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crivere di come vediamo: ad arricchire la categoria degli studi visuali, arriva in libreria una nuova raccolta di saggi di Ferdinando Amigoni per Quodlibet, dal titolo L’ombra della scrittura. Racconti fotografici e visionari. Professore di letterature comparate all’Università di Bologna e esperto di fotografia, Amigoni in questo libro tenta di tracciare una storia dello sguardo moderno a partire da alcuni grandi scrittori del Novecento europeo. Nella serie di saggi di cui è composto il volume incrocia i lavori di Corrado Alvaro, Georges Perec, Vladimir Nabokov e Gianni Celati con i grandi teorici dello sguardo, come Walter Benjamin, Roland Barthes, Susan Sontag, in una riflessione aperta e vivace sulla nascita della fotografia, che per lui ha provocato una rivoluzione nella storia “pari all’invenzione dell’alfabeto”.
Viviamo in un’epoca in cui l’immagine ha già da lungo tempo assunto un carattere assolutamente pervasivo; quasi un secolo fa Walter Benjamin scriveva che “il modo secondo cui si organizza la percezione sensoriale umana […] non è condizionato soltanto in senso naturale, ma anche storico” e questo significa che una storia dello sguardo ci serve per capire come sia cambiata e come cambierà la nostra percezione della realtà, che è sempre più mediata e compresa attraverso il senso della vista. Il fatto che entrambe queste riflessioni sul guardare mettano al centro del loro discorso il mezzo fotografico è un’ulteriore prova – se ce ne fosse ancora bisogno – del suo ruolo nella storia moderna.
Lasciando largo spazio ai testi e con una scrittura brillante, Amigoni racconta una storia fatta di visioni, immagini e testimonianze, che a tratti coincide con quella raccolta da un libro recentemente pubblicato da Il Saggiatore, col titolo appunto, di Storia dello sguardo, a firma di Mark Cousins. Inoltre, come terzo testo complementare e ipotetico proseguimento, vale la pena citare anche il nuovo saggio di Simone Arcagni, L’occhio della macchina (edito da Einaudi). Un saggio che dal Novecento passa alla ipercontemporaneità per parlare di cibernetica e computer vision, nel tentativo di definire come oggi vedono, non tanto le persone, quanto le macchine.
Curioso che il punto di partenza della riflessione di Cousins sia lo stesso di Arcagni: entrambi gli autori aprono i testi con due citazioni di Leonardo da Vinci, ma se Cousins sceglie un passo sull’occhio e il suo lavoro (“Or non vedi tu che l’occhio abbraccia la bellezza di tutto il mondo?”), Arcagni sceglie una frase che, oltre a sottolineare l’importanza dell’occhio nella registrazione della “bellezza dell’universo”, si preoccupa che una scarsa consapevolezza possa lasciare “[l’]anima in una oscura prigione, dove si perde ogni speranza di rivedere il sole, luce di tutto il mondo”. In questa “oscura prigione”, spiega Arcagni, rischia di cadere pure l’occhio di chi non è in grado di riconoscerne le qualità e la ricchezza di prospettive.
Amigoni racconta una storia fatta di visioni, immagini e testimonianze.
In questa prospettiva storica allora appare più chiaro il ruolo del testo di Amigoni: pure con tagli e aspirazioni diverse, anche lui infatti scrive una sua storia dello sguardo o, anche, una storia della letteratura al tempo della riproducibilità tecnica. Mettendo in fila i racconti degli scrittori e rileggendoli alla luce delle riflessioni nate in ambito teorico, Amigoni suggerisce che da questa sequenza si possa scoprire qualcosa di più sulla storia del nostro sguardo; come se nella nascita del doppio fotografico in Alvaro, nel virus della verità di Nabokov o nell’oggetto amoroso della fotografia di Perec si possa leggere in controluce come e quanto è cambiato il nostro rapporto con l’immagine riprodotta, dalla sua nascita fino alla fine dello scorso secolo.
