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raziano Graziani è uno dei conduttori di Fahrenheit, e con Radio 3 ha collaborato anche per Pantagruel e Tre soldi. Scrive di teatro contemporaneo, ha lavorato per Rai 5. Scrive per minima&moralia e altre riviste. Graziani, che è anche un nostro autore, ha scritto parecchi libri. Sono gli ultimi due però che ci aiutano a capire l’ultimissimo, Il taccuino delle piccole occupazioni (Tunué). Pubblicati nel 2015 e nel 2018, l’Atlante delle micronazioni e il Catalogo delle religioni nuovissime (entrambi Quodlibet) sono degli inventari che raccolgono alcune deviazioni di spazio e tempo: microscopiche nazioni autonome che poi dissolvono, o microculti dimenticati (come il Cosmismo) e spersi per il mondo.
Ecco che nel Taccuino questo sforzo enciclopedico Graziani lo carica sulle spalle di Girolamo, il protagonista, che fermo alla finestra o in giro per la città mugina e rimugina, senza fidarsi troppo di idee e persone, e senza capirci troppo: e quando sembra capire, capovolge il discorso. Viene in mente una poesia di Nino Pedretti, “E pensare che il mondo | è fatto di gente come me | che mangia il radicchio | alla finestra | contenta di stare, d’estate, | a piedi nudi”. Il problema è che Girolamo non è contento, e con Graziani abbiamo cercato di capire perché.
Nicolò Porcelluzzi: Il Taccuino delle piccole occupazioni è una riflessione sull’identità come costruzione fittizia: nel libro spuntano doppelgänger, vecchi amori come ologrammi, orologiai che non riparano, medici che non curano… È un paradosso, ma la materia umana più calda – la sfera emotiva, i desideri, i tormenti – la nascondi nell’apparato burocratico, nei certificati:
La morte è capace di torsioni temporali inaspettate nel mondo parallelo della certificazione, si dice Girolamo. Pensa che bello sarebbe dire ai suoi genitori, mamma, papà, i certificati di morte sono scaduti, ora non è più certo che siete morti, potete pure tornare a casa, che ne dite, è tanto che non ci facciamo una chiacchierata tutti assieme, vengo a cena io e porto il vino…
Fingi di raccontare un uomo buffo, almeno: all’inizio, mentre passi duecento pagine a sezionarne i traumi e gli spaiamenti, tutti i raggi della depressione.
Graziano Graziani: Girolamo è un personaggio emerso poco a poco da un tentativo di scrittura che precede la versione attuale del Taccuino e che aveva dimensione e ambizioni molto diverse: l’idea di base era cartografare una serie di idiosincrasie contemporanee. L’insofferenza verso un certo normativismo che appartiene alla nostra società, ma anche quello che ci imponiamo da soli.
Pian piano queste storie mi hanno suggerito il personaggio che è diventato non solo il protagonista del Taccuino, ma anche la sua ossatura: una delle linee di racconto è composta proprio dalle sue disavventure, catalogate a partire dal problema che Girolamo deve affrontare: “Girolamo e il nome”, “Girolamo e i mostri”, “Girolamo e il giudizio di Dio” e così via. È chiaro che, osservandolo fronteggiare situazioni contro le quali non può fare nulla, come la gentrificazione del suo quartiere, lo svuotamento di senso di alcune attività che una volta gli riempivano la giornata, come leggere il giornale, o – cambiando scala di ragionamento – la paura della morte che il nostro presente ha praticamente rimosso, la reazione immediata è quella del sorriso. Perché il tono volutamente leggero trasforma l’annaspare di Girolamo in una lotta contro i mulini a vento. Per restare sulle metafore cervantiane, anche Alonso Quijano non è altri che un malato, un ossessivo, un marginale se osservato dal punto di vista della società, se ci pensi. Girolamo dunque è sicuramente un personaggio buffo, ma il suo essere buffo nasce dalla solitudine, dall’essere inadeguato rispetto al presente, dall’insofferenza che tramuta le persone poco integrate nei riti sociali in gente scontrosa, ruvida, magari come estrema forma di difesa verso l’esterno che preme sulla nostra mente.
