In un certo senso Scuola di demoni è nato dal Tascabile. Dopo una fortunata intervista a Michele Mari qui pubblicata nel dicembre del 2016 è stato naturale pensarne una simile all’altro scrittore italiano vivente che più amo, Walter Siti. Quando ho presentato la trascrizione di una lunga conversazione con l’autore di Troppi paradisi, Francesco Pacifico ha riconosciuto che il pezzo, piuttosto che tagli e riduzioni, meritava uno sviluppo ulteriore, in altra sede. Così è nato il nucleo centrale del libro (l’intervista a Mari è poi diventata parte della sezione a lui dedicata), ed è con piacere e riconoscenza che, il giorno della sua uscita in libreria, ne affido al Tascabile l’introduzione, come a chiudere il cerchio.
C ome suggerisce il titolo mash-up Scuola di demoni (combinazione del romanzo d’esordio di Walter Siti e della principale silloge di saggi critici di Michele Mari), questo libro unisce due lunghe conversazioni con due autori estremamente diversi, che a prima vista non hanno molto in comune.
Nato nel 1947 a Modena, Walter Siti pubblica il suo primo romanzo (Scuola di nudo) in età già matura, nel 1994, dopo una lunga gestazione durata più di un decennio; con Troppi paradisi – quarto romanzo, del 2006 – l’opera di Siti viene accolta da un pubblico più vasto: il libro parla di televisione, reality show e nuove mutazioni antropologiche «al tempo della fine dell’esperienza e dell’individualità come spot» (come recita l’«Avvertenza» liminare). Il successivo romanzo sulle borgate romane, Il contagio (del 2008), è il suo libro più letto prima del successo allo Strega nel 2013 con Resistere non serve a niente. Ad oggi l’opera di Siti, vista nel suo complesso, suggerisce l’ambizione balzachiana di rappresentare pezzo dopo pezzo diversi settori della società italiana attuale: l’università, la televisione, le periferie, la finanza, la religione, l’editoria. Il mosaico compone un ritratto piuttosto cupo e impietoso del nostro presente e probabile futuro, dove a nerezza e cinismo risponde una più minuta ma tenace epica degli affetti. A quest’ultima è affidato il compito di consegnare al lettore l’immagine di una umanità che sopravvive faticosamente in un paesaggio in rovina. L’elemento sociologico, o meglio ancora antropologico, onnipresente e pervasivo, conferisce ai suoi libri una fisionomia quasi saggistica. È tuttavia nel ritmo, nella tensione poetica, nella complessa tessitura di uno stile articolato tra innesti di oralità, impennate liriche e spunti teorici, che l’immaginario dello scrittore trova il suo ambiente e la sua cifra principale, e precisamente letteraria.
Il milanese Michele Mari, nato nel 1955, esordisce come narratore poco più che trentenne con il romanzo Di bestia in bestia nel 1989 e da allora pubblica a un ritmo più o meno costante un libro ogni due o tre anni: raccolte di racconti e romanzi, più occasionalmente poesia. Il lettore si avvicina alla sua opera attratto dall’altissimo tasso di letterarietà di una scrittura dove risuonano le voci erudite e irrequiete di autori come Gadda, Landolfi, Manganelli, Bufalino; lo scrittore alimenta la sua marginalità inalberando le insegne dell’artista anacronistico, isolato ed estraneo alle insorgenze della modernità. Dalle punte di una sensibilità irritabile e in rotta col presente si profilano, per così dire a negativo, le sembianze del mondo in cui viviamo: non ultima quella di un paesaggio culturale che sembra allontanarsi sempre più inesorabilmente dalla dimensione libresca del secolare «uomo gutenberghiano» – lo stesso che Mari incarna con il fanatismo dei reduci –per dirigersi frettolosamente verso le lande sempre più immateriali della terza o della quarta rivoluzione industriale.