Apre la raccolta Corrado Alvaro (forse la vera nota di originalità di una selezione altrimenti piuttosto prevedibile) con un’opera che potrebbe aggiungersi a quelle della weird fiction italiana. Belmoro, infatti, l’ultima e incompiuta grande opera di Alvaro (morto nel 1956) racconta la storia di un uomo che cadde sulla terra: il protagonista del libro, è un essere dalle fattezze umane, che è arrivato da un imprecisabile aldilà per finire nel futuro prossimo (il romanzo è ambientato nel 2000), dove il mondo è stato unificato da una terza e devastante guerra mondiale.
Il romanzo racconta l’angoscia e la perdita dell’identità. Belmoro, insomma, da essere polimorfico, non è altro che “simbolo”, come spiega Amigoni, “a livello somatico, della morte di una plurisecolare e illusoria fiducia nel […] concetto di identità individuale” . Belmoro, infatti, è anche lui alla ricerca della sua identità e per tornare a quella che dovrebbe essere la sua misteriosa forma originaria, ingerisce “una pillola ipertecnologica”, come la chiama Alvaro. Niente pillola rossa o pillola blu à la Matrix: Belmoro viene, invece, trasformato in un’ombra, un negativo fotografico:
Mi fermai in fondo presso la vetrina di un gioielliere che stava chiudendo. Le luci erano ancora accese, e mi affacciai sullo specchio della vetrina. Mi venne da voltarmi indietro per vedere chi fosse l’individuo che proiettava la sua ombra sulla superficie dello specchio. Ma non vidi nessuno. […] Mi mossi ed essa non si mosse. […] Scoprii, attraverso quali prove e angosce, che ero stato trasformato in una immagine fotografica.
Amigoni scrive che nell’angoscia provata da Belmoro si ritrova il “sentimento oceanico” del Freud del Disagio della civiltà, lo “smarrimento connesso alla diluizione dei confini dell’io in una dimensione sconosciuta, forse il tempo”. Questo perché è il tempo, continua, “la sostanza stessa dell’immagine fotografica”, capace di restituire insieme passato e presente. Roland Barthes diceva che l’è stato è il noema della fotografia, ma di Belmoro resta solo il passato e se continua a vivere vive da fantasma. Nella forma del revenant, scrive Amigoni, forse ritroviamo “l’ultimo residuo di un aldilà in un mondo iperrazionalistico in cui è scomparsa ogni traccia di trascendenza”.
Lo stesso scontro tra razionalità e trascendenza abita le pagine di Invito a una decapitazione di Nabokov, un romanzo “inesauribile”, “interamente fondato su metafore ottiche e fotografiche”. Il libro racconta le tre settimane di prigionia di un condannato a morte, Cincinnatus C. (il nome, nota Amigoni, suona come seeing seeing natus see, cioè nato per vedere), la cui colpa coincide proprio con la sua stessa esistenza: nato in un mondo in cui ogni ente è “translucido”, il suo crimine è di essere “opaco”, impenetrabile alla vista, ossia “il crimine dei crimini perché pone in radicale discussione le fondamenta stesse del mondo in cui si trova a vivere. Fotografia, pena capitale e tortura si incontrano qua nella figura di M’sieur Pierre, il carceriere di Cincinnatus, un voyeur appassionato di strumenti ottici: Amigoni ne sottolinea “l’orrore dello sguardo” “il cui orizzonte utopico consiste nel poter osservare tutto nei minimi particolari”. Pierre infatti deve allora spiare continuamente Cincinnatus, nel tentativo di strapparlo alla sua “opacità”, cioè alla sua individualità. In questo regime della trasparenza risuonano certo forti le eco dei regimi totalitari del Novecento, quello sovietico e nazista da cui lo stesso Nabokov era fuggito, o del panopticon foucaultiano: come scrive Amigoni “vedere (fotografare), conoscere e punire, dunque: tre verbi per un solo, universale processo”. Nonostante tutto, sembra suggerire Nabokov, resistere è possibile e persino conservare “macchie sentimentali di opacità”: Cincinnatus, raccontando la sua infanzia, dice che ogni volta che qualcuno sembrava osservarlo troppo a lungo, lui “riprendeva il controllo di sé e stringendosi quel suo sé al petto lo trasferiva in un luogo sicuro”.
