P arlare di fascismo è fare un esercizio di ermeneutica su chi ne parla piuttosto che sull’oggetto della discussione. È molto evidente che oggi il termine fascismo sia un concetto polisemico, la cui definizione è talmente ampia da rischiare di autoannullarsi: si parla spesso di fascismo di sinistra, o addirittura di fascismo degli antifascisti, di antifascismo in assenza di fascismo; se ne parla per spuntare le armi dialettiche a chi s’impegna in quella che ritiene una sacrosanta militanza antifascista.
È innegabile comunque che mai come nell’ultimo anno nell’immaginario, nel discorso pubblico, nell’uso pubblico della storia, nella polemica politica, ci si è interessati al fascismo. Chi si allarma, chi invoca il pericolo di un suo ritorno, chi è semplicemente attento a restituire alla comunità politica uno strumentario storico e ideologico.
Il 2019 è stato ed è anche il centenario del 1919, anno della fondazione dei Fasci di combattimento; e il potere degli anniversari alle volte è più forte di qualunque dialettica della storia. Era stato così nel 2011 con i 150 anni dell’unità d’Italia, o nel 2015 con i cento della prima guerra mondiale.
Il libro di Antonio Scurati M. Il figlio del secolo che ha vinto il premio Strega inizia proprio con il 1919 ed è l’esempio più cristallino di quest’ambizione di catturare il dibattito, di elaborarlo, di guidarlo. Il primo volume di quella che è annunciata come una monumentale trilogia romanzesca sul duce ha evidentemente l’intento di imporsi come il riferimento definitivo sul racconto di quegli anni e insieme una volontà pedagogica, di divulgare attraverso un veloce montaggio narrativo una quantità di informazioni storiche che persino Scurati ammette di non aver padroneggiato finché non si è messo all’opera.
Questi due obiettivi M li ha sicuramente raggiunti: quest’anno moltissima gente per la prima volta ha studiato chi era Nicola Bombacci, ha fatto conoscenza dell’amante di Mussolini Margherita Sarfatti, ha ripercorso le rivalità tra il duce e il vate Gabriele D’Annunzio negli anni dopo la prima guerra mondiale. Ed è indubbio che chi vuole da artista aggredire la figura di Mussolini o il fascismo da ora in poi avrà Scurati come termine di paragone, come era accaduto agli storici dopo l’opera colossale di Renzo De Felice sul duce.
Sembrava che fosse arrivato il tempo per fascismi e Mussolini sempre più trasfigurati, o addirittura postmoderni: da quell’antibiografia biopolitica della nazione che è Eros e Priapo di Carlo Emilio Gadda al neorealismo magico di Canale Mussolini di Antonio Pennacchi fino al noir onirico Vincere di Marco Bellocchio, gli scrittori, i registi hanno pensato che Mussolini e il fascismo potessero essere utilizzati come un repertorio poetico, addirittura solo retorico; come accade alla farsa di Io sono tornato, il mediocre film su Mussolini redivivo. Il duce di Scurati invece è e sembra dover essere molto aderente a una figura che la storia, la storia civile, ci ha consegnato: a partire dal titolo il suo personaggio incarna lo zeitgeist, il suo agire corrisponde quasi completamente con l’affermarsi politico del regime; e la sua dimensione privata è un’ombra certo ma tutt’altro che mefistofelica. Ecco una pagina in cui il punto di vista è quello della sua amante Margherita Sarfatti:
Nonostante lei sia la sola a conoscere nell’intimità il vero volto – tormentato, rabbioso, spesso incerto – di quell’uomo che in pubblico posa sempre a despota granitico, la donna innamorata, la miliziana dell’amore eterno, non esita a nascondersi tra la folla per ammirare da lontano la “testa quadrata di antico romano” del proprio amante come una tra mille.
