L a parola occulto evoca troppo spesso fantasmi sinistri e sospetti ingiusti di spiritualismo. Bisognerebbe guardare invece alla sua storia, che non è neanche troppo segreta. Occultus viene da un verbo latino, occŭlo, il cui suono ci sembrerebbe buffo se non fosse che la penultima sillaba (cŭ) è breve: l’accento cade sulla terzultima. Òcculo, che significa: “nascondo”. Niente di spiritico, insomma.
È per questo che uno scrittore occulto non dev’essere necessariamente un amante delle séances, un evocatore di spettri e spiriti, un appassionato di tavole ouija. Si è occulti se si sa celare, se si prevede l’atto della scrittura in quanto disseminazione di tasselli che possono anche portare alla rivelazione di un segreto. Ma magari no.
Tra gli scrittori occulti, però, ce ne sono alcuni che decidono di cospargere le proprie opere di cenere e indizi; ma non sempre affinché l’atto di seguirne le tracce, spolverandole, implichi una rivelazione, ma perché invece faccia sfacciatamente affacciare su misteri ulteriori. Misteri bifronte, perlomeno, ossia: a due facce e a due fronti. Perché, per affrontare il mistero c’è bisogno di dualità, di contrasti. Non di soluzioni semplici, perché le cose semplici non sono le più belle. E perché la letteratura, quella potente e infinibile, non è certo spiegabile o racchiudibile (comprensibile) attraverso percorsi a chiave o formulette.
E poi, non si rivela mai a chi aneli a risposte univoche. Semmai si ri-vela, ossia aggiunge ulteriori veli. Veli di verità ineffabili. Sottili, trasparenti, a volte; ma veli che fanno viaggiare. Vele che fanno volare.
Perché le nostre teste, dai testi, captano onde: onde interpretazionali. Da dove? Per dove? Onde? Appunto.
La grande letteratura, come la vita, non è univoca ma plurivoca: parla con un coro di voci: voci sfalsate e talvolta stridenti. Non conduce in alcun dove che non sia l’eterno viaggio. E così, quando ci si imbarca nella lettura di “opere universo”, che prevedono non l’univerbo ma il multiverbo, come nella teoria cosmologica del multiverso (quanta poesia nella pluralità!), seguire le tracce tanto per seguirle è talvolta più proficuo che seguirle per arrivare sherlockholmesianamente chissà dove.
Eppure, le strade portano sempre da qualche parte, lo sa bene il goffo ispettore dei libri di Conan Doyle. Libri, infatti, che giocano con le parole assai più di quanto non ci si aspetti. Prendiamo il nome Sherlock, ad esempio. Come non vedervi una serratura, un lucchetto (lock) magari “bello e buono” (sheer), anche se questo aggettivo, in tal senso, si applica ai concetti e non alle cose? O forse dovremmo scorgervi soltanto un colpo di fortuna (sheer luck)? O magari anche un ricciolo (lock) di una lei (she)? Chi può dirlo? È solo una teoria di assonanze, di quasi omofonie, campata per aria. Ma i suoni campano per aria. L’aria li diffonde, li fa ondulare. Ed è così che, con moto ondoso, ci raggiungono. Perché le nostre teste, dai testi, captano onde: onde interpretazionali. Da dove? Per dove? Onde? Appunto.
Restando con Doyle, pure Watson ci sembra un nome sospetto. Suona come la domanda paternalistica e pretesca “what, son?”, “cosa c’è, figliolo?”: domanda che sarebbe tipica di Sherlock, o anche dell’altezzoso Moriarty; e il suo, di nome, tra l’altro sembra rievocare anch’esso qualcosa: un’arte della morte, forse?
Tutte speculazioni, ovviamente. Elucubrazioni che non portano a nulla e da nessuna parte. Ma è proprio questo il punto. Chi può dire che Doyle non avesse in animo di significare anche tramite i suoni dei nomi? Nominare è infatti un modo di enumerare. Ex numerare. Uscire dalla teoria dei numeri per chiamare le cose come in una rincorsa infinita. Infinita, come la serie dei numeri, appunto.
Tutte speculazioni, ovviamente. Elucubrazioni che non portano a nulla e da nessuna parte.
