C arte False inizia a Venezia, nel cimitero dell’isola San Michele, che ospita Iosif Brodskij. Lo scrittore si era sempre considerato solo di passaggio in questa città, ma la morte lo aveva inchiodato qui, bloccandolo in un ritaglio di terra accanto a Ezra Pound, lontano persino dagli altri stranieri di spicco, relegati a qualche lotto di distanza: se tutti abbiamo una fine, questa non è quella che Brodskij aveva in mente. Neanche Valeria Luiselli aveva previsto di diventare cittadina veneziana, eppure le era capitato: lo racconta nello stesso libro, di come un giorno avesse bisogno di un dottore e, passaporto italiano alla mano, prendere la residenza in una città in cui tutti vanno, ma in cui nessuno vive, fosse la soluzione migliore. Tra queste due Venezie, per così dire, si svolgono le passeggiate della flanause Luiselli, tra spazi abbandonati, scrittori perduti e tentativi di disorientamento: se Valeria Luiselli fosse un fenomeno urbano, sarebbe un relingo, uno di quei terrain vague che ogni tanto si trovano all’interno delle città.
La incontro al Festival degli Scrittori di Firenze, dove è in finale per il premio Von Rezzori per la fiction straniera con La storia dei miei denti (LaNuovaFrontiera, 2016). Luiselli parla italiano, oltre allo spagnolo e all’inglese, così continuiamo a spostarci per tutta la conversazione tra le lingue per cercare ogni volta il significato giusto, la parola esatta che ci manca. Vivere in between, come dice lei, è un privilegio dato a chi, come lei, è abituato agli spostamenti e ha vissuto sempre a metà tra qui e l’altrove, sopra quegli aeroplani che percorrono il cielo: nata a Città del Messico, Valeria Luiselli ha vissuto per quasi tutta la vita fuori dallo stato, prima al seguito di suo padre, un diplomatico di stanza in Corea del Sud e in Sud Africa, e, dopo un periodo in Messico, straniera in una terra familiare, come studentessa in India e a New York, dove vive oggi.
Benjamin scriveva che “non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta” e allora le chiedo come ci si abitua a non avere punti di riferimenti geografici fissi, a vedere che, a poco a poco, si smette di essere in continuità anche con il posto in cui si è nati; ciascuno di noi non conosce che la propria esperienza, ma questo continuo spaesamento deve aver implicato un allenamento infinito, una capacità di entrare in sintonia con altri luoghi, altre lingue. Luiselli mi racconta che non è stato facile spostarsi e ricominciare ogni volta, “abito a New York da molto ormai, ma ancora oggi, soprattutto negli Stati Uniti di Trump, ho la gana, il desiderio di andarmene. Sento, però, che la mia vita è ormai radicata in questa città. Credo anche,” continua,
che sia stato proprio questo vivere tra lingue e paesi diversi, senza sentirmi a casa in nessuno, ad aver segnato in particolare il mio lavoro, ad aver lasciato un’impronta di estraneità in tutto quello che scrivo, in più di un senso, a più di un livello: il ritmo, le parole che scelgo per arrivare a un certo significato, hanno sempre, per me, un aspetto di estranietà, come se mi muovessi ogni volta in una lingua straniera. Questo significa non solo che mi trovo a leggere in più una lingua allo stesso tempo, ma piuttosto che la mia testa vive costantemente in bilico tra diverse lingue, tra l’inglese, lo spagnolo, l’italiano, o il portoghese. Significa che mi succede di scrivere una bozza contemporaneamente in inglese e in spagnolo – durante il lavoro di revisione, poi, ne scelgo una sola.
Leggendo i suoi libri, mi pare che siano proprio la pluralità di storie e di voci che l’autrice è in grado di raccontare ad essere la sua geografia, come se la letteratura diventasse una mappa per orientarsi; i suoi libri sono pieni di scrittori in esilio, di riflessioni sulla lingua e su come certe parole riescano a determinare il nostro senso di spazio – dalla saudade alla sindrome di Ulisse, passando per la nostalgia.
