S ostiene l’eponimo protagonista di Lanark, il capolavoro di Alasdair Gray ancora (troppo) poco conosciuto in Italia, che si possono scrivere storie in due modi: “Uno era una sorta di film scritto (…), con tanta azione e quasi zero pensiero. L’altro era ritrarre le vite di gente triste ma sveglia, spesso gli stessi autori: pensiero tanto, azione quasi niente. Secondo lui un bravo autore probabilmente si dedicava a quest’ultimo filone”. Romanzi che pensano e che fanno pensare, per gente “triste ma sveglia”, sono notoriamente una minoranza rispetto ai libri proattivi, eccitanti, muscolari, forse perché il romanzo moderno è un genere geneticamente borghese, legato a doppio filo alla cultura mercantile e perciò stesso votato a storie dinamiche di grandi salite e ricadute, fortune e sfortune.
Per la loro eccentricità un po’ dimessa, questi libri, dico quelli tristi ma svegli, quelli pensosi, fanno dunque fatica a sfondare nel campo narrativo contemporaneo: poco integrati, poco apprezzati, vivono nell’ombra, dell’ombra si nutrono, e da queste zone buie ogni tanto riemergono come esseri poco raccomandabili. Più un libro è organico, quindi vivo e autonomo, più ogni sua parte si tiene con le altre, più sarà possibile coglierne l’inclinazione, o il suono, fin dalle prime righe: basta leggere l’incipit di Domingo il favoloso di Giovanni Arpino per capire che si tratta di uno di quei romanzi di cui parla Lanark:
Gli restava mezz’ora di tempo. In piedi alla finestra, indifferente alla frescura primaverile, Domingo guardava il corso livido, vuoto. Un vecchio ubriaco apparve all’improvviso tra le silenziose strutture delle giostre, di capanni e logori camioncini che ingombravano da alcuni giorni quell’angolo di città. Il vecchio faticava nel sospingere la sua ombra demente. Domingo lo seguì fin dove la sagoma rimase un attimo ferma nel tremolio luminoso che incorniciava la baracca del tirassegno. Lo vide sparire sotto le cupole degli ippocastani.
Con uno scatto dell’indice contro il pollice, Domingo fece volare il mozzicone al di là del davanzale. E rimirava ancora la schiuma violacea dei neon al fondo del corso, dov’era il caffè, e il volto fangoso di quella luna d’aprile. Piatta come nei disegni degli scolari sui quaderni. Echi e stridii di ruggine salivano dalle lontananze di tutta Torino. E lampi che scattavano a insanguinare il bitume della notte.
Di Giovanni Arpino oggi si sa poco, ma all’epoca fu scrittore ben noto, vinse lo Strega (nel 1964), registi famosi come Pietro Germi e Dino Risi trassero film dai suoi libri e, fino alla sua morte avvenuta a Torino (la città di Arpino e di molte sue storie) nel 1987, fu autore prolifico di narrativa, poesia, giornalismo culturale. Se è vero che determinare le ragioni degli ingressi e delle uscite dal canone è una faccenda complessa, muovendosi nei suoi romanzi con grande libertà tra i generi del realismo e del fantastico, tra storie di operai, personaggi marginali e intimamente rivoltosi, storie sentimentali e piccolo borghesi, magiche e picaresche, sportive, muovendosi così liberamente Arpino ha offerto ai posteri un’immagine certamente poco brandizzabile.
Ogni tanto si prova a rilanciare la figura e l’opera di questo scrittore eccentrico e originale, credo senza grande successo. Negli ultimi anni, per esempio, lo ha fatto Lindau con L’ombra delle colline (il romanzo autobiografico che vinse lo Strega) e Racconti di vent’anni, Ponte alle Grazie con La suora giovane (pure, a suo tempo, finalista allo Strega), Mondadori con Azzurro tenebra (uno dei pochi romanzi a tema calcistico della nostra storia letteraria), minimum fax col romanzo d’esordio Sei stato felice, Giovanni e adesso con lo splendido Domingo il favoloso. Quest’ultimo merita un posto a se stante non solo nell’ampia produzione dello scrittore ma anche in un ipotetico canone eretico di opere italiane incatalogabili, umbratili, malinconiche e cogitabonde. Il romanzo di Arpino è effettivamente caratterizzato da una vena cupa, anarchica, vagamente riottosa e forse anche filosoficamente un po’ gnostica. Nella quarta di copertina dell’edizione minimum fax una frase di Guido Piovene indica bene la direzione da seguire per apprezzare questa scrittura che, non foss’altro per la densità e la forte deformazione stilistica, non sarà buona per tutti i palati (“non riesco a trovare nemmeno un nome di scrittore contemporaneo da mettergli vicino”).
