N ell’autunno del 1913, a settantun anni, squassato dall’asma e da vecchie ferite di guerra, un vecchio umorista supera il confine messicano in sella a un cavallo e sparisce per sempre. Alcune lettere mandate ai pochi superstiti della famiglia suggeriscono le sua volontà di cercare una fine gloriosa nel Messico rivoluzionario di Pancho Villa. In una missiva indirizzata al nipote, il vecchio umorista spiega che essere crivellato di colpi con le spalle contro un vecchio muro scrostato è un ottimo modo per lasciare questo mondo. Anche perché, dice, è molto curioso di verificare se “questi messicani” siano in grado di sparare dritto.
Negli ultimi cento anni, le innumerevoli ipotesi sulla sua morte hanno contribuito a renderla uno dei più inspiegabili misteri della letteratura americana. C’è chi sostiene che il vecchio sia effettivamente caduto in battaglia a fianco di Villa e della sua armata, chi invece suggerisce una fine molto meno romantica, causata dagli stenti e da ricorrenti problemi di salute. Addirittura si pensa che non sia nemmeno mai riuscito a entrare in Messico, suicidandosi ancora in suolo americano per porre fine alle sue sofferenze ammantandole di un’aura di leggenda. Che cosa sia successo veramente non lo sa nessuno, e poco importa: la vita di Ambrose Bierce, senza dubbio il più grande umorista satirico della sua generazione, non poteva che finire così, sospesa tra la verità e la finzione, l’attendibile e l’inusuale.
Ambrose Gwinnett Bierce, figlio di Marcus Aurelius e decimo di tredici fratelli battezzati tutti con la stessa iniziale, nacque il 24 giugno del 1842 a Horse Cave, Ohio, per poi spostarsi insieme alla famiglia in Indiana. Il suo primo modello di riferimento fu lo zio, il generale Lucius Versus Bierce, uomo di grandi ideali e di capacità oratorie molto superiori alla media, soprattutto tra quei suoi commilitoni che già annusavano esaltati i venti della Guerra di Secessione che stava per arrivare, innescata dai primi scontri nel Kansas del 1855.
Il giovane Ambrose – nome che odiava e che avrebbe rinnegato per tutta la vita, preferendo l’acronimo A.G., che per qualche maligno significava “Almighty God” – si iscrisse al Kentucky Military Institute, inebriato dai discorsi dello zio e sospinto dalle proprie attitudini. Nel 1860 decise di arruolarsi tra i settantacinquemila volontari richiesti da Lincoln per preservare la fragile unità raggiunta dopo l’epocale abolizione della schiavitù, soluzione che non andava affatto bene agli ufficiali e alle truppe sudiste comandate dal generale Robert Edward Lee. Nella sua breve carriera militare, Bierce si distinse partecipando alle più famose e sanguinose battaglie della guerra civile, finché non fu ferito gravemente alla testa da un proiettile nemico, infortunio che lo costrinse a malincuore ad abbandonare l’esercito. A soli ventidue anni, il figlio di Marco Aurelio aveva già vissuto almeno due vite, di cui una funestata dall’insensatezza e dalla violenza degli scontri armati, che gli lasciarono segni profondi nel corpo e nello spirito, deviando irrimediabilmente la sua visione del mondo.
Qualche anno dopo, durante una spedizione pacifica all’interno dei territori indiani per redigere nuove mappe della zona, Bierce si ritrovò quasi per caso a San Francisco e lì rimase, cercando di costruirsi una carriera come giornalista e scrittore. In pochissimo tempo diventò caporedattore del San Francisco News-Letter, importante giornale cittadino che ospitava nelle prime pagine una sua rubrica quotidiana, The Town Crier, pulpito da cui partivano i suoi primi strali umoristici, scagliati contro tutto e tutti: politici, celebrità, intellettuali e semplici cittadini. I lettori californiani si scontrarono con la violenza delle sue invettive, rese ancora più affilate da una capacità di osservazione e satira senza pari.
La satira di Bierce era un distillato di purezza di genere: la continua ricerca del ridicolo annidato negli anfratti della nuova società nordamericana, il paradosso applicato alla riflessione morale e il potente contenuto etico delle sue affermazioni, creato per sollecitare le inclinazioni e le indignazioni del pubblico di lettori. La Corte di Cassazione italiana, qualche anno fa, ha dato una definizione giuridica al termine, definendo la satira come:
quella manifestazione di pensiero talora di altissimo livello che nei tempi si è addossata il compito di castigare
ridendo mores, ovvero di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene.