Ha scritto i suoi tre libri (Volti nella folla, Storia dei miei denti e Carte false, editi in Italia da LaNuovaFrontiera) tutti in spagnolo, una lingua che per Luiselli, che per lungo tempo ha vissuto in paesi anglofoni, deve essere stata, per forza di cose, privata – la lingua della famiglia, di casa intesa come affetti – e letteraria, una lingua che esisteva fuori dal tempo e dallo spazio. Valeria mi racconta che, in effetti, ha imparato a leggere e scrivere proprio in inglese: si è trasferita nella Corea del Sud che ancora non aveva sei anni e là i genitori l’hanno iscritta in una scuola inglese; “non ho mai imparato il coreano, ma la Corea degli anni Ottanta era molto diversa da quella di oggi: in pochi parlavano inglese e la divisione tra coreani e stranieri era netta.” Intorno ai vent’anni decide, però, di tornare a Città del Messico per iniziare lì l’università.
Era un modo per ricreare un contatto con la città in cui ero nata ma in cui non avevo mai vissuto, per riprendere il controllo di quella lingua: è stato allora che ho deciso di iniziare a scrivere un libro in spagnolo, un progetto preciso e consapevole per (in)scrivermi dentro la città. Sidewalk, il titolo inglese, Papelos Falsos quello spagnolo, è infatti un libro di mappe, di saggi sulle passeggiate urbane e allo stesso tempo è un libro sul linguaggio e la traduzione. Lo spagnolo mi serviva proprio per questo scopo, invece gli altri miei lavori sono stati dettati da scelte meno deliberate in questo senso.
La lingua è un affare importante: la scrittrice ha lavorato come interprete per i casi di immigrazione infantile per il tribunale di New York, l’estate in cui aspettava l’arrivo della sua green card: il suo compito era quello di sottoporre un questionario di quaranta domande ai bambini richiedenti asilo, provenienti dal Centro America (Messico, ma anche Honduras, Guatemala) che non parlavano inglese. Lo racconta in Tell me how it ends (Coffee House Press, 2017, in Italia il prossimo autunno), la sua ultima pubblicazione, una versione ampliata di un saggio uscito lo scorso anno per la John Freeman’s Anthology: doveva raccogliere tutti i dettagli che sarebbero potuti tornare utili agli avvocati durante le udienze in tribunale. Le domande richiedevano risposte esatte (“perché sei venuto qui? Quando sei entrato negli Stati Uniti? Come? Dove sono i tuoi genitori?”), ma il problema è che questi bambini spesso non avevano che scheggie di storie da raccontare: i dettagli diventavano confusi, così come era circondato dall’indicibilità anche il loro viaggio, o il loro passato; alcuni di loro erano così piccoli che le madri o le nonne si erano viste costrette a cucire i numeri di telefono dei loro sponsor americani nei vestiti, perché non sarebbero stati capaci di ricordarli altrimenti.
Ci raccontiamo delle storie per vivere, scrive Joan Didion all’inizio del suo White Album: c’è un sollievo nella narrazione di un evento, nel fatto che le cose inizino e poi finiscano, nella possibilità di interpretare ciò che vediamo. Invece, Tell me how it ends, l’ultimo libro di Valeria Luiselli, inizia con sua figlia che la strattona ripetendo “raccontami come finisce, mamma”, che le chiede cosa succederà a quei bambini, ma Valeria Luiselli non sa cosa rispondere; qui le storie non finiscono, non è certo quello che accadrà ai bambini intervistati, come non si sa cosa è successo nel tragitto che li ha portati da casa loro a quella scrivania di legno del tribunale di New York. “Non volevo imporre una narrazione sulle storie di questi bambini, riempirne gli spazi vuoti, – mi spiega – ma, al contrario, volevo mostrare quei silenzi, il fatto che queste storie non avessero una fine. È un racconto accurato di quello che ho sentito: non è un reportage giornalistico, ma un resoconto esatto di quello che è stato, della mia esperienza di ascolto, di come questi bambini parlano di sé”.