Cresce e s’impone, nello stesso lasso di tempo (soprattutto tra i cosiddetti «lettori forti»), la reputazione di entrambi i nostri autori: la conferma del loro talento e il valore di una solida ricerca artistica. I numeri, tranne casi eccezionali (come l’assegnazione a Siti del premio italiano più commercialmente remunerativo), non sono quelli del grande successo mediatico. Non pubblicano bestseller, solo saltuariamente vengono invitati in televisione, la loro presenza costante e consistente nel mondo letterario e nella coscienza degli esperti ne fa tuttavia, oggi, due punti di riferimento per la literary fiction nostrana: nel 2015 una rivista letteraria (Orlando esplorazioni) ha chiesto a un numero abbastanza cospicuo di addetti ai lavori (editor, critici, ricercatori universitari) chi sono, a loro avviso, gli autori contemporanei italiani che resteranno nel canone dei prossimi decenni: Mari e Siti sono risultati in vetta alla classifica.
Non è l’ultimo dei moventi che mi hanno portato ad avvicinarli in questo libro l’auspicio di alzare la famosa asticella, quella costantemente abbassata dalla pubblicistica e dalla comunicazione culturale di massa, dove il bordone sempre più potente dello strillo promozionale e la frettolosità di giudizio ottunde le coscienze critiche e il gusto medio, spingendo a gridare al capolavoro ogni due per tre. Lasciar parlare questi due autori, articolare le loro riflessioni intorno al fare letteratura, al mondo letterario e al pubblico dei lettori, significa – nelle mie intenzioni – fornire una tara e una misura di cosa possa significare ancora oggi essere un romanziere, uno scrittore e un artista credibile, animato dalle motivazioni che fanno dell’arte un destino, una necessità, e non un semplice intrattenimento funzionale alla ricerca di soddisfazioni a breve termine o un viatico per altre mete. Insomma trattare questi due autori come due maestri, contro la loro stessa ritrosia a considerarsi tali.
Maestri di cosa, esattamente? Cosa possiamo imparare da una «scuola di demoni»?
I comuni denominatori emergono, a volte sorprendentemente, dalla lettura consecutiva delle due interviste: oltre quelli biografici e anagrafici (l’esser nati a pochi anni di distanza, avere entrambi una formazione e uno status accademici – per quanto da entrambi poco rivendicati), o poetico-letterari (entrambi scrittori estremamente eruditi, entrambi a loro modo «stilisti» seppur diversissimi nelle rispettive scelte formali, entrambi produttori di opere ambiziose che guardano ai piani più alti della letteratura), sono le affinità più oblique quelle credo più interessanti e produttive per il discorso critico. Autori apertamente e consapevolmente post-ideologici, sia Mari che Siti segnano una cesura netta rispetto agli imperativi categorici dello scrittore-pubblicista novecentesco, organico e non, dell’intellettuale-artista alla ricerca di «egemonia». Per ragioni anagrafiche e generazionali entrambi gli autori si collocano a cavallo di una profonda discontinuità storica: cominciano a pubblicare con la fine del bipolarismo, la loro sensibilità trova i propri limiti nel trionfo globale del capitalismo da una parte e in una ricca tradizione umanistica a rischio di smantellamento dall’altra. Vengono dopo la fine del popolo e prima dell’apoteosi dei social network, tra l’epoca del narcisismo e quella della psicometria. Politicamente parlando, il disincanto sembra la tonalità emotiva che più si addice loro: entrambi negano apertamente la possibilità di affidarsi alla vecchia cara idea progressista di una Storia che avanza illimitatamente verso il meglio. Amano in tal senso riferirsi a Leopardi e ai suoi lati più antilluministici, opponendo alle magnifiche sorti reazioni di stampo più o meno irrazionalistico: Siti cercando «uscite dal mondo» (per usare un vecchio titolo di Elémire Zolla) e trovandole soprattutto nella trascendenza deviata della merce, nel sesso come estasi e dissipazione (perciò stesso antitetico al razionalismo calcolante dell’homo oeconomicus) e in altri surrogati religiosi; Mari costruendo mitologie personali e fingendo mondi caratterizzati da una purezza pre o vetero-industriale, iconografie feticistiche che sfiorano il dominio del mito, forme di sacralità privata e ascetismo che vedono nel libro e nella scrittura un esercizio di renitenza radicale agli imperativi dell’attualità e allo sputtanamento mercantile.