(Prima sezione penale della Corte di Cassazione, sentenza n. 9246/2006)
Ecco, se Bierce fosse ancora vivo probabilmente troverebbe qualcosa da ridire anche su queste poche righe, visto che il bene non era certo il suo fine ultimo. Piuttosto, lui cercava in tutti i modi di liberarsi dei suoi demoni, che lo condannavano a vedere il mondo com’era davvero, e non come aveva scelto di autorappresentarsi.
La sua column sul News-Letter divenne sempre più famosa e chiacchierata, tanto da varcare l’oceano e arrivare fino a Londra, dove molti quotidiani riprendevano i suoi pezzi per il divertimento e l’indignazione dei lettori europei. Bierce conobbe tutti gli autori più famosi in circolazione, compreso Mark Twain, con cui sviluppò uno strano rapporto di amore/odio, e accolse con malcelato orgoglio il suo nuovo soprannome, per acclamazione popolare: Bitter Bierce, the wickedest man in San Francisco.
Ma facciamo qualche esempio. In quegli anni strani e traballanti, con Stati che erano Uniti da uno sputo e da un poco di forza di volontà, i bianchi e religiosissimi abitanti di San Francisco odiavano di un odio immotivato e senza quartiere gli immigrati cinesi che si erano stabiliti in città. In uno dei suoi articoli, Bierce scrisse:
“Domenica pomeriggio, un cinese che passeggiava candidamente lungo Dupont Street è stato assalito da una tempesta di mattoni e pietre provenienti dai gradini della
First Congregational Church. Terminato il loro esercizio di devozione, i fedeli si ritirarono dentro ai sacri portali del loro santuario per ascoltare la vita di Cristo Gesù e la sua crocifissione”.
Ovviamente i devoti fedeli lo accusarono di blasfemia, ma il cattivissimo Ambrose rispose adeguatamente con questa simpatica invocazione:
“Signore… Ti supplichiamo di volgere la Tua attenzione da questa parte e contemplare il peggior gruppo di mascalzoni che Tu abbia mai avuto il privilegio di conoscere… Considerando però il fatto che Tu mandasti il Tuo unico Figlio tra noi e avendoci Tu regalato la gioia di ammazzarlo, vorremmo rispettosamente suggerirti di prendere con te nel paradiso tutti noi, che andiamo in chiesa ogni settimana, e donarci un’esaltante eternità di pigrizia e inconcepibile divertimento. Te lo chiediamo nel nome di Tuo Figlio che abbiamo appeso, come già precedentemente dichiarato. Amen”.
Per non farsi mancare nulla, Bierce ce l’aveva anche con gli italiani, che “continuano nel loro allegro sport nazionale di accoltellarsi l’uno con l’altro”, con i missionari, “uomini che picchierebbero un cane con il crocefisso” e i gatti in quanto “morbidi e indistruttibili automi creati dalla natura per poter essere malmenati quando qualcosa va storto in famiglia”.
Insomma: il giovane satiro poteva essere accusato di qualsiasi cosa, ma non di avere pregiudizi, perché odiava tutti. E quasi tutti odiavano lui. Quasi tutti, visto che la sventurata Mary Ellen Day decise di sposarlo e lo convinse a trasferirsi a Londra per una lunga luna di miele. Arrivato in Inghilterra, Bierce ricominciò da dove aveva lasciato, inondando i giornali locali di articoli e brevi pezzi umoristici, ispirato dalla cupa e nebbiosa atmosfera londinese che gli sollecitava la penna e gli strali. In questo periodo europeo, Bierce pubblicò anche i suoi tre primi libri, di fatto raccolte di aneddoti e brani tratti dalle varie testate con cui collaborava. Riguardo al suo Nuggets and Dust del 1873, Mark Twain ebbe a dire: “per ogni risata presente nel libro ci sono anche cinque rossori, dieci brividi e un conato di vomito. Quelle risate sono troppo costose”.
Twain ci vide giusto: la cattiveria, l’animosità, il disprezzo per il prossimo e la misantropia di Ambrose rischiavano di offuscare il suo genio e le surreali capacità di interpretare il mondo e svelarne le sue multiformi verità nascoste. Per fortuna i tempi erano ormai maturi e, tornato a San Francisco, iniziò a comporre quello che diventerà il suo capolavoro umoristico, capace di disinnescare ciò che sembrava impossibile da disinnescare: il dizionario.
