S igmund Freud, come è noto, è stato tra i primi a intuire e riconoscere l’effettivo potere dell’Io e a mettere in luce come sia l’inconscio la voce più autentica dell’individuo. Uno dei più importanti psicoanalisti freudiani, concentrato su un movimento reazionario di ritorno all’insegnamento originario di Freud, è stato Jacques Lacan. Lo psicanalista francese, tra le molte altre cose, ha approfondito la logica retorico-linguistica che segna il lavorio continuo dell’inconscio e la sua strutturazione come un linguaggio (attraverso la chiave fondamentale dell’opera del linguista Ferdinand De Saussure). Lacan, per sottolineare quanto l’esistenza umana sia contrassegnata dalla parola, definirà l’uomo come un “parlessere”, un individuo che trova soddisfazione nell’identità della sua persona solo quando questa parola che lo contraddistingue trova un riconoscimento in un altro.
In un suo scritto, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, Lacan distingue infatti tra una parola piena e una vuota, una cioè che è in grado di risolvere le formazioni dell’inconscio, e quindi dell’individuo, e una invece che risulta svuotata di questo potere. La parola piena vive della sua intersoggettività, capace di costruire un legame tra uomini e, soprattutto, è una parola che può essere interpretata perché è capace di raccontare la storia del soggetto, è la sua realizzazione:
la parola piena non è altro se non la parola che fa emergere la verità storica del soggetto [e] presuppone il riconoscimento di colui al quale è rivolta. È ciò che è – ossia una parola che lega, che unisce – soltanto quando è data a un altro.
Il rischio di una parola vuota è dunque l’afasia, l’impossibilità della comunicazione, l’incomprensione di quello che succede intorno, un incubo che porterebbe il soggetto al mutismo e alla scomparsa in quanto egli non sarebbe in grado di realizzare se stesso, di soddisfare il suo essere parlante. La natura di questo incubo e lo scivolamento verso l’incomprensione e l’incomunicabilità è stato spesso immaginato da una letteratura che ha provato a delineare quali scenari potrebbero aprirsi a chi si trova costretto, per un motivo o un altro, a vivere senza la parola o con una parola ferita che ha perso le sua possibilità intersoggettive. Il risultato è quello di protagonisti che hanno smarrito il linguaggio e si trovano a fare i conti con un’assenza totalizzante che rende impossibile vivere.
È uscito quest’anno nella collana digitale dell’editore Adelphi, “Microgrammi”, un breve testo di Emmanuel Carrère, Lingua straniera, scritto a seguito di un incarico di alcuni produttori inglesi in cerca di storie inquietanti. Il testo, che si legge proprio come una sceneggiatura con tanto di consigli puntuali di Carrère per i grafici, mette in scena una situazione riferibile alla condizione di solitudine che si genera quando si smarrisce la parola, quando questa non è più in grado di garantire una realizzazione del soggetto e una relazione con il mondo. Una mattina Mathieu, borghese parigino che lavora nel cinema, si sveglia e ascoltando la radio vive la spiacevole sensazione di non comprendere il linguaggio che viene utilizzato: prova a cambiare stazione pensando di essere finito su qualche frequenza straniera, ma non è così. Da questo momento, e in maniera lenta e graduale come se il protagonista non volesse veramente rendersi conto di ciò che gli sta accadendo, Mathieu scopre di non comprendere più la lingua che ha sempre conosciuto, di non riuscire più a leggere i giornali e le riviste, ormai costruite con un alfabeto a lui sconosciuto e, soprattutto, di non riuscire più a comunicare con nessuno, sentendo uscire dalla bocca delle persone che fanno parte della sua quotidianità, suoni sconosciuti e incomprensibili:
Mathieu si avvicina, si siede con tutta la calma di cui è capace sull’alto sgabello, appoggia i gomiti sul bancone, fissa il padrone. Si capisce che sta facendo un grande sforzo per non cedere al panico, per tentare di reagire razionalmente, di analizzare una situazione che non è in grado di controllare.