La destituzione del politico non significa dunque che gli scrittori in questione, rinunciando al ruolo di guide morali o fari ideologici che in altri tempi sarebbe andato da sé, abbiano abbracciato l’esistente con quel misto di furbizia strategica e passiva acquiescenza che accompagna le più recenti metamorfosi della figura dell’autore (autore polivalente e performer, autore influencer, autore organizzatore di eventi e social media manager, eccetera). Nel rifiuto di qualsiasi bandiera e nel disconoscimento della missione politica e civilizzatrice del fare artistico sembra di distinguere piuttosto la volontà di restituire la scrittura letteraria a una dimensione più essenziale, liberarla dalle impalcature che l’accompagnano (e l’accompagnarono) limitandola o soffocandola, e recuperare semmai a questo livello una funzione critica più specifica e, allo stesso tempo, universale. Una chiara spia di questo atteggiamento è il rifiuto plateale mostrato da entrambi verso la narrativa a tematica esibitamente civile, verso la correttezza programmatica, verso opere variamente piegate a istanze ritenute esogene e per lo più portatrici di falsa coscienza. Con atteggiamento che in altri contesti potrebbe essere etichettato come di «destra» o «conservatore» (ma i contesti, appunto, sono decisivi), i due scrittori segnano nettamente e provocatoriamente la loro distanza dai contenuti impegnati, dalle intenzioni pedagogiche e dalle priorità dell’agenda umanitaria e filantropica che tanta parte continuano ad avere nella produzione artistica e letteraria. La coscienza, i suoi autoinganni e accomodamenti, sono tra i principali bersagli narrativi di questi autori presso i quali, non a caso, la dimensione intimistica e autobiografico-sentimentale (con tutto il suo corredo di ossessioni) assume un ruolo centrale, facendone tra l’altro gli involontari pionieri dell’«autofinzione» all’italiana, un genere che ha goduto di una discreta fortuna critica negli ultimi dieci-quindici anni.
L’immagine del mondo che emerge dalla loro opera è insomma ben poco pacificata: cercano insistentemente l’attrito, il contropelo, ma più per forza di carattere e istinto che per strategia politica o empito rivoluzionario. Se entrambi, ad esempio, corteggiano la pulsione esibitoria che innerva la cultura e la comunicazione contemporanea, lo fanno all’insegna di un ribaltamento sostanziale: all’opposto dei profili costruiti ad arte per competere nelle vetrine mediatiche, l’autoritratto che proiettano nel mondo con le loro opere esalta grottescamente gli aspetti più sinistri, antisociali e disturbanti della loro personalità. Walter Siti, che pure tra i due è certamente colui che mostra relazioni più ambivalenti con ciò che egli stesso chiama Occidente e con gli sviluppi più estremi e postumani di quest’idea, autore di un romanzo dal titolo sfrontatamente apocalittico e ironicamente disperato come Resistere non serve a niente, nella nostra conversazione dichiara pur sempre (e amabilmente) che «la letteratura deve rompere i coglioni»: altrimenti a cosa serve?
Di Mari e della sua riluttanza poetica e candidamente misoneista si è già accennato: quello che sembra più accomunarli è in questo senso la priorità attribuita al fare artistico nella sua unicità pratica e simbolica, un confronto strettissimo con la scrittura come tecnica e memoria storico-enciclopedica (come sempre meno succede tra le nuove generazioni di scrittori cresciuti in contesti radicalmente multimediali, entrambi gli autori hanno trascorso la gran parte della loro esistenza davanti e dentro ai libri), e il fatto che l’impegno seriamente assunto a compiere fino in fondo la propria vocazione artistica comporti quasi automaticamente un’infrazione dei codici etici ed estetici correnti, verso l’alto e verso il basso: la ricerca di un verità allo stesso tempo brutale e sublime. Tutto tranne che la medietà.