Tutto, in questo libro, esibisce una fisionomia bizzarra e irrispettosa. Il modo in cui Arpino carica fumettisticamente le ambientazioni e le descrizioni di una Torino al confronto della quale certe metropoli hardboiled americane sembrano Lugano in primavera (“lurida”, “ulcerata”, “livida”, “velenosa”, gli aggettivi più marci si susseguono a raffica); la ricchezza immaginativa e metaforica dello stile, il carattere esibitamente antimimetico dei dialoghi, infarciti di innesti e formule tratti da ambiti gergali, proverbiali, motteggi e cazzeggi da osteria, a inseguire una concitata musicalità interna capace di esprimersi solo per iperboli, esagerazioni, movenze liriche. La figura stessa di Domingo: personaggio quanto mai sfuggente, che pare oscillare con impassibile naturalezza tra il vernacolare e l’etereo, il romanzo d’appendice e il testo sacro, tra il grottesco-umoristico proletario delle truffe di cui vive quotidianamente e l’epifania quasi mistica del suo destino e di una figura femminile impossibile (a dire il vero sono due le figure femminili bellissime e impossibili che accostano Domingo: Angela che lo ama ma che lui non sa amare, e la piccola zingara che lui rapisce per oscure ragioni e da cui si aspetta – ed effettivamente riceve – una sorta di iniziazione al lato oscuro del mondo).
Infine la stessa scelta di mettere al centro di questa vicenda, oltre a un truffatore incallito, gli “zingari”; non privi di un esotismo che oggi (il libro è del 1975) forse non sarebbe più auspicabile, ma capaci di emergere in quella Torino sottosopra, tutta margini e bassifondi, come figure messianiche, portatori di un dignità e di un sapere sconosciuti ai “normali” (qualcosa di simile, recentemente, lo ha fatto Paolo Morelli in Da che mondo è mondo, Nottetempo 2017). Domingo il favoloso è veramente un grande anomalo romanzo che ancora sconta il suo difficile collocamento, le sue linee contorte, la sua durezza morale, l’immaginazione incendiaria. Se esiste oggi un rinnovato interesse verso le forme meno addomesticate della scrittura e dell’immaginario nella tradizione narrativa italiana del secolo scorso, il modo migliore per tornare ad Arpino potrebbe essere proprio partendo da qui.
Per la loro eccentricità un po’ dimessa, questi libri, tristi ma svegli, pensosi, fanno fatica a sfondare nel campo narrativo contemporaneo.
Italiano, argentino, o forse nessuno dei due: Juan Rodolfo Wilcock abita serenamente il limbo degli scrittori tristi e strani che poco spazio occupano nelle storie ufficiali. Adelphi, che lo pubblica dagli anni Settanta, ripropone oggi una delle opere più emblematiche di un autore che di deformità, ritratti bizzarri e mirabilia ha nutrito la sua poetica. Ritroviamo ne Il libro dei mostri (la prima edizione fu nel 1978), in bella e anatomica sequenza, un campionario memorabile delle sue creature più strane e mutanti: campioni di umanità letteralmente mercificata, oggettivata, esseri tendenti all’abiezione organica (putrefazione, liquefazione, vermificazione, dragonizzazione), spesso condannati a forme di isolamento iperbolico (quello che diventa “duro” come una statua, il prete che si ritrova sigillato dentro una teca di plastica a mo’ di reliquia, l’uomo albero, Elvidio Ratti, chiuso in una camera di rianimazione e trasformato in copertone), neppure mancano rare forme di apoteosi mistica (il rag. Anchise Scabbia “riposa sopra il mondo, che è diventato un unico mare, radioso come un cigno”, “dialogando con le acque primigenie”, un medico veterinario sotto forma di asteroide gioca dallo spazio siderale coi nostri destini). In questo quadro di umanità estrema e metamorfica, di teratologia varia tra il bestiario e la wunderkammer, Wilcock trova sempre occasione per qualche scoccata satirica contro i vizi atavici del sapiens sapiens: meschinerie, piccole furbizie, carognate, vanità.