Nel film culto di John Carpenter Essi vivono del 1988, il protagonista interpretato dal lottatore “Rowdy” Roddy Piper trova un paio di strani occhiali da sole che, indossati, gli mostrano un mondo nuovo, terrificante, fatto di messaggi subliminali di propaganda che forzano le persone a obbedire e conformarsi. Attraverso il filtro delle lenti, Rowdy riesce a vedere ciò che si cela dietro ai cartelloni pubblicitari, ai magazine in edicola e alle trasmissioni televisive: scritte come “OBEY”, “NO INDEPENDENT THOUGHTS” e “CONSUME”. Addirittura sulle banconote c’è scritto “THIS IS YOUR GOD”. La verità è ancora più terribile: una razza aliena, in accordo con i potenti del pianeta, sta usando la Terra per sfruttarne le risorse naturali (ecco il motivo del riscaldamento globale), per poi invadere altri pianeti. Ma Rowdy è l’unico che conosce la verità, e prova in tutti i modi ad aprire gli occhi dei cittadini, per mostrargli il mondo com’è davvero e non come sembra.
La satira sociale e politica di Ambrose Bierce funziona in modo molto simile: la sua comicità ci suggerisce un punto di vista alternativo, che riesce a infilarsi sotto la superficie reticolare delle apparenze per restituirci ciò che si agita sul fondo, nell’abisso e che, spesso, è molto più reale e terrificante di quello che crediamo di vedere e sapere sul mondo. L’unica differenza con il film di Carpenter è che Bierce fa ridere, mentre Essi vivono si fonda su una profonda critica sociale al modello consumistico americano degli anni Ottanta che non ci strappa nemmeno un sorriso.
Bene, ma perché con Bierce si ride e con Carpenter no?
Il punto più alto della sua produzione letteraria è The Cynic’s Word Book, del 1906, che muta in The Devil’s Dictionary cinque anni dopo; il libretto, su cui Bierce lavorava da quarant’anni, raccoglie una serie di voci, simili a quelle dizionariali, che diventano però rovesciamenti paradossali per scardinare la potenza costrittiva dei vocabolari. La sua è una prospettiva comica della realtà, quella di “un mondo capovolto, totalmente distorto, ed esattamente per questo motivo meglio attrezzato a svelare certe verità nascoste rispetto all’ottica convenzionale”. E i dizionari sono il primo avamposto di ciò che possiamo definire come ottica convenzionale, perché sistematizzano le parole e, dunque, il nostro pensiero e la nostra visione del mondo. Sono le parole che ci permettono di orientarci nei sentieri del reale e, in un certo senso, a costruire il mondo che ci sta attorno, e il linguaggio è costituito da parole che trovano la loro sistematizzazione nel dizionario, inserite in un labirintico intreccio di definizioni che rimandano l’una all’altra all’infinito, senza inizio né fine. I dizionari non producono cultura ma, semplicemente, la mettono a sistema, forzandoci a interpretare il mondo dal loro punto di vista, attraverso una codificazione univoca.
Ecco perché Bierce decise di scrivere proprio un dizionario, ed ecco perché, oltre a farci pensare, ci fa anche molto ridere: grazie al ribaltamento comico. Facciamo subito qualche esempio:
Cinico (s.m.): Mascalzone che, a causa di un difetto alla vista, vede le cose come realmente sono e non come dovrebbero essere.
Giuria (s.f.): Gruppo di persone incaricate da una corte di assistere i legali per impedire che la legge degeneri in atti di giustizia.
Idiota (s.m.): Membro di una grande e potente tribù che nel corso dei secoli ha sempre esercitato un dominio assoluto sulle vicende umane.
Marcia (s.f.): Nelle vicende di ogni esercito è quella corrente che si muove diretta dall’attrazione del bottino.
Telefono (s.m.): Infernale invenzione che elimina purtroppo parte dei vantaggi inerenti alla saggia abitudine di tenere a distanza le persone sgradevoli.
Voto (s.m.): Simbolo e strumento della facoltà che ha ogni cittadino di dimostrarsi uno sciocco e di rovinare il proprio paese.
Ce ne sono a centinaia e potrei andare avanti all’infinito, ma credo si sia capito il punto. L’effetto di capovolgimento del mondo di Bierce apre delle strade che sono apparentemente inedite ma che, a un certo punto della nostra vita, tutti abbiamo percorso o, almeno, abbiamo intravisto la possibilità della loro percorrenza. E come scrive a riguardo Guido Almansi nell’introduzione all’edizione italiana:
cos’è questo riso se non la coscienza inquieta (imbarazzata) di un ulteriore livello di verità? Noi accettiamo dai dizionari dell’angelo un primo livello di verità; accediamo a un secondo livello attraverso il dizionario del diavolo, e così facendo ridiamo. Il comico sarebbe, quindi, la verità nascosta, un’illuminazione che ci disturba e dalla quale ci allontaniamo con un minuto trucco strategico: il piccolo orgasmo del riso con il quale evitiamo di prendere responsabilità diretta dell’enunciato.