In Tell me how it ends ci sono delle parole come coyote (i trafficanti), la Bestia (uno dei treni che risale dal Messico alla frontiera), la hielera (una cella refrigerata dove i bambini vengono custoditi dopo essere stati fermati oltre il confine) , che servono a mettere insieme questi pezzi di storia perché compongano un disegno leggibile; quello che Valeria Luiselli si è prefissata è però, prima di tutto, ripensare al linguaggio che usiamo per parlare di immigrazione, perché questa non venga letta solo come un problema di sicurezza interna. I termini “emergenza” e “urgente” che venivano usati per parlare di questi bambini volevano intendere che a essere urgente era la loro schedatura e deportazione oltre i confini degli Stati Uniti; “la giornalista Sonia Nazario ha fatto un lavoro importante in questo senso, però non ci sono abbastanza scrittori che affrontano il problema del linguaggio. Volevo che questo libro contenesse questa riflessione, tra le altre cose: una persona può essere priva di documenti validi, ma non può essere illegale. Illegale si può dire di un’azione, non di un essere umano.”
In quel libro, l’autrice racconta di come alla fine di quell’estate avesse deciso di partire verso il sud, verso la frontiera, insieme al marito e ai figli. Valeria e suo marito, lo scrittore Álvaro Enrigue, sono entrambi messicani e, al tempo, ancora in attesa della green card: per evitare qualsiasi problema, ogni volta che i poliziotti che li fermano, dichiarano di essere là per scrivere un western. “Siete venuti fino a qui per l’ispirazione?” gli rispondono i poliziotti, tra le risate, ma, si chiede la scrittrice, “come fai a spiegare che non è mai l’ispirazione che ti porta a raccontare una storia, ma piuttosto una combinazione di rabbia e desiderio di fare chiarezza? Come facciamo a spiegargli che quaggiù non abbiamo trovato l’ispirazione, ma un paese bellissimo e a pezzi?”.
Tell me how it ends è il primo libro che Luiselli scrive in inglese: questo perché è proprio nella lingua del potere, quella che può decidere sul destino dei singoli, che questa conversazione deve essere portata avanti; “so che questo libro è scritto per i giornalisti, per la discussione che si è creata negli Stati Uniti attorno all’immigrazione, non certo per le comunità di migranti con cui lavoro: loro sanno esattamente come stanno le cose. Se l’ho scritto è perché volevo che ci si fermasse a riflettere seriamente su questo argomento.” Il libro racconta l’estate del 2015, in piena amministrazione Obama, ma molti dei giornali hanno scritto che questo è il primo libro dell’era Trump: leggendolo, mi sono chiesta se, in un certo senso, con la presidenza di Trump, con i ban e la minaccia della chiusura delle frontiere un po’ ovunque nel mondo, non sia stato più facile prendere una posizione, non solo più necessario, se, insomma, non mi sia sentita in parte anche sollevata dal senso di colpa che provo nei confronti dei privilegi di cui dispongo, perché sapevo contro chi dovevo scagliarmi. Le cose non potranno che andare peggio, ma il confine tra bene e il male sembra oggi più netto.
Sono tempi difficili. Gli Stati Uniti e il Regno Unito, che, come notavi tu, sono i due principali paesi di lingua inglese e stanno chiudendo le frontiere, vivono un tempo di decadenza, ma mantengono un dominio su queste questioni, non hanno perso potere. È anche vero che la discussione, soprattutto sui social media, proprio per come sono concepiti, non permette sfumature o un’analisi approfondita, ma tende a diventare dicotomica e questo è pericoloso, perché non si dà spazio alla complessità: abbiamo bisogno di maggiore complessità, non di semplificazione. È vero che quello che racconto è successo durante l’amministrazione Obama ed è vero che con Trump le cose vanno peggio; questo però, allo stesso tempo, ha obbligato la sinistra a prendere una posizione su temi di cui prima stentava a parlare. Per lungo tempo le femministe di colore, ispaniche, musulmane, sono state lasciate da sole a lottare, senza poter contare sull’appoggio di nessuno, mentre le femministe bianche – ho molte amiche che si definiscono così, white feminists, ma è chiaro che io non sono considerata bianca negli Stati Uniti – restavano in silenzio. Va benissimo che oggi siano apparsi i pussy cats hats, le marce, e tutto il resto, almeno ne parliamo, ma, mi chiedo, dove siete state fino ad ora? Dobbiamo sperare che, se anche Trump subisce l’impeachment o se dura solo quattro anni, tutte queste battaglie non vengano dimenticate, che il prossimo presidente, democratico magari, non permetta che le coscienze si acquietino di nuovo.