L’uomo di Wilcock si configura come una creatura massimale e mediocre al contempo, un tipo che, strattonato tra il disgustoso, l’informe, il sublime e l’abissale riesce a esprimere soprattutto il sembiante di un irrilevante farlocco, una bigia media esistenziale quotidiana che i titoli professionali associati ai suoi buffi nomi inchiodano sulle eccentriche deformazioni della propria, misconosciuta, mostruosità. Sicché quello che sembra fare lo scrittore con i suoi rinomati cammei è in fondo un’operazione letteraria e filosofica al contempo: riportare alla luce la profonda e variegata oscenità su cui si basa l’umano; scovare, oltre i biglietti da visita e le risibili aspirazioni che tutti ostentiamo, la vergognosa e raccapricciante indecenza che nell’intimo ci definisce ai nostri stessi occhi, l’autoritratto che componiamo nel buio della notte, nei nostri sogni più scalmanati.
Sono libri poco integrati, poco apprezzati, vivono nell’ombra, dell’ombra si nutrono, e da queste zone buie ogni tanto riemergono come esseri poco raccomandabili.
“Disgustosa velleità di una natura per il resto non priva di gusto” gli individui wilcockiani subiscono di buon grado, placidamente, la vena quasi demenziale o nonsensical dello scrittore italo-argentino – una vena che lo distingue abbastanza nettamente nel pur ricco panorama della narrativa breve ironico-fantastica italiana del Novecento, e che trova in questo libro una chiave antropologica particolarmente congeniale. Al di là di tutte le miserande caratteristiche della condizione umana, è soprattutto il ridicolo ciò che risalta, del bipede implume, a debita distanza. Trovare e mantenere questa distanza, scegliere tra i vari punti di fuoco la goffa (per quanto tragica) futilità dell’uomo è un difficile ed equilibristico esercizio di pietas che fa di questa galleria di mostri una sorta di piccolo trattato morale: laddove potrebbe cadere soltanto il disprezzo consente la compassione, evita quanto di lacrimevole potrebbe dedursi dalla considerazione degli orrori riscattandola nella canzonatura spietata e leggera, nella complice presa per i fondelli.
L’ultimo dei ripescaggi italiani intimamente “lanarkiani” offerti dall’editoria più avventata in queste ultime settimane viene dallo scrittore torinese Giorgio De Maria. (Ri)scoperto nel 2017 con il suo ultimo romanzo Le venti giornate di Torino, notevole esempio di fantapolitica italiana degli anni Settanta, acuta e visionaria critica della solitudine moderna con premonizioni abbastanza accurate dei surrogati di socialità che tanta parte avranno nel millennio a venire. Frassinelli ripubblica adesso anche il primo dei suoi quattro romanzi, tutti usciti tra la fine dei Sessanta e gli anni Settanta, I trasgressionisti, un altro interessante esempio di satira sociale con deviazioni oniriche. Pubblicato nel 1968, il libro è per molti versi sessantottino, seppure espressione di un sessantotto molto poco hippie e floreale: del movimento sembra cogliere gli aspetti più cupi, ambigui, introversi e irrazionali. Un giovane “colletto bianco” torinese in odore di matrimonio entra in contatto con una setta iniziatica il cui obbiettivo pare qualcosa a metà tra una reichiana forma di disinibizione psichica e la messa in pratica di azioni di sabotaggio dei dispositivi di potere e omologazione della società capitalista, sulla falsa traccia dei situazionisti (a un certo punto si parla anche di una “internazionale trasgressionista”).
L’impalcatura ideologica e antiborghese di questa favola settaria è ben visibile, se non proprio vistosa, all’inizio del romanzo; in seguito si complica coll’intervento di scene e nessi sempre più opachi che sul finire del libro ci consegnano un simbolico “angolo giro” (il ritorno al punto di partenza – la vita borghese – ma “ricondizionata” dall’interno) e una enigmatica appendice anti-epica su un guerriero greco rimasto a Troia dopo la sua distruzione. Il libro è sicuramente meno bello delle, per molti versi sorprendenti, Venti giornate, meno visionario e meno inedita la storia, ma è sempre apprezzabile lo sforzo di De Maria di sperimentare percorsi, generi e punti di vista eterodossi, di usare la letteratura per articolare soluzioni e ipotesi di mondi non facilmente pensabili. Il debito verso modelli ribellistici che largo corso avevano negli anni in cui è stato concepito è riscattato dalla bizzarria degli esiti: un tetro individualismo si accompagna a una visione d’insieme troppo pessimistica per aderire a qualsiasi tipo di rivoluzione reale. Fin dalla prima prova De Maria si rivela uno scrittore fascinosamente contorto, ottimo osservatore e critico sociale, un depresso barricadero capace di consegnare al lettore immagini efficaci da rimasticare a lungo nella memoria prima di ricacciarle nell’ombra scontrosa dalla quale sono emerse. Un degno esponente della letteratura italiana di mostri.