Il panico comincia a impossessarsi di lui che, smarrito il dono della parola e della comunicazione, non è più niente, non esiste più. La razionalità non è più uno strumento che può aiutarlo, tanto che arriva a pensare che il problema non sia suo, ma del resto del mondo che non riesce più a conservare il ricordo della lingua con cui fino al giorno prima hanno comunicato. A un certo punto, parlando con la fidanzata – Francesca, che ovviamente non può capire nulla di quello che sta dicendo – Mathieu si getta in una riflessione di pura linguistica che finisce per diventare un ragionamento esistenziale che mette bene in luce come il linguaggio e la parola siano tutto ciò che siamo:
Un tizio che d’un tratto si mette a parlare una lingua immaginaria è una cosa rara, seccante per lui, ma in fondo è una patologia che si trova nei manuali, posso persino dirti che la chiamano glossolalia. Forse non ci siamo mai chiamati Mathieu e Francesca.
Il silenzio porta mettere in dubbio tutta l’esistenza, ad annullare, in chiave lacaniana, l’intera storia dell’individuo. La glossolalia citata dal Mathieu di Carrère è appunto un disordine della parola che si presenta sotto forma di un’espressione di suoni difficilmente comprensibili, associato in parte a deliri verbali di alcune malattie, in parte a fenomeni religiosi, come quelli del cristianesimo primitivo, dove l’utilizzo di varie lingua viene considerato un dono di Dio (nell’Antico Testamento si trova per esempio la nota formula di San Paolo secondo la quale chi ha il carisma delle lingue non deve risultare comprensibile agli uomini, ma a Dio). La conseguenza di un linguaggio come questo è un cortocircuito tra chi parla e chi ascolta, tra chi produce un suono o scrive una parola e chi si trova a dover interpretare: in un racconto di Tommaso Landolfi, Il dialogo dei massimi sistemi, dalla raccolta omonima, l’esperimento linguistico dell’autore sembra svilupparsi proprio nel senso della glossolalia, con la messa in scena di un dialogo che, nel suo essere incomprensibile, rivela l’incomunicabilità del linguaggio del protagonista, un’incomprensione che è destinata a sfociare in un silenzio agitato.
Calvino ha scritto che tra le pagine di Landolfi si annida il “problema delle parole non immediatamente comprensibili ma significanti”, ed è una delle chiavi di lettura privilegiate per questo racconto del 1937 dove si assiste alla messa in scena, in maniera inconsapevole anche solo per motivi cronologici, della parola vuota lacaniana, una parola che dunque manca in maniera assoluta della sua intersoggettività: la conseguenza fatale di una lingua come questa è, come sembra accadere anche al personaggio di Carrère, la pazzia. Il poeta protagonista Y racconta di come, dopo aver appreso una lingua che crede essere il persiano e avervi composto tre poesie, scopre di essere stato vittima di una beffa: la lingua, che egli maneggia in maniera imperfetta, è del tutto arbitraria e lui, dopo che il suo maestro lo ha abbandonato, ne è l’unico conoscitore. Nasce qui un “problema estetico spaventosamente originale”, come lo definisce un critico da cui il poeta si reca, quello di una ricerca circa l’esistenza poetica delle tre poesie che egli ha scritto e quindi, più in generale, dello statuto di una lingua che nessuno conosce se non lui. L’illustre critico al quale il poeta si rivolge lo invita a pensare la lingua che egli considera inesistente come una lingua morta: “considerate semplicemente la vostra come una lingua morta, ricostruibile soltanto in base ad alcuni documenti che ne siano sopravvissuti, nella fattispecie le vostre tre poesie”.
La ricerca dello strambo poeta Y è destinata a non trovare soddisfazione e così il rischio di una lingua intesa in questa chiave è quello della perdita di senno, di un dialogo impossibile che galleggia nel silenzio e vive nell’impossibilità di comunicazione con l’altro perché, come scrive Landolfi, dietro ad una qualunque iscrizione “c’è tutto un popolo! Dietro una poesia di queste non c’è che il capriccio”; il persiano del poeta Y, la lingua perduta irrimediabilmente, si tramuta, per sopravvivere, in sterile desiderio mai soddisfatto, in segni impossibili portatori di soddisfazione. Il poeta quindi finisce sull’orlo di una crisi esistenziale; oramai consumato dalla follia, si ostina a portare in varie redazioni poesie senza capo né coda, pretendendone la pubblicazione: l’impossibile riconoscimento di questa parola da parte di un Altro porta ad un silenzio che scivola nella follia, come nel caso del poeta Y.