Ma non tutti gli scrittori si affidano a queste alchimie, e meno male! E poi non è affatto detto che Doyle lo facesse, anzi. Ma alcuni sì. Alcuni lo fanno, e la fanno oscura. James Joyce, ad esempio. Nel caso delle sue opere, peccherebbe d’ingenuità chi bramasse una fine, una soluzione. È il fine, qui, che conta, non la fine. E il fine, è un fine gioco. Un percorso a ostacoli come quello dell’esistenza, dell’esistente, da seguire senza esitare. Esistando. Non perché il viaggio conduca in qualche luogo, ma perché il senso è proprio l’attraversare. Un’attrazione per chi sa versare, direi: come accade allo zio Claudio in Amleto, che nelle orecchie di un Amleto père non ancora spettro, sa versare eccome il suo veleno; attirando tra l’altro così l’attenzione dell’attraente Amleto fils, il quale, sì, rivelerà l’arcano, ma non per spiegarci alcunché: piuttosto, per abituarci a dubitare ancora.
E dubitare è quel che Joyce vuole che facciamo sempre, come lettori. Non certo per squarciare il velo della rivelazione, ma perché l’azione di ri-velare ne sia il senso ultimo. Il senso del leggere, leggero e profondissimo. Favorevole, ossia, alle profondità, ma solo perché quegli abissi, li intuiamo già dal colore delle superfici. Perché “leggere leggermente” significa legger menti. E certi scrittori, Joyce incluso, proprio questo scelsero di fare. Entrare nelle teste tramite i testi. E così, entrare nelle vite. Lasciarne traccia, oscuramente.
Per qualche ragione paradossale, uno dei punti più controversi e bui di uno dei libri più controversi e bui di sempre, l’Ulisse, è proprio il suo incipit: un luogo che invece, in un romanzo normale, dovrebbe puntare su tutt’altro. Sulla chiarezza epifanica e rivelatrice, ad esempio, come accade in molti casi per Virginia Woolf. O sul dettaglio scioccante ma non ancora afferrato, un dettaglio che tornerà, chissà, in seguito, per illuminare trame intricate. Il che avviene in alcuni romanzi d’appendice e persino in certe opere cardine del filone che oggi chiamiamo noir.
Niente di tutto questo nel libro di Joyce. Il romanzo, che pure si apre in medias res – stratagemma in grado di farci bucare tutta una serie di barriere finzionali e di darci l’impressione d’esser catapultati nella vita vera – descrive scene di straordinaria ordinarietà. Sin dal suo inizio: senza nulla che sembri preannunciare stravolgimenti, rivelazioni, anormalità affascinanti o perturbanti. In aggiunta, si apre con un personaggio gregario, che nel libro ha ovviamente un suo ruolo, ma che non possiamo davvero annoverare tra i protagonisti principali della storia. Eccolo, l’incipit dell’incipit:
Stately, plump Buck Mulligan…
Premetto che Joyce amava ricordare ai suoi conoscenti di non avere alcuna fantasia, e di prendere tutto quel che scriveva, direttamente dalla vita. Questo personaggio, Buck Mulligan, è modellato su un suo amico-nemico, Oliver St John Gogarty. Gogarty aveva un figlio, tra i cui plurimi nomi compare quello di Odysseus. Immaginiamoci la scena. Nel 1922 Gogarty apre il libro – o forse, più probabile: nel marzo del 1918 Gogarty apre il fascicolo della Little Review in cui compare il primo episodio del libro dal nome Ulysses, scritto dall’amico di un tempo e ora sua nemesi.
Primo shock: proprio il titolo, che è la traduzione, popolarizzazione latina dell’altisonante greco Odysseus, da lui scelto per il proprio figlio, carne della sua carne. Joyce, invece, ne seleziona la variante più mondana, e lo fa per dare il nome alla carne del proprio spirito.
Secondo shock: questo libro si apre con lui stesso, con Oliver, Buck Mulligan. E che fa Mulligan nel libro? Tante cose, ma due in particolare: ha in mente di ellenizzare l’Irlanda, di renderla assai più “greca” delle olive di Carlo Verdone; e anche di spargere in giro per Dublino la diceria che Leopold Bloom (il vero protagonista del romanzo) possa essere omosessuale. Bloom, la cui moglie è lievemente meno fedele del suo modello omerico, Penelope, ha anche lui una sorta di amante. Una sorta perché il suo è un flirt epistolare. E come si chiama questa donna a cui spedisce missive piccanti? Martha. Esattamente come si chiamava la moglie di Gogarty, la madre di Odysseus: Martha (Duane).
Joyce sembra mandare messaggi, non a un pubblico generalista, ma a uno che fosse addentro alla sua stessa vita; o a chi, nel futuro, avrebbe dedicato il suo prezioso tempo a scandagliarla, quella vita.
Bella presa in giro per un uomo che un tempo di Joyce era stato amico. Amico al punto da condividere con lui un’abitazione, quella stessa torre in cui vivono, nel libro, proprio Stephen Dedalus (personaggio autobiografico che porta lo stesso pseudonimo usato da Joyce nelle lettere agli amici, tra cui a Gogarty…) e Buck Mulligan.