NP: Una solitudine totale che assorbe ogni forma di rapporto con gli altri, gli affetti, la collettività, le ipotesi di scontro…
GG: Per Girolamo, personaggio poco socievole, non esiste nemmeno il riscatto di una dimensione sociale, dell’impegno in una qualche forma collettiva di affrontare la realtà cercando di cambiarla (processo in cui non crede più). Questa sua ritrosia e disillusione lo condannano a una vita contemplativa in sofferenza, fatta di borbottii e rimuginamenti mentali, che è di fatto quanto sappiamo di lui. Gli avvenimenti che gli capitano li apprendiamo dal suo rifletterci su, e c’è pure il sospetto che, come un po’ tutti facciamo, Girolamo cerchi di smussare gli angoli di quanto gli succede, di addolcire o inasprire i toni seguendo il corso dei propri desideri più che una cronaca fedele dei fatti. Questo processo di ricostruzione della memoria, e in fin dei conti dell’identità, rende evanescente quello che noi diamo per granitico: chi siamo e cosa ci è successo. La memoria, al contrario di quanto a volte si crede, è un processo di continua riscrittura più che un deposito di documenti. È tradimento, se vogliamo è narrazione. Di fronte a questo processo l’identità come dispositivo rigido si frantuma e rivela il suo carattere fittizio.
Girolamo però non è nemmeno un illuso: è consapevole del proprio essere inadeguato, è consapevole della propria finitezza che mal sopporta, essendo ossessionato dall’enciclopedismo. È anche un collezionista compulsivo: vorrebbe conservare tutto come vorrebbe sapere tutto, ma sa perfettamente che queste sue aspirazioni sono destinate al fallimento. Cosa resterà della sua esperienza umana se non ha nemmeno una famiglia cui consegnare un ricordo privato? E cosa resterà dell’esperienza umana in generale quando la nostra specie avrà esaurito il suo tutto sommato breve percorso nell’incommensurabile storia dell’universo? Girolamo non è un filosofo e non sa rispondere a queste domande, che non fanno che esagerare il suo senso di inadeguatezza.
NP: Il cervello di Girolamo è così preso a vorticare, tra universo e coscienza, che questa finisce per sdoppiarsi. Dal passeggiatore novecentesco, l’alienato, si entra in un altro luogo letterario, ottocentesco questa volta: il doppelgänger, l’alter ego.
GG: Nel percepirsi minuscolo, infimo, insignificante, Girolamo avverte che la propria identità non è soltanto fittizia, frutto di una costruzione, ma è anche tutt’altro che unica. Ecco che il tema del doppio si infiltra, dapprima come ombra maligna, inquietante, che poi si ribalta paradossalmente in una speranza.
Ho definito il Taccuino un libro sulle occasioni mancate, perché il protagonista si sofferma spesso su quello che non è riuscito a realizzare o a trattenere, a partire dalla sua storia d’amore con Viola, personaggio che da reale diventa sempre più evanescente. Il doppio, allora, può persino trasformarsi in un doppio ideale, in un’idea platonica, la versione migliore e perfetta di noi. Ma, mentre viviamo le nostre vite imperfette, questo ideale di perfezione – che nel lessico e nell’immaginario contemporaneo è incarnato dal winner, dal soggetto performante e sempre vincente – può ribaltarsi in un elemento che ci schiaccia, che pretende troppo da noi. Girolamo, rinunciatario per natura, è pronto a lasciare andare questa versione vincente di sé e a contemplarla malinconicamente, sapendo che lui non sarà mai così.
NP: E qui entra in gioco la burocrazia.
GG: A sua volta la burocrazia è un doppio, una mappa che racconta un territorio. Tutti noi abbiamo certificati di nascita, di residenza e ne avremo persino alla nostra morte. Ogni nostro passo lavorativo è scandagliato dal punto di vista fiscale, ogni comportamento giuridicamente dubbio lo è dal punto di vista giudiziario. La tecnologia rende questa mappatura (che è anche forma di controllo) pervasiva come mai prima e c’è chi si è lanciato a immaginare distopie in cui il nostro rating personale sarà alla base delle nostre possibilità di accesso a una vita migliore in termini di abitazione, lavoro, opportunità. Distopie che, a dire il vero, in luoghi come la Cina cominciano ad essere messe in pratica.