Anche lo scrittore francese Philippe Forest ha fatto un racconto di questo smarrimento, scegliendo però di narrare non il fatto compiuto come nel caso di Carrère, quanto invece il processo di smantellamento del linguaggio di cui è tristemente consapevole il protagonista. Questo è l’argomento del suo ultimo libro (tradotto da Gabriella Bosco e pubblicato come gli altri suoi titoli da Fandango), L’oblio, dove si racconta la vicenda di un uomo che al mattino, svegliandosi, si accorge di aver perso una parola: inizialmente dà la colpa al sogno che ha accompagnato la sua notte (e tutto il libro è costruito magistralmente su un’intersezione tra il piano reale e quello onirico), ma con il procedere delle ore, nonostante i numerosi sforzi, la parola non torna e anche il sogno pian piano si perde negli anfratti della mente:
cosa o parola, in ogni caso, al suo posto, dentro di me, non c’era più altro che un vuoto, un buco, minuscolo, quasi impercettibile, piccolo come una testa di spillo, tanto da poter essere visto solo in trasparenza; ma al cui interno tutto l’universo, quel mattino, sembrava sul punto di scivolare, di sprofondare.
Il libro di Forest, che in questo libro dà un’ulteriore prova della sua scrittura eccezionale, prosegue su questa linea, incrociando in una narrazione volutamente sfocata i pensieri del protagonista e la sua storia, che continua su un’isola, luogo eremitico dove provare a recuperare ciò che è perduto. Perché la paura del protagonista de L’oblio è che a partire da questa piccola parola, da questo spillo quasi invisibile, si sgretoli tutto il suo linguaggio, si svuoti il suo vocabolario, finendo per rimanere solo, senza alcuna possibilità non solo di avere rapporti con gli altri, ma incapace anche di pensare.
“I limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo” ha scritto Wittgenstein nella sua famosa analisi sul linguaggio e quindi sull’essenza del mondo, e sembra sottostare proprio al valore di questo enunciato la paura del protagonista di L’oblio, preso da una ricerca che si trasforma presto in un’ossessione, un’ossessione per la perdita (tema molto caro all’interno dell’opera di Forest, come in Tutti i bambini tranne uno, racconto della scomparsa della piccola figlia), per un vuoto che lo ingloba e lo separa sempre di più dal mondo. Sull’isola l’uomo inizia a riflettere su come un quadretto che rappresenta il mare sia veramente specchio fedele di ciò che vede dalla finestra e che fotografa ogni giorno: la vicenda della parola scomparsa si intreccia pian piano con quella del rapporto tra fotografia, dipinto e realtà, e il libro si trasforma impercettibilmente e con decisione in una riflessione sul modo in cui ci rapportiamo con il reale e su come funzionano i mediatori di questa relazione, il linguaggio e le immagini.
Se l’uomo è allora quel parlessere come definito da Lacan, riflettere sulle storture e le assenze che possono insinuarsi nel linguaggio, luogo centrale dell’esistenza umana, è ovviamente riflettere sulla nostra stessa natura, apogeo quindi del compito di cui uno scrittore può farsi carico. Le storie di Landolfi, Carrère e Forest sono solo alcune tra le molte possibili – basti pensare agli esperimenti lipogrammatici e non di Georges Perec o alla spoliazione dei contenuti del linguaggio di Samuel Beckett: tutte queste opere sono la spia di un’emergenza esistenziale, di un rischio che ogni uomo e ogni società può correre. Ma questa allerta non deve accendersi solo nei casi complessi e tragici dei libri di cui si è parlato, dove a sparire, per qualsiasi motivo, è il linguaggio in alcune delle sue parti o addirittura nella sua interezza, ma è invece un monito da tenere sempre presente e a maggior ragione in ogni momento in cui può sembrare di non riuscire a nominare le cose con il loro nome, una pratica basilare che è a rischio in una contemporaneità dove la precisione del nominare sembra non essere più in cima alla lista e i significati si scollano sempre più dai significanti: “nomina nuda tenemus” sono le parole iconiche che chiudono Il nome della rosa di Umberto Eco, e in effetti ciò che possediamo sono solo i nudi nomi delle cose, oggetti da conservare con grande cura.