Nella realtà, Joyce e Gogarty vi abitarono insieme dal 9 al 15 settembre del 1904. Ma Ulysses è ambientato a giugno: il 16 giugno, il giorno fatidico in cui la futura compagna e moglie di James, Nora, nella tipica impasse tra giovani amanti “prese in mano” la situazione, e non solo… e lo “rese uomo”. Nel libro, Stephen Dedalus fa capire a Buck Mulligan che quella sera (il 16 giugno, nella finzione) non sarebbe tornato a stare nella torre con lui, e non ci tornerà più. Nella vita, Joyce lascerà per sempre la torre il 15 settembre del 1904, qualche settimana prima di abbandonare la sua Irlanda.
Il 15 settembre: una data strana per le storie segrete del libro. Non certo perché un suo futuro traduttore italiano sarebbe nato proprio in quel giorno; e non certo perché in quel giorno sarebbe nato anche un altro grande ammiratore di Joyce, il Nobel per la fisica Murray Gell-Mann – il quale avrebbe nominato le particelle subatomiche quark prendendone il nome proprio da un libro di Joyce, il Finnegans Wake.
Insomma, nella prima parola dell’Ulisse abbiamo, frattalicamente, quasi già tutto. L’incipit della prima parola di Ulysses è infatti una signatura, una firma che rimanda a Joyce stesso.
Il 15 settembre è importante, in realtà, per un altro motivo. È importante perché, nella vita vera di Joyce, fu il compleanno di un suo flirt: un’altra Marta, Marthe Fleischmann. Di lei, dopo averla “incontrata” nel giorno del suo, di compleanno, il 2 febbraio del 1919, a Zurigo (Ulisse sarebbe “nato” il 2 febbraio del 1922, a Parigi), disse cripticamente a un amico: “ieri sera ho toccato le parti più calde e più fredde del corpo di una donna”.
La sua, in definitiva, è una teoria di Marte, una teoria marziana. Un incrocio di destini in una strana storia, di cui nei giorni nostri s’è persa la memoria. O meglio, più che persa, non s’è mai avuta. Perché chi mai sarebbe stato in grado, al tempo, di ricostruire questo mosaico oscuro? Forse soltanto Joyce stesso; e in parte Gogarty, per quel che lo riguardava, almeno.
Joyce sembra mandare messaggi, non a un pubblico generalista, ma a uno che fosse addentro alla sua stessa vita; o a chi, nel futuro, avrebbe dedicato il suo prezioso tempo a scandagliarla, quella vita. Prezioso come il cognome di uno dei possibili amanti di Nora a Trieste, ma questa è un’altra storia. Una storia che non finisce e non inizia. Semmai, finizia e inisce. E infatti, la storia non finisce qui. Torniamo allora all’inizio, all’incipit dell’incipit:
Stately, plump Buck Mulligan…
Perché ho messo in grassetto alcune lettere? Perché Joyce aveva intuito, credo, esattamente come i fisici della materia, che il linguaggio, alla stregua dell’universo, è granulare; e i suoi granuli sono le lettere. Lettere sempre significative. Aristotele scriveva libri con lettere per titoli, ed è questo che si propone di fare anche Stephen Dedalus nell’Ulisse. Stephen, Stefano. Perché mai Joyce sceglie per sé questo nome? Per riportarci un’eco strana, quella di Santo Stefano protomartire, ovvero, in inglese, St Stephen protomartyr.
Insomma, nella prima parola dell’Ulisse abbiamo, frattalicamente, quasi già tutto. L’incipit della prima parola di Ulysses è infatti una signatura, una firma che rimanda a Joyce stesso. Ma rimanda anche a Gogarty: Oliver St John, il modello di Mulligan; che si chiama Buck, ma Buck è un nomignolo. Il suo nome vero è Malachi, come il profeta Malachia. E Oliver, suo modello, era anche lui una sorta di profeta (St John).
Una teoria teologica, torbida e oscura. Infatti, qualche riga dopo il suo avvento, Mulligan intonerà l’introibo, l’incipit della messa latina: “Introibo ad altare dei”. Tante pagine dopo, nell’episodio magico, “Circe”, il quindicesimo, lui stesso, ma tramutatosi magicamente in Padre Malachi O’Flynn, griderà: “Introibo ad altare diaboli”, fantomatico incipit di una messa nera. Di una Black Mass. BM: Buck Mulligan.
Soltanto questo? Certo che no! Perché BM sono anche le lettere con cui inizia e finisce il nome Bloom. E sono anche, invertite (come nelle messe nere) le iniziali di sua moglie: Molly Bloom.
