre più spesso vediamo all’opera nelle narrazioni pubbliche è un modo di raccontare degli esseri come traumatizzati da riparare: un paradigma vittimario di cui in Confidenza (e in tutti i tuoi romanzi precedenti) sembri farti beffa.
DS: Mi auguro che sia veramente così. Non mi piace l’enfasi, non mi piace la commozione esibita, non mi piace fingere comprensione, non mi piace offrire false speranze a disperati veri. La pietas prende forma, se è vera e non un luogo comune dell’estetica corrente, anche attraverso la spietatezza. Il peggiore dei letterati è il pius di professione, quello che sa quando ci vuole un bel pizzico di pietas e lo distribuisce ad arte.
CR: I protagonisti dei tuoi libri sono spesso dei maschi che si sgretolano, man mano che le pagine vanno avanti. Ma in questo Confidenza, come in Lacci, c’è questo espediente narrativo che muta i rapporti di forza in senso radicale. Sembra quasi che il tentativo del narratore e di te come autore sia poter abbandonare il potere della parola a favore di qualcun altro, di qualcuno che non l’ha avuta. E nel caso dei romanzi sono le donne e i figli di questi uomini che hanno dominato la storia del Novecento e dei secoli precedenti. È come se anche il mondo della fiction fosse attraversato da un feminist turn rispetto al quale non si può rimanere né indifferenti né indenni. Tu scegli la resa?
DS: La resa, mah. Ho raccontato per quel che ho potuto la mutazione delle donne: i miei narratori fanno sempre fatica con loro. Le trattano secondo tradizione ma scoprono presto che, in un modo o nell’altro, esse sfuggono, fanno il contrario di ciò che la costruzione scenica prevede. Soprattutto nei miei libri degli anni zero, i personaggi femminili non solo sono disobbedienti, come nel canone formatosi tra gli ottanta e i novanta, ma, insieme ad altri elementi, contribuiscono a inceppare il congegno stesso del racconto maschile. Storie come Via Gemito, Labilità, Prima esecuzione, Spavento, Autobiografia erotica di Aristide Gambia, si presentano sempre più al lettore come città all’improvviso bombardate. Poi, a partire da Lacci, ho affiancato al narratore altri io, come ti dicevo. L’io maschile, per compiere la sua narrazione, ha necessità del racconto degli altri. E gli altri sì, sono donne. Non si tiene mai abbastanza a mente che l’organizzazione del racconto racconta, è parte fondamentale della narrazione. Lacci è aperto dalla voce di una moglie e chiuso dalla voce di una figlia. Confidenza non si compirebbe senza le voci di Emma e di Teresa. È un modo strutturale per dire che il racconto sta diventando femminile, siamo sempre più incastonati dentro le loro narrazioni, anche quando crediamo di seguitare a costruire con garbo da padroni ben educati, o conflittualmente, le nostre. Ed è un bene per la letteratura. Non a caso in Scherzetto, racconto tutto maschile, la narrazione distesa e continuata, dopo essere arrivata a compimento in modo canonico, non riesce a considerarsi davvero compiuta e si contraddice, si dissolve, negli abbozzi – disegni e appunti – dell’appendice.
CR: Questo dispositivo della voce del narratore che cambia per me è il vero colpo da maestro che modella le ellissi di Lacci e di Confidenza, nella direzione di una forma romanzo che scopre al suo interno una tensione politica rispetto alla presa di parola femminile. In fondo c’è un narratore che viene limitato se semi-sabotato dall’autore stesso. Non so se per questo dispositivo ti sei ispirato a qualcuno – a me veniva in mente il narratore di Fuoco pallido di Nabokov – oppure ti sei reso conto che eri nello spirito dei tempi – un dispositivo e una funzione simile le crea Fato e furia di Lauren Groff. Sicuramente l’esito è magnifico, ma anche perché ribalta sul lettore una responsabilità maggiore rispetto alla sua suspension of disbelief. Anche su questo volevo qualche tua considerazione: come te lo immagini il tuo lettore mentre scrivi o quando hai pubblicato i tuoi libri. Che tipo di relazione pensi sia giusto instaurare, quale patto?