La riscrittura della realtà da parte della burocrazia non è affatto un’opera inerme e meramente rappresentativa. È un’opera normativa e omologante, che chiede alla realtà di conformarsi al modello, al modulo, al regolamento, anche quanto questo è contraddittorio, inutile o ha effetti dannosi. I personaggi che animano questa minuziosa opera di riscrittura appaiono a Girolamo come personaggi bizzarri, quasi degli adepti di una religione misteriosa, perché similmente alle religioni che aspirano a creare già ora un mondo più giusto sulla terra, conforme ai propri principi morali, anche la burocrazia chiede alla realtà di uniformarsi al modello, di essere “migliore”, a posto con i conti, con i censimenti, con i regolamenti. Standardizzata, omologata, controllabile. Al di là, questa volta, delle morali e delle ideologie. La burocrazia si rivela essere il doppelganger perfetto, il gemello maligno che si cela sotto la parvenza di perfezione.
NP: “È la realtà, non la certificazione, che dovrebbe piegarsi e aderire al modello ideale, che è quello riportato sui moduli”. Il libro è un esercizio di confusione tra realtà e simulacro. Nel corso della lettura, il gioco però si sbilancia: la realtà quotidiana si piega al modello, o meglio, a un’astrazione che è più reale, perché enciclopedica/bulimica (Girolamo vorrebbe sapere tutto, ma sembra consapevole di non sapere niente, davvero), perché il tempo non ha una direzione lineare ma salta, avanti e indietro (il Girolamo pensionato precede il Girolamo liceale, e poi ancora i cinquant’anni, poi i trenta)…
GG: Da un lato c’è la questione della burocrazia, di cui ho detto, che si intreccia con il normativismo che imponiamo a noi stessi attraverso i modelli di comportamento, gli ideali estetici o culturali (e quindi si interseca anche con il tema dell’identità fittizia). Dall’altro c’è la questione, cui pure ho fatto cenno, dell’enciclopedismo come ambizione a comprendere tutto, a catalogare il mondo secondo un ordine di senso. La nostra epoca è certamente figlia dell’illuminismo e della fiducia nella scienza di stampo positivista. La scienza è oggi l’unica vera religione, quella a cui ci rivolgiamo per chiedere salvezza. Basta guardare cos’è successo con il Covid-19, la facilità e persino l’entusiasmo con cui abbiamo rinunciato alle libertà costituzionali per seguire – sensatamente – ciò che la scienza ci diceva di fare. Il cambio di paradigma dalla religione alla scienza ha invertito il nostro rapporto con il tempo: se prima si riteneva che il passato fosse il momento in cui risiede la grandezza e la conoscenza, un’età dell’oro da cui il presente si è distanziato ma che può essere interrogata attraverso la tradizione; con la scienza l’età dell’oro diventa il futuro, il progresso, e anche la politica si adegua trasformandosi in una promessa di miglioramento, di rivoluzione, di giustizia che verrà.
Ora però anche la nozione di progresso è in crisi e “il futuro non è più quello di una volta”, come scriveva Mark Strand. Così Girolamo, come i suoi contemporanei, vive intrappolato in un presente che sembra non passare mai, un presente dilatato che non impara dal passato e non lascia spazio all’immaginazione del futuro. Siccome, tuttavia, è nato e cresciuto nell’ultimo scorcio di Novecento, vive questa condizione come un limbo, o meglio, come una realtà in frantumi che non sa rimettere insieme.
Questa frantumazione, per Girolamo, diventa letterale: la sua memoria comincia a non funzionare bene, ricorda episodi di vent’anni fa come se fossero accaduti il giorno prima, i frammenti della sua vita si dispongono nella sua testa in una sequenza disordinata. Lo stesso accade alla narrazione della storia: andando avanti nel libro troviamo Girolamo anziano, poi adolescente, poi di mezza età: come se gli episodi della sua vita fossero un pulviscolo esploso a cui è difficile fornire una collocazione.
“Finché siamo vivi manchiamo di senso e il linguaggio della nostra vita è intraducibile”, scriveva nel 1967 Pasolini in un saggio intitolato “Osservazioni sul piano sequenza”, dove accostava la morte al montaggio cinematografico. Girolamo avverte questa assenza di senso che accompagna l’essere in vita. La vorrebbe contrastare, ma ha paura della morte, alla quale pensa ma che – al pari dei suoi contemporanei – di fatto rimuove, non sapendo darle una collocazione in un presente espanso dove l’unica moneta di scambio è il benessere che si può comprare.