Bierce non sa mai dove e quando dovrebbe fermarsi, non ha il distacco e la compostezza dell’intellettuale ma l’impeto del columnist, giornalista d’assalto che usa le pagine dei giornali come avamposto personale, urlandoci dentro tutto quello che non funziona nel mondo. Ed è proprio questa combinazione di elementi che lo ha reso, di fatto, l’unica persona possibile capace di produrre un’opera di questo tipo. Ma non c’è nulla di profondamente solipsistico nelle bordate di Bierce; quando scrive, è come se parlasse nel nome del popolo e alla pari con il popolo perché, citando ancora Almansi, lui “scrive sull’orlo dell’abisso”, si agita, si arrabbia, si spazientisce.
Per Bierce, e ormai si è capito bene, tutto è menzogna e, se non è l’uomo che mente, ci pensano direttamente le parole e i dizionari. Bierce è cattivo e fa ridere, ma il punto sta proprio qui: non fa ridere perché è cattivo (come non fa ridere Carpenter perché è cinico) ma fa ridere perché la sua cattiveria è liberatoria, ci toglie un peso dallo stomaco, ci permette di vedere al di là e al di sotto delle cose. E ridiamo non tanto per ciò che vediamo (come infatti non ci fanno sorridere i terribili cartelli svelati dai magici occhiali da sole), quanto per le modalità di svelamento in sé, quella soddisfazione terribilmente piccola e umana del “l’avevo sempre pensato, io”.
Si è già detto di come quasi tutti odiassero Ambrose Bierce, tranne sua moglie. Ecco, sua moglie lo lasciò in tronco per le continue scenate di gelosia – si era infatti convinto che Mary Ellen intrattenesse una fitta corrispondenza amorosa con uno spasimante. Ci fu tuttavia un uomo che riuscì a guardare oltre la sua misantropia, proprio come Bierce guardava oltre il significato comune delle parole e delle cose, capendo di avere davanti la persona e il professionista ideale per il suo piano di conquista del mondo: William Randolph Hearst, lo stesso Hearst raccontato allegoricamente in Quarto Potere di Orson Wells e in maniera più trasparente nel recente Mank di David Fincher.
Nel 1887 il futuro magnate dei media assunse Bierce al San Francisco Examiner, il primo giornale di quello che poi diventerà il più grande impero mediatico della storia. E c’è un aneddoto interessante che mostra l’attaccamento di Hearst per Bierce: quando vivevano entrambi a Washington, il cattivissimo umorista compose un poemetto su tal William Goebel, governatore eletto del Kentucky, ucciso a colpi di arma da fuoco il giorno prima di prestare giuramento.
La pallottola che ha forato il petto di Goebel
Non si trova da nessuna parte nel West
Il motivo è che sta arrivando fino a qui
Per portare McKinley nella sua bara.
Giusto l’anno dopo, William McKinley, venticinquesimo presidente degli Stati Uniti, fu assassinato dall’anarchico Leon Czolgosz durante un discorso all’Esposizione Panamericana di Buffalo e, ovviamente, tutti diedero la colpa alla profezia di Bierce che avrebbe provocato l’uccisione del presidente. Una sollevazione popolare chiese a Hearst il suo licenziamento ma il magnate si oppose con fermezza, ribadendo la solidarietà al suo primo pupillo.
Durante il protettorato di Hearst, Ambrose Bierce iniziò a raccogliere e pubblicare una serie di racconti non umoristici, diventando anche in questo caso un punto di riferimento letterario per i posteri. Le sue storie del fantastico e dell’orrore – pubblicate per la prima volta nella raccolta Can Such Things Be del 1893 – anticiparono di una ventina d’anni il genere del grottesco che ebbe il suo pieno sviluppo durante il XX secolo e folgorarono l’immaginazione di H.P. Lovecraft che, nel suo saggio Supernatural Horror in Literature, ammise la grande influenza dell’opera bierciana nelle sue produzioni, indicando alcune delle sue storie come perfetto esempio e modello di weird fiction.