DS: Sei gentile a tirar fuori Fuoco pallido, ma è un libro così ricco e complesso, che non si riesce nemmeno a rubacchiare qualcosa. Negli ultimi anni ho fatto più semplicemente ricorso alla vecchia tradizione polifonica – come, mi immagino, Lauren Groff e altri – ma non era nelle mie intenzioni servirmene per raccontare gli stessi fatti da punti di vista diversi. Le mie “voci” sono tra loro inconciliabili, non si confrontano e non si integrano. L’io maschile seguiterebbe a raccontarsi dimessamente o trionfalmente, se avesse energia narrativa, ma l’ha esaurita e si estingue. Chi legge viene a trovarsi di fronte a un salto (temporale, ideologico, di genere, di tono, quello che vuoi) che, se si compie, non lo porta dentro una versione alternativa – un “così è se vi pare”, un “rashomon” –, ma in un altro racconto, in un altro sentimento, con una sua energia autonoma.
Quale lettore, quale lettrice? Non so, in genere ci penso poco. Mi immagino, probabilmente, lettori confidenti che però imparano pagina dietro pagina a diffidare. Ho costruito negli anni i miei edifici narrativi in modo sempre più instabile, forse per un sentimento crescente della precarietà. Per qualche pagina faccio funzionare in tono minore i generi (il giallo, il thriller, l’horror, il romanzo rosa, l’erotico, il porno) con le loro tradizioni supercodificate, poi, appena il genere si consolida e con esso innanzitutto la mia stessa sospensione volontaria dell’incredulità, lo lascio di colpo cadere. Lo faccio perché non credo che, esposti come siamo in permanenza alla “fine del mondo” (intendo i nostri esili mondi individuali, ma anche il mondo in generale), la letteratura debba dare un’impressione di solidità e durata. I miei racconti franano. E la frana si verifica, temo, anche per un bisogno strutturale di verità (estetica, sociologica, politica, esistenziale) che tecnicamente provo ad ottenere prima lavorando goduriosamente alla sospensione dell’incredulità e poi dissolvendola con qualche sofferenza.
CR: Sia io che tu parliamo di Novecento, fine di un’epoca, passaggi generazionali e secolari, però è vero anche che il secolo breve si sta dimostrando molto lungo in tante manifestazioni, spesso per residualità, spesso per backlash. Avresti mai immaginato nel 2019 di aver a che fare con personaggi come Trump, Johnson, Salvini? Ma d’altra parte molte delle questioni che sono state centrali nella politica novecentesca, le battaglie delle donne, l’ambientalismo, le migrazioni, oggi sembrano esplodere con una potenza che si è preparata lungo i decenni.
DS: Sì, è un’abitudine mentale che rischia di funzionare da paraocchi. Mi riferisco ai secoli, che in verità tutto fanno tranne che “finire”, tutto fanno tranne che “cominciare”. Prendiamo il Novecento: continua ad allungarsi fino a noi e seguiterà a farlo chissà per quanto ancora. Elettronica, robotizzazione, globalismo, finanziarizzazione, ingegneria genetica, organismi politici con collante religioso, minaccia atomica, guerre che fanno strage di civili, maschere del razzismo e del fascismo, crisi delle istituzioni democratiche: possiamo stendere un lungo elenco di temi d’oggi e vedere che le radici sono lunghe e ramificate. I connotati politici della classe operaia, per dirne una, hanno cominciato a modificarsi oltre cinquant’anni fa. Senza parlare delle donne, la cui rivoluzione è tutta novecentesca. Quando diciamo: il Novecento è finito, rischiamo di smarrire la dimensione storica dei nostri problemi, anche di quelli specificamente letterari.
CR: C’è una questione alla quale spesso e giustamente ti sottrai, ma spero di fartela affrontare in un modo sensato, perché riguarda come la ricezione incida sulla produzione, l’Anatomia dell’influenza come la definiva Harold Bloom. In un recente saggio tradotto su Internazionale – dove tu hai una rubrica – Zadie Smith fa una difesa della fiction come possibilità di avvicinarsi all’altro nell’era delle identità e delle appartenenze. È innegabile che in questi ultimi anni assistiamo a una crisi della literary fiction soprattutto quella d’invenzione, assediata dalle narrazioni non-finzionali da una parte ma anche da una esorbitante quantità di narrazione dal vero, in diretta, di storytelling, di stories. Tu, da Via Gemito fino a Confidenza, pur cambiando tantissimo, non hai mai messo in discussione la potenza del romanzo fino a separartene o a problematizzarla come hanno fatto molti scrittori negli ultimi anni, persino quelli della tua generazione o della tua formazione novecentesca; qualunque autore oggi sembra dover avere un libro nella sua bibliografia in cui parla di sé con molti elementi reali.