Allo stesso tempo cerca di collezionare il sapere, acquistando enciclopedie a fascicoli e libri di divulgazione scientifica. Vorrebbe che il senso delle cose, raccontato da chi ne sa più di lui, smettesse di vorticare furiosamente sopra la sua testa e si fermasse in una visione di insieme cristallizzata e chiara, dove ogni cosa ha finalmente la sua collocazione. È un’ansia infantile, dalla quale non sa emanciparsi nemmeno in tarda età. Preferirebbe credere ai racconti di quando era piccolo, alle sistematizzazioni che gli hanno fornito allora, dal catechismo e al sussidiario, ma sa che una volta che ha capito che si tratta appunto di racconti, al massimo di approssimazioni, non si può più tornare indietro.
NP: Come si smonta, scrivendo, il piano del tempo? Con quali strumenti si ricostruisce?
GG: Non so se esiste un “metodo” per smontare il piano del tempo e ricostruirlo. Quello che volevo uscisse fuori dalla lettura è un senso continuo di approssimazione, un insieme dove i pezzi si incastrano tra loro perché sono contigui, hanno degli elementi ritornanti, delle evoluzione e delle involuzioni, ma l’incastro non doveva essere perfetto. Avevo bisogno che ci fossero delle sbavature. Dei salti logici. Girolamo alle volte abita in centro, altre volte ha a che fare con la periferia. Alle volte è solitario e taciturno fino alla misantropia, altre volte ha amici con cui passa il tempo. Non ha pretese artistiche ma a un certo punto si mette a scrivere. Le sbavature, gli incastri non perfetti, servono a creare una sensazione di approssimazione, che è quella che prova Girolamo al cospetto dei propri ricordi. Ci sono delle sfocature nella sua memoria, che lui si trova a reinventare, forse a manipolare, per collocare tutto in una sequenza dotata di senso. Ma questa operazione è sospetta di precarietà, così come la sua identità si rivelerà tutto sommato una costruzione, le sue convinzioni delle approssimazioni, e la sua pretesa di unicità nient’altro che un’illusione frantumata dall’esistenza di un doppio che vive una vita simile alla sua, ma forse migliore.
NP: Più volte il Taccuino è stato accostato a Calvino, soprattutto per Palomar, che cammina per la città e osserva elenca e rimugina… forse però è un’associazione sbrigativa. Leggendolo mi sono venuti in mente altri riferimenti, quella specie di internazionale meta-letteraria popolata da catalogatori girovaghi e fulminati come Enrique Vila-Matas e Danilo Kiš, Pamuk.
GG: L’accostamento con Palomar nasce probabilmente dalla struttura. Così come Palomar fa cose (Palormar guarda il cielo, Palormar fa la spesa, etc…) così Girolamo è alle prese con qualcosa che definisce quell’episodio della sua vita (Girolamo e la fotografia, Girolamo e la religione, Girolamo e l’ipnosi). Il Taccuino ha però un andamento molto diverso rispetto all’opera di Calvino, fatta di quadri piuttosto fermi. Qui il tema è un tempo vorticoso e in frantumi, e i pezzi sono in qualche modo incollati insieme da un secondo piano narrativo, dove Girolamo è alle prese con il tentativo di mettere ordine alla propria memoria. Ciò che li differenzia è l’inquietudine.
I riferimenti che fai sono sicuramente più legati all’universo letterario con cui mi sono confrontato, a partire da Danilo Kiš dell’Enciclopedia dei morti al Pamuk del Libro Nero, dove l’esplorazione della città (attività che impegna anche Girolamo) è anche una ricerca di sé stessi. Per il discorso sulla burocrazia sicuramente il Saramago di Tutti i nomi è stato un elemento importante delle mie lettura, e per altro quel libro è il primo di una sequenza di tre (gli altri sono La caverna e L’uomo duplicato) che riflettono proprio sul tema del doppio. Il Portogallo, dove ho studiato per un anno, resta per me un riferimento irrinunciabile, imbevuto delle immancabili eco pessoiane, di eteronomi e di realtà che evaporano come i sogni. Ma un tassello che aggiungerei è la satira di Bulgakov alla burocrazia staliniana: Bulgakov era un uomo di teatro e anche a lui sicuramente non sfuggiva il cortocircuito terribile e allo stesso tempo affascinate tra finzione e realtà che un simile apparato aveva instaurato.