“Da dove cominciare?” recita uno dei fogli preparatori scritti da Georges Perec per quella costellazione che è W o il ricordo d’infanzia. La stessa domanda sembra muovere la lettura che compie Ferdinando Amigoni nel saggio che dedica allo scrittore francese, in cui si respira, in ogni pagina, lo sforzo ermeneutico e interpretativo che, nel rispetto dell’autore, si muove sempre con la massima attenzione perché “sul suo terreno, Perec, – scrive Amigoni – si muove meglio di qualsiasi suo lettore” e, di conseguenza, l’attenzione non è mai troppa. Nel saggio dedicato a W o il ricordo d’infanzia, che si intitola Il nibbio e l’avvoltoio, Amigoni fonda la sua ricerca sulle fotografie che per Perec funzionano come “puntello” per il racconto autobiografico, prove certe di una indiscutibile esistenza.
La Referenza è, d’altra parte, il punto centrale delle teorie di Barthes: il mezzo fotografico certifica in modo inconfutabile una presenza (Susan Sontag diceva invece che “la fotografia non si limit(a) a riprodurre il reale, ma lo ricicl(a)”) Sembra paradossale però che in W o il ricordo d’infanzia di foto non ce ne siano, che Perec le evochi soltanto. Sono invece numerose le descrizioni, che sono il materiale da cui muove Amigoni, non solo di fotografie di famiglia (del padre e della madre scomparsa, di Perec bambino o degli zii adottivi), ma anche di materiali come copertine di riviste, di fumetti e quant’altro, fatto che evidenzia l’attenzione alle immagini che sempre ha attraversato la scrittura di Perec.
La fotografia, secondo la lettura di Amigoni, è allora uno dei nodi centrali per l’interpretazione della sua opera: se è vero che Perec inserisce numerosi richiami intertestuali in tutte le sue opere, mimetizzandoli ogni volta, è vero che in un libro come W – una riflessione sull’assenza che ha segnato la sua vita (la morte dei genitori prima di ogni altra cosa) – ogni indizio, sia esso una parola o un’immagine, merita un’indagine approfondita. Ne La cosa (EDB) Perec scrive: “la costrizione è ciò che permette la libertà, la libertà è ciò che nasce dalla costrizione”: in quel libro Perec metteva a confronto l’andamento della sua scrittura con le composizioni free jazz, ma torna qui utile per capire il modo in cui l’assenza influenza le sue opere. Pur tendendo al bianco (cioè tornando continuamente sulla scomparsa dei suoi genitori), questa assenza è motore stesso della sua scrittura e ne produce l’architettura, le strutture.
La fotografia, secondo la lettura di Amigoni, è allora uno dei nodi centrali per l’interpretazione di Perec.
Amigoni, appassionato e da lungo tempo studioso di Perec, tiene bene a mente questo tassello peculiare per trovare nuove possibili chiavi di lettura, come appare evidente dal parallelo che traccia tra W o il ricordo d’infanzia, e il saggio freudiano Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci (un’altra volta Leonardo da Vinci!), la cui vicinanza risalta anche dai due titoli. La constatazione è che Perec proceda nella costruzione di W o il ricordo d’infanzia anche attraverso un utilizzo scientifico delle immagini, erigendo così “un monumento con materiali poveri, zeppo di vuoti, di buchi, di zone bianche, di toppe improvvisate e maldestri rammenti”, ma perfettamente stabile anche grazie all’uso sapiente di queste assenze e di queste mancanze. La lettura di Amigoni non fa che confermare un luogo caro alla critica perecchiana, ovvero la costruzione di un romanzo solido e duraturo su dei vuoti, ma lo fa indagando come questi vuoti siano rappresentati anche da fotografie in cui si evoca solo la “referenza” senza mai rendere tangibili i protagonisti.
A chiudere il percorso di Amigoni è una coppia, quella di Gianni Celati e Luigi Ghirri, descritta attraverso Come un fotografo sbarca nel Nuovo Mondo, storia di un reporter inviato da un settimanale a fotografare “le umili genti del Po”. Nel racconto, il fotografo, un uomo “irreprensibilmente moderno” alla ricerca di uno scoop giornalistico, incontra il guardiano di un piccolo cimitero sperduto, che gli rivela l’esistenza di un Nuovo Mondo, un luogo che potrebbe fare la fortuna dei suoi caporedattori. Convintosi a seguirlo, il fotografo si ritrova su un isolotto deserto, abbandonato a se stesso. Su questa piccola parabola Amigoni, in un saggio uscito qualche anno fa, aveva scritto: “non è affatto difficile cedere alla tentazione di spiare […] ma cedere equivale a condannarsi a ciò che a più riprese Ghirri chiama un’anestesia dello sguardo”.