Questo probabilmente ha a che fare con una crisi di quell’autorialità maschile di cui parlavi, il romanzo come capacità di contenere mondi e di plasmarli a propria immagine e somiglianza (hai letto per caso il saggio di David Foster Wallace in cui inchioda Norman Mailer, John Updike e Philip Roth all’etichetta di Grandi narcisisti?) E in questa questione complessa c’è anche un elemento specifico. Negli ultimi anni sei stato accostato tante volte e in tanti modi diversi a Elena Ferrante. A me non interessa per nulla tutto il gossip biografico; ma la dimensione letteraria sì. Abbiamo una scrittrice che è riuscita a ridare fiducia alla literary fiction con una narrativa che non fosse solo remota come ambientazione (quello che aveva fatto forse Eco negli anni ’80 in risposta alle neoavanguardie, forse prima di lui solo Elsa Morante con La storia) e al tempo stesso a modificare completamente l’immagine letteraria di Napoli – se non della nostra storia, se non della nostra produzione letteraria fuori dall’Italia –, per non parlare chiaramente dell’importanza delle autrici donne. Oggi il canone letterario italiano è riscritto completamente e in modo retrospettivo dall’opera di Elena Ferrante. Tu con questa crisi, ma anche con ciò che sembra rappresentare un baluardo, come ti ci confronti?
DS: Per quel che mi riguarda, le cose mi sembrano meno lineari. Tra il 1985 e il 1987 ho costruito un romanzo in cui un personaggio che portava il mio nome e il mio cognome narrava in forma di diario le sue avventure scolastiche di pura invenzione in compagnia di figurine anch’esse di pura invenzione: per Ex cattedra, più che il Cuore, avevo in mente, mentre scrivevo Triste, solitario y final. Anche Via Gemito, libro ben più complesso per orchestrazione, è da un lato cavillosamente nutrito di materiale autobiografico, dall’altro, filtrato com’è attraverso un personaggio che corregge la vita con le sue fantasie, è forse il più romanzesco dei miei lavori. Insomma io ho attraversato gli ultimi quarant’anni nell’idea che il romanzo come me l’ero goduto da ragazzino non si potesse più fare, ma che la sua potenza era ancora intatta e bisognava a ogni occasione foss’anche miserabile provarsi a riattivarla almeno un po’. Il che significa che con le piccole esperienze della mia vita ho sempre escluso di fare solo “il caro diario” (diario dell’anima, diario di lettore estroso e colto, diario di scrittore che dà conto di sé stesso libro dietro libro, diario di viaggiatore o giornalista etc.), mi sono sempre provato a impiantarvi situazioni – diciamo – romanzesche. Questo non significa che il diarismo d’ogni tipo mi dispiaccia, anzi: quando scava a fondo, quando è spregiudicatamente inventivo, lo sento molto vicino.
Quanto allo spauracchio del narcisismo, lo accantonerei. Siamo in una situazione in cui lavoriamo tutti, vecchi e giovani, ancora con lo strumentario del Novecento. La divisione per secoli – lo dicevamo prima – è sempre stata piuttosto artificiale. Sicché la delegittimazione attraverso l’etichetta ‘narcisismo’ mi pare logora e regge poco – diremmo mai: Petrarca è narcisista, Dante no, Boccaccio così così? Anche l’idea che il racconto faccia di per sé comunità, getti ponti verso l’altro, mi pare un ripescaggio generoso d’altri tempi più ottimistici. Il racconto sicuramente sgorga da una comunità, piccola o grande, accogliente o feroce, ma di per sé disgraziatamente non la crea. In fasi come questa, poi, l’altro resta più che mai altro, si fabbrica da solo le sue credenze e le sue storie, giustamente non si fida più nemmeno un poco delle nostre. Questo è il motivo per cui tutte le esperienze narrative vanno guardate oggi con interesse, anzi direi studiate: specialmente quelle che generano per i motivi più vari fastidio o avversione; specialmente quelle dove la facoltà di fare romanzo si attiva all’improvviso con inattesa forza inventiva. Mi immagino che il mio percorso di scrittore sia più o meno esaurito. Ma sapere che altre e altri procedono, inventano, si inventano reinventandoci, è una bella consolazione.