NP: Il passo regolare del libro, il vocabolario ponderato ma familiare, la seconda fila dove vengono sepolte violenza sesso e turpiloquio, sono elementi che fanno pensare al Taccuino come un libro nato (anche) per le scuole, sai, quelle letture misteriose che sono i primi passi di tanti lettori che poi lo diventano, oppure no, quel periodo dorato dove tra apparecchi notturni e braccialetti da spiaggia si mescolano appunto Calvino e Hemingway, Deledda e Ginzburg… era qualcosa che avevi in mente?
GG: No, non ho pensato all’adolescenza in prima battuta, ad essere sincero. Ma se c’è un elemento che calza con quanto dici è il fatto che, in un certo senso e in un modo del tutto particolare, questo può essere considerato un romanzo di formazione. La differenza rispetto al bildungsroman è che l’evoluzione del personaggio non arriva mai davvero, non c’è una ricomposizione degli elementi della vita di Girolamo in una parabola che dà senso a posteriori a tutto il resto. Anzi, semmai c’è una scomposizione. Come ho detto in precedenza, Girolamo si crogiola nelle sue ansie adolescenziali senza mai decidersi a uscirne. Se le porta dietro nell’età adulta e forse, proprio per questa ragione, tutto diventa per lui ancora più sfuggente. Girolamo preferisce chiudersi in casa e osservare il mondo, oppure si trasforma in flaneur non per calarsi in un’avventura urbana, ma solo per mettere ordine a qualcosa che scuote la sua esistenza. Se fosse nato in un’altra epoca e un’altra regione del mondo avrebbe potuto essere un hikikomori. Il suo indugiare è patologico e, di fatto, si traduce in una patologia, la narcolessia che lo coglie ogni volta che deve prendere una decisione più o meno importante.
Il Taccuino oscilla così in una realtà che è per certi versi buffa, stralunata, per altri malinconica. La quasi assenza elementi “crudi” della vita come la violenza o il turpiloquio non sono l’effetto di una scelta edulcorante, ma corrispondono al mondo malinconicamente placido di un personaggio che, se può, si tiene fuori dai conflitti. Come ha paura di scegliere, Girolamo ha paura del conflitto, preferisce piuttosto darsi vinto in partenza. Ambisce a un mondo dagli angoli smussati che, in realtà, è proprio la causa prima delle sue “occasioni mancate”. Perché è in fondo lui stesso l’elemento da cui emerge la malinconia che lo affligge. Non so se tutto questo possa in qualche modo avere a che fare con la dimensione che descrivi tu, se così fosse certo non mi dispiacerebbe. Di certo quella di Girolamo è una sorta di “biografia cogitabonda”, la storia di qualcuno che si sente un po’ fuori luogo, un po’ costretto suo malgrado a fare cose che non vorrebbe, una dimensione che certamente appartiene molto a quella fase dell’esistenza.
NP: Mi piacerebbe sentirti parlare di Viola, l’ideale romantico di Girolamo, o forse il perfetto opposto… Viola è una donna o un fantasma?
GG: Come tutte le persone che non siamo noi, Viola è un po’ l’una e un po’ l’altra cosa. Nel senso che, nel libro, la sua figura è di volta in volta quella di una donna in carne e ossa e quella evanescente che si è depositata nella mente di Girolamo, e con la quale poi comincia a dialogare come se fosse un personaggio. Ovviamente, nella vita reale, riusciamo poi a distinguere tra realtà, immaginazione e ricordo, mentre a Girolamo questa semplice distinzione nel corso del romanzo comincia a sfuggire. Però vorrei sgomberare il campo da un possibile equivoco: Viola non è semplicemente lo strumento olografico per raccontare l’ennesimo solipsismo maschile. All’inizio è un personaggio reale e, in un certo senso, anche un destino possibile. Un destino che Girolamo non riesce a cogliere. L’ennesima occasione mancata di cui è costellato il romanzo, forse la più importante, perché è quella che Girolamo carica di una maggiore ansia di riscatto ma dalla quale, quando finalmente si avvicina, finisce per fuggire.