Conclude la sua raccolta di saggi Amigoni con la perdita della vista: d’altra parte il sodalizio tra Ghirri e Celati nasceva proprio da questo bisogno di evitare questa “anestesia dello sguardo” e veniva inaugurato da Viaggio in Italia, il volume fotografico collettivo che promuoveva “una foto liberata dalle vedute sensazionali, dagli effetti realistici, dal vizio del bottino estetico”. “Lontane da qualunque forma di semplicismo, le foto di Ghirri danno sollievo”, dice Amigoni: c’è una sensazione di sospensione nelle sue fotografie che percorre anche certe pagine di Celati, immagini di un mondo fatto di luce e silenzio; una risposta alla trasformazione dello sguardo in una pornografia bisognosa di stimoli continui, la deriva che Ghirri e Celati sembrano temere più di tutti e a cui più di tutti sembrano voler porre rimedio. Dagli anni Ottanta, rifletteva Celati “il desiderio e la macchina [sono] diventati la stessa cosa, perché eccitazione e il meccanismo eccitante non sono più distinguibili”; la sua opera e quella di Ghirri dovevano privilegiare allora “un narrare raffreddato, ossia con un deciso abbassamento della soglia di intensità”, perché fosse ancora possibile vedere.
“Non c’è niente di antico sotto il sole” diceva sempre Ghirri: nelle sue Lezioni di fotografia insegnava che, per imparare a vedere, bisognava prima di tutto dimenticare se stessi, le cose come le conosciamo. Farlo, però, non assomiglia a diventare semplici riproduttori, ma piuttosto “relazionarsi col mondo in maniera più elastica, non schematica”, perché il mondo “continua a esistere senza di noi e (…) continuerà a esistere anche quando avremo finito di fare fotografia”. Fotografare diventa un atto di testimonianza storica, un atto etico: scriveva Celati che
le parole sono richiami, non definiscono niente, chiamano qualcosa perché resti con noi. Quello che possiamo fare è chiamare le cose, invocarle vengano a noi con i loro racconti: chiamarle perché non diventino tanto estranee da partire ognuna per conto suo in una diversa direzione del cosmo, lasciandoci qui incapaci di riconoscere una traccia per orientarci”.
Di tutte le letture, è quest’ultima che oggi ci sembra più vicina, quando ogni cosa sembra offrirsi come immagine al nostro occhio “bulimico” e l’indagine di Amigoni, insomma, può avere l’importante compito di migliorare anche la comprensione del nostro tempo. La considerazione da cui muove Amigoni è che ancora oggi, nel terzo millennio, la fotografia è in grado di mostrare “la sua parentela con la morte, con l’ombra e con l’aspirazione – soprannaturale – a trovare un al di là che non sia stato ancora raggiunto dall’immanenza”. De Certeau scriveva che “il grande silenzio delle cose si tramuta nel suo contrario attraverso i media. Fino a ieri segreto, il reale ormai straparla”. Infatti, nonostante questa iper-esposizione, l’itinerario che conduce a riuscire ad ascoltarlo è tutt’altro che semplice.
Le fotografie – e lo si vede bene in tutte queste opere – sembrano attirarci a loro, per la loro capacità di dire l’indicibile, venire in soccorso alla scrittura quando questa non basta. Amigoni, in questa raccolta, prova a decrittare i codici e le regole della fotografia, per mostrarne la sua natura, che nella letteratura sembra apparire ancora con più forza. Fino a diventare narrazioni fantastiche: spesso le opere scelte da Amigoni si muovono proprio su un territorio che unisce elementi reali e inverosimili. Le immagini qui sembrano consentire agli autori la possibilità di “scrivere” i fantasmi della vita, dando ad essi un corpo, un volume e una parola, di aprire il campo ad un itinerario verso il cuore delle cose e l’io profondo dello scrittore.