In questo senso, anche le rappresentazioni critiche più apparentemente evidenti relative a un Siti realista e a un Mari impregnato di suggestioni fantastiche vengono parzialmente contraddette. La letteratura comunica solo per vie oscure con la lingua quotidiana; la narrativa (o almeno quella più fedele alla propria specificità) è un sistema di significazione che per sua natura trascende le convenzioni e si colloca dalle parti del sogno, dell’inconscio, delle simbologie rituali, alla faccia di una diffusa e stucchevole retorica che vede lo storytelling come una specie di passe-partout capace di aprirci un po’ tutte le porte: dall’autocura alla pubblicità, dal colloquio di lavoro al rimorchio in discoteca. Per questa sua anarchica e sostanziale alterità, il tentativo critico di ingabbiare la scrittura in definizioni precise pare qui destinato allo scacco: «Il realismo è l’impossibile» secondo Siti (è il titolo di un libretto quasi programmatico da lui pubblicato nel 2013), e per Mari, come afferma nella nostra intervista, «la vera letteratura è sempre fantastica»: intendendo con ciò dire che ogni riuscita opera narrativa costruisce un mondo a se stante, una deformazione/manipolazione coerente della realtà media fattuale. La curiosa coincidenza di un Émile Zola (universalmente conosciuto e catalogato dalla manualistica come uno dei padri – se non il padre – del realismo ottocentesco) considerato da entrambi come scrittore antimimetico, immaginifico e favoloso, mi sembra in questo senso emblematica.
Per concludere, una breve nota tecnica. Quella dell’intervista è una strana pratica letteraria, un genere con caratteristiche specifiche, a metà strada tra la performance e il ritratto. Né lo scrittore né l’intervistatore hanno piena padronanza del materiale prodotto: il risultato è una sorta di compromesso. Ben lungi dall’essere una semplice e fedele trascrizione di uno spontaneo scambio orale avvenuto in punto preciso del tempo e dello spazio, l’intervista è un lavoro di selezione e costruzione, manipolazione e organizzazione retorica finalizzata a un risultato. A maggior ragione quando si tratta di interviste lunghe e articolate come quelle che seguono. Da lettore, studioso universitario, critico «militante», ho avuto modo di incrociare questi due artisti in diverse occasioni, di intervistarli, di scriverne. Questo libretto è il risultato di un certo numero di articoli, incontri e occasioni che mi hanno portato dalla loro parte, o dalle loro parti. Più nello specifico si tratta di un assemblaggio di conversazioni svolte in luoghi e momenti diversi (per lo più in vista della presente opera ma non esclusivamente, alcune di queste hanno trovato una prima pubblicazione su riviste come Lo Straniero o siti internet come il Tascabile), da me suturate, montate, mescidate a comporre un testo in qualche modo compiuto o comunque in linea rispetto a un’immagine – autoriale, intellettuale, dialettica, perfino stilistica – che avevo in mente. Il beneplacito finale dei diretti interessati è caduto su un lavoro di questo tipo, non senza piccole o grandi censure, interventi correttivi, addenda (in un paio di occasioni scritti da loro stessi, quindi nati in forma testuale e non orale). Il risultato è insomma il prodotto uniformato di una notevole eterogeneità di mezzi e fonti. Per la fiducia, oltre che per la generosità e la franchezza con cui Walter Siti e Michele Mari si sono prestati alle mie domande e al lavoro di revisione, colgo qui l’occasione per ringraziarli di nuovo.
Estratto da Scuola di demoni. Conversazioni con Michele Mari e Walter Siti di Carlo Mazza Galanti (minimum fax, 2019).