I mostri di Bierce, così come quelli che saranno di Lovecraft, vengono dai recessi profondi della terra e ti portano con loro negli abissi. In effetti, la definizione del Dizionario del Diavolo per la parola “fantasma” è: “espressione materiale e visibile di una paura interiore”. E Bierce ne era pieno, di fantasmi, avendo passato la vita a braccetto con gli spettri che funestano l’umanità, nel vano tentativo di esorcizzarli e svelarli con le sue invettive e il suo umorismo ribaltato. I nerd di Lovecraft e del ciclo di Chtulu conosceranno benissimo Hastur, “colui che non deve essere nominato”, entità misteriosa che riposa sotto al lago di Hali, nei pressi della città maledetta di Carcosa. Bene: Hastur, Hali e Carcosa sono tre invenzioni letterarie di Bierce, riprese poi dallo stesso Lovecraft, da William Chambers e da una moltitudine di scrittori successivi.
Ma non solo. Nel 1892, Bierce diede alle stampe Tales of Soldiers and Civilians (Nel mezzo della vita. Storie di soldati e di civili nella traduzione italiana), una raccolta di racconti sulla guerra civile americana che ebbero grandi consensi e riconoscimenti in America e in Inghilterra. Il vecchio Ambrose divenne finalmente venerabile maestro, con una schiera di giovani autori in fila ordinata fuori da casa sua, pronti a rubargli qualsiasi sillaba gli scappasse dalla bocca e appuntarsela da qualche parte, prima di essere cacciati via in malo modo.
Tra le sue storie di guerra, ricordiamo qui il breve racconto che Kurt Vonnegut definì come il migliore di tutta la letteratura americana: An Occurence at Owl Creek Bridge. La storia racconta di Peyton Farquar, agricoltore, politico, secessionista e orgoglioso possessore di schiavi, che si trova sospeso su un ponte, sotto il tiro di militari e ufficiali nordisti, pronti per impiccarlo. Pochi attimi prima dell’esecuzione, Farquar si immagina di riuscire a liberarsi e fuggire per tornare dalla moglie. Qui la narrazione fa un passo indietro e racconta la vita del condannato e i motivi che l’hanno spinto a trovarsi in una situazione del genere. Un nuovo stacco ci riporta nel presente, quando il protagonista riesce inspiegabilmente a liberarsi e fuggire a nuoto nel fiume, schivando le pallottole dei suoi aguzzini. Dopo una lunga e ardimentosa fuga, Farquar raggiunge finalmente la casa natìa e, mentre sta per abbracciare la moglie che gli corre incontro incredula, sente un colpo secco alla nuca e viene accecato da una luce potentissima: scopriamo in quel momento che in realtà è appena morto, e penzola con il collo spezzato sul fiume di Owl Creek.
Se questo racconto fosse il disco di un gruppo rock, lo definiremmo “seminale”: l’idea di un’intera sequenza di eventi che si svolge in un tempo soggettivo srotolandosi nel momento della morte, e dunque l’invenzione di una storia che non è mai accaduta davvero, se non nella mente del protagonista, ha attecchito fortemente nella cultura popolare e, da allora, continua a circolare senza sosta: da alcuni racconti di H. G. Wells, di Nabokov, di Borges e di Cortazar fino a Brazil di Terry Gilliam, American Dad di Seth MacFarlane (il creatore dei Griffin) e anche nella celebre serie tv Black Mirror, nell’episodio Playtest, in cui il protagonista testa un videogioco dell’orrore che lo porta a confondere la realtà con l’immaginazione e, solo alla fine della puntata, si scopre che tutti gli avvenimenti si sono svolti nel brevissimo tempo della sua morte. Il cortometraggio La Rivière du hibou del 1962, ispirato al racconto di Bierce, vinse la Palma D’Oro a Cannes e venne acquistato e ridoppiato in inglese dal produttore William Froug che lo inserì clandestinamente nella quinta stagione di Ai confini della realtà.
Negli ultimi anni di vita, il comportamento di Bierce diventò sempre più eccentrico: scriveva solo dalla mezzanotte all’alba, con un teschio umano sulla scrivania e una lucertola ammaestrata sulla spalla, circondato da rane, serpenti, scoiattoli e uccelli da voliera. Non aveva più nessuno da cui tornare – moglie e due figli su tre morti tragicamente, di cui uno durante un duello cavalleresco contro un amico che era fuggito con la sua fidanzata il giorno prima delle nozze – e si sentiva stanco, esausto: la sua battaglia di una vita contro il mondo e gli uomini l’aveva ormai prosciugato di ogni forza e di ogni volontà. Per questo, nel 1909 pubblicò dodici volumi che raccolgono tutta la sua produzione e si preparò per il suo ultimo viaggio in Messico, di cui sappiamo già il misterioso finale, con le spalle contro un vecchio muro scrostato e bucherellato e un plotone di esecuzione di ribelli messicani che gli proveranno, finalmente, la loro innata capacità di sparare dritto.