Ma Joyce, negli anni di Dublino, si era avvicinato a un sapere che, quello sì, chiameremmo a ragione “occulto”. Aveva letto Swedenborg, e aveva prestato attenzione agli ermetisti.
Personaggi di finzione? Forse no, se è vero che uno dei modelli di Bloom era un tale dublinese di nome Alfred Henry Hunter (Bloom, nella corrispondenza con Martha si firma proprio Henry). Hunter era sposato con una donna di nome Marion Bruère: Marion come Molly (che ne è il diminutivo). Un nome mariano, quasi, che ben si accoppia, evangelicamente, con le varie Marte già viste.
O forse è tutta un’allucinazione, una casualità, un’invenzione.
Ma se non lo fosse, chi mancherebbe all’appello, nel linguaggio cifrato di questo incipit dell’incipit? Il personaggio principale, Leopold: Leopold Bloom, che nel libro viene chiamato Poldy.
Insomma, l’incipit “Stately, plump Buck Mulligan” include i personaggi principali e anche tanti loro modelli reali.
Perché? Per chi sono scritte queste lettere? A chi sono inviate? Sono forse scritte per esser destinate a restare lettera morta, dead letter? Ma in inglese le dead letters, lo sa bene il Bartleby di Melville, sono le lettere non recapitate. E a chi le sta spedendo Joyce? Ai suoi amici, ai suoi nemici, ai suoi sodali? A Gogarty? Alla sua compagna Nora? Oppure a noi?
È un rituale oscuro, il suo. È la storia di un figlio in cerca del padre, è stato detto. Un figlio che si chiama Dedalus, come il padre di Icaro, costruttore del labirinto. Un labirinto senza uscita. Ma Joyce, negli anni di Dublino, si era avvicinato a un sapere che, quello sì, chiameremmo a ragione “occulto”. Aveva letto Swedenborg, e aveva prestato attenzione agli ermetisti. Si era avvicinato a Yeats, il quale, nell’Ordine Ermetico della Golden Dawn diretto dal satanista Alistair Crowley, si faceva chiamare DEDI, che sta per Demon Est Deus Inversus. Simile, in parte, più a daddy (papà) o più a Dedalus?
Alistair Crowley fu uno dei primi, recensendo Ulysses, a carpirne il segreto più intimo: è un “novel of the mind”, scrisse, un romanzo della mente; che come la mente ha tanti segreti.
Chissà, forse non è un caso il fatto che proprio Alistair Crowley fu uno dei primi, recensendo Ulysses, a carpirne il segreto più intimo: è un “novel of the mind”, scrisse, un romanzo della mente; che come la mente ha tanti segreti. Segreti futili, oppure profondi. Favorevoli, ripeto, ai fondali. Ma sempre fondali segreti e occulti.
Occulti e segreti come il motivo primordiale che spinse Joyce a scrivere. “The Sisters”, il primo suo racconto, firmato “Stephen Daedalus”, uscì nel 1904, nel giorno esatto del primo anniversario della morte della madre (in Ulisse il fantasma principale è quello della madre di Stephen che appare a più riprese e ossessiona la mente del figlio). Ruota, quel racconto, attorno a una parola strana: rosicrucian, rosacrociano. E il suo protagonista, in absentia perché morto, è un prete: un prete di nome James. Come il nome del figlio.
Nell’Ulisse Stephen Dedalus, nei suoi pensieri bui – pensieri “confinati in bare”, dice lui – si domanda tante cose, tra cui: “trovi le mie parole oscure. L’oscurità ce l’abbiamo nell’anima, non trovi?”. E anche: “chi mai in qualche dove leggerà queste parole scritte?” (corsivo mio).
Alessandro Bergonzoni, reincarnazione italiana di Joyce, in un suo spettacolo ipotizza l’esistenza di un signore orientale di nome Chimai: un signore che può tutto, che sa tutto. Le trite domande “chi mai potrà farlo?” e “chi mai potrà capirlo?” sono in realtà affermazioni: “Chimai potrà farlo”. “Chimai potrà capirlo”! Chimai siamo noi. E allora, tanto vale tradurla anche noi, quella riflessione profetica di Stephen: cambiarla, perché tradurre significa cambiare: “Chimai in qualche dove leggerà queste parole scritte!”
“Chimai potrà”: lo diceva anche il refrain di un famoso cartone. E se è vero quello che scrisse Joyce nel Finnegans, alludendo a un tempo in cui “voi e loro foste noi”, Chimai è un lui; ma un lui che potremmo essere noi. Un profeta. John lui. Chimai: il signore orientale. Un signore del buio, che nell’oscuro, disorienta.