Le faccio notare che come lei anche Mohsin Hamid, Krys Lee e Hisham Matar hanno scritto di esilio, di immigrazione e cosa significhi essere straniero, e che tutti e tre lo hanno fatto in inglese, pur non essendo questa la loro prima lingua: durante un’intervista la scrittrice sudcoreana Krys Lee ha detto che per lei l’inglese era un ponte, un modo per far sì che le sue storie venissero lette. Le chiedo cosa ne è allora dell’inglese, come verrà cambiato da queste scritture, se si farà più poroso: “più persone parlano una lingua – mi risponde – più questa diventa complessa, si trasforma: è la contaminazione che permette alle lingue di restare vive. Un esempio? I verbi usati più di frequente sono i più irregolari: facci caso, pensa alla declinazione italiana o spagnola di un verbo comune come il verbo essere. Più sono usati e più cambiano nel tempo: accade lo stesso alle parole, più persone le usano, più si trasformano. Inoltre, penso che se usi un’altra lingua, non dovresti tentare di usarla come i parlanti nativi: hai la responsabilità di portare un po’ della tua foreignness nella lingua”.
Sapendo che Valeria Luiselli co-traduce i suoi libri insieme a Christina McSweeney, le chiedo come cambi la percezione della sua lingua in questo processo: mi risponde che non è lei a fare il grosso del lavoro, ma che è a partire dal testo tradotto da McSweeney che riscrive i suoi testi in inglese. A volte, poi, è da quella versione che trae una nuova edizione spagnola, in un circuito che può diventare infinito e che si promette ogni volta di interrompere proprio per questo motivo. Lo stesso Tell me how it ends era nato come saggio per la John Freeman’s Anthology, ma è stato solo quando l’autrice lo ha riscritto in spagnolo che ha raddoppiato la sua lunghezza, trasformandosi perché ripensato per la comunità ispanica. Le aggiunte sono state poi tradotte anche in inglese e, una volta revisionate, sono diventate parte della versione uscita quest’anno: si potrebbe andare avanti per sempre, mi dice.
Ma è proprio da questi passaggi continui, da questo rimpallo tra le lingue e le interpretazioni che è nato anche il suo romanzo La storia dei miei denti: l’assurda biografia di Autostrada, il banditore d’asta più bravo del mondo, che vende la sua collezione di denti di personaggi famosi, è un romanzo che prende vita da una costante rilettura della propria voce, da una specie di eterna traduzione del proprio testo. Commissionato dalla fondazione d’arte della fabbrica di succhi Jumex, che lo voleva per un catalogo di una mostra, Luiselli lo ha trasformato in una specie di romanzo d’appendice scritto non per i curatori, bensì per i lavoratori della fabbrica di succhi di frutta. Alcuni dipendenti avrebbero letto i capitoli e li avrebbero commentati, Valeria avrebbe ascoltato le riunioni e sarebbe andata avanti da lì, settimana dopo settimana, in base alle notazioni, ai feedback degli operai: il risultato è un libro divertente, strano e sorprendente.
“Sapevo di non aver nessun diritto di annoiare questi operai che si erano prestati volontariamente per l’esperimento: dovevano divertirsi durante quegli incontri e mi sono impegnata a far sì che accadesse” mi dice, spiegando come effettivamente questo libro sia il prodotto di quelle voci: “sono stati fondamentali non solo per le storie che raccontavano o per le interpretazioni del mio testo, ma anche dal punto di vista dello stile: un paio di loro avevano un tono brillante e sfacciato, da chi sa cavarsela nel mondo, altre avevano un certo umorismo, tutte hanno contaminato la mia scrittura. E non solo, ad essere interessante era la dinamica che si era creata tra loro: c’era tra queste persone una particolare alchimia, un’ironia privata, li sentivo persino flirtare; questo tono allegro e divertito si è fatto strada nella scrittura e nello spirito con cui affrontavo la scrittura.”
“Avevo ragione, vero, Voragine?”“Infatti, mio caro Autostrada, aveva ragione.”
“E immagino che sia questo il momento in cui dico che vissi per sempre felice e contento, no?”
“Immagino di sì, Autostrada.”
“Allora scrivi quest’ultima riga e andiamo a conoscere qualche bella signora.”
(da La storia dei miei denti, LaNuovaFrontiera, traduzione di Elisa Tramontin)