Se Viola si trasforma in un personaggio evanescente è perché Girolamo ha costantemente bisogno di dialogare con i suoi fantasmi. Tra la speculazione e l’innamoramento, forse per Girolamo è possibile una terza via: un innamoramento da inquadrare come qualcosa di profondamente contraddittorio, che di solito si racconta come un fatto esclusivamente sentimentale, uno slancio totalizzante e disinteressato verso l’altro, e che invece spesso ha a che vedere con l’amor proprio, più che con l’amore, e con l’ansia della solitudine. Girolamo, come molti, vive questa contraddizione.
NP: Prima abbiamo parlato di Calvino, degli accumuli enciclopedici di Palomar; un accostamento frettoloso magari, per noi, ma che si spiega anche infilando le tue opere precedenti, Catalogo delle religioni nuovissime e Atlante delle micronazioni. Insomma nel Taccuino sembri suggerire che il catalogo e l’atlante siano strumenti necessari per faticare nel lavoro letterario, oggi. Come se fosse una risultante del mondo cognitivo che ormai abitiamo, di cartelline e archivi digitali e appunti e gallerie… il cervello dello scrittore non è più un oceano, ma una cascata.
GG: Mi affascina la letteratura di catalogo, il suo procedere per elenchi e non per storie lineari, il meccanismo di depositare frammenti per creare una visione d’insieme. L’Atlante delle micronazioni e il Catalogo delle religioni nuovissime sono composti da storie che ho raccolto in giro, potremmo definirli quindi operazioni di non fiction, ma comunque sia per me hanno più a che fare con la composizione letteraria che col saggio. Con il Taccuino – che è uno strumento di annotazione, meno solenne ma tutto sommato assimilabile ai cataloghi e agli atlanti – siamo invece interamente nel terreno del romanzo, della fiction. Nel momento in cui mi sono trovato a riflettere su come rendere l’idea centrale del libro, basato su una serie di ricordi sconnessi, mi è ancora una volta venuta in soccorso l’idea di una catalogazione. Il taccuino precede il catalogo, è l’accumulazione di momenti prima che subentri l’ordine della “bella copia”, e per questo mi sembrava lo spazio ideale in cui inserire questa storia. C’è un aspetto che mi affascina particolarmente degli inventari, dei cataloghi, ed è il tentativo di mettere ordine nel caos: sono strumenti che servono ad afferrare il mondo in modo analitico e, allo stesso tempo, sono inevitabilmente destinati al fallimento.
Non solo perché la mappa non sarà mai davvero rappresentativa del territorio, ma anche perché nell’epoca della complessità le approssimazioni non sono più funzionali. Anzi, alle volte sono persino sospette. Pensa all’Africa, sottodimensionata nel planisfero, e alla Groenlandia, enormemente sovradimensionata: un difetto della riduzione grafica, certamente, ma siamo poi così convinti che se il continente africano avesse avuto un peso diverso nella storia delle nazioni e della geografia non si sarebbe optato per un’altra soluzione? Gli strumenti enciclopedici ci raccontano di un mondo in cui sembrava possibile trovare una collocazione a ogni cosa, così come le ideologie sembravano dirci quali direzioni avrebbero preso le società e come collocarci all’interno di esse; ma si trattava spesso di un abbaglio, quando non di una menzogna. Oggi la complessità dell’epoca contemporanea – scientifica, politica, esistenziale – ci ha messo in guardia rispetto alle semplificazioni, ma ha anche reso tutto più indecifrabile.
Mappamondi, astrolabi, dizionari e classificazioni, gli strumenti desueti di una lettura del mondo che poteva essere contenuta nello spazio minimo di una biblioteca casalinga, mi suggeriscono un simile sentimento di spaesamento: li trovo affascinanti proprio nel momento in cui si rivelano approssimativi e poco accurati, perché se da un lato collocano l’esperienza umana in una dimensione più incerta e precaria, ridimensionandone la protervia, dall’altro proprio per questa ragione ci danno idea di quale peso abbia avuto l’immaginazione delle donne e degli uomini che li hanno utilizzati; e sono quindi, in modo del tutto imprevisto, depositari di speranza.