Scurati compie un’operazione civile, che però può finire per essere anestetizzante. Il suo Mussolini è oggettivato, persegue un senso della storia come un animale che la fiuta, dichiara; ma non ha nulla di bestiale, sorprendente, irrazionale, irrisolto. È un uomo medio, scaltro, tipico, che trama per il suo interesse personale di potere. La generosissima mole di materiale documentario, dichiaratamente e non dichiaratamente citato, nelle intersezioni del romanzo, nei discorsi diretti, fa sì che il Mussolini che impariamo a conoscere da M sia un mostro ormai datato (un parvenu, un opportunista, un voltagabbana, un imbonitore…), il cui riverbero sul presente è dato dalle analogie che tra la cronaca delle tragedie politiche tra i primi anni venti del novecento e le nostre pagliaccesche miserie gli ultimi anni dieci del nuovo secolo; poco altro. Anche i campi dei buoni e i cattivi sono già perimetrati dall’inizio, cosa naturale se certo immaginiamo quanto può essere letterariamente una sfida complicata rendere chiaroscurali Mussolini o Matteotti; meno se cerchiamo di riconoscere la vischiosità sentimentale di un’epoca come quella tra il 1919 e il 1924. Inoltre, le persone comuni non ci sono. La storia è fatta da pochi attori. Il popolo del duce, come lo potremmo definire con Duggan, non si vede e non si capisce come e perché s’innamora di un destino già così segnato e tremendo, e soprattutto quali responsabilità ha.
Quale è quindi il risultato di M? Di delegittimare la potenza del letterario, pensando di renderla invece più intensa. “È un romanzo”, dice la presentazione di Bompiani “sì, ma un romanzo in cui d’inventato non c’è nulla”. Che senso ha parlare di letteratura se d’inventato non c’è nulla? È per far vivere quello stesso paradosso per cui scriviamo all’inizio di un’opera di finzione una storia vera? Che senso ha dichiarare come fa Scurati che si tratta di un’operazione civica e etica? Esiste una letteratura etica?
Di fatto M è un buonissimo libro di divulgazione storica travestito da romanzo. David Bidussa e Francesco Filippi ne hanno fatto due recensioni elogiative, ma l’accento in entrambi è posto sul valore della disciplina storica come ermeneutica – Marc Bloch, ovviamente.
Se mettiamo M a confronto con 1919 di Mimmo Franzinelli, un esplicito saggio storico ma con un sapiente ritmo narrativo, non troviamo differenze gigantesche: il presente storico, i giudizi lapidari, la caratterizzazione di Mussolini ci sono, nell’uno e nell’altro, nelle pagine più saggistiche di M e in quelle più narrative di 1919. Le citazioni dei giornali che Scurati interpola rendono ancora più simili i due testi. Cosa ci dice quest’affinità? A parte la bravura di Franzinelli: che al grande bisogno di storia da una parte si accompagna un bisogno da parte degli storici di trovare una autolegittimazione, una centralità in un discorso pubblico che vive di presentismo, di pseudostoria, di fake news, e che questa appunto arriva attraverso un’esplicitazione del metodo.
Oggi è così. Gli storici scalpitano, sono costretti a difendersi, a ribadire l’ovvia importanza della storia, persino a far firmare appelli per tenere il proprio posto in cattedra nei licei e nelle università. Come il migliore giornalismo si ritrova ridotto a comporre articolatissimi debunking sui temi principali della cronaca politica, così anche gli storici sono costretti a lavorare per semplificazione o per contrasto, con intenti spesso didattici. I due importanti e fortunati libri di Francesco Filippi e di Emilio Gentile sul fascismo, Mussolini ha fatto cose buone e Chi è fascista sono di fatto due testi di debunking.
Il primo s’impegna a spazzare via la pseudostoria: una lezione di metodo sulle fonti. Il secondo è una perorazione per la disciplina storica e dei suoi ambiti; il fascismo – tema di cui il lavoro storiografico Gentile è un riferimento indiscusso – viene usato come campione di un discorso più generale sull’autorevolezza, e l’imprescindibilità, della storia. Gentile non accetta che si possa parlare di fascismo in termini che non riguardino il fascismo storico. Stigmatizza quella che definisce l’astoriologia, liquida gli usi non storici come quello di fascismo generico, non prende di petto Eco e il suo fascismo eterno ma si capisce quanto non lo consideri un avversario dialettico degno, critica insistentemente l’inflazione semantica per cui si è parlato di fascismo per la democrazia cristiana, per il regime di Peron, di De Gaulle, per Nixon, e oggi per Le Pen, Bolsonaro, Trump, Erdogan e appunto Salvini. Cita come esempio pericoloso per la democrazia l’allarme fascismo ai tempi di Berlusconi e Fini, ma soprattutto sottolinea come negli anni tra le due grandi guerre del novecento, negli scontri tra massimalisti e riformisti, comunisti e socialisti, spesso venisse usata l’accusa di fascismo per i meno radicali.
Oggi il migliore giornalismo si ritrova a comporre articolatissimi debunking, e così anche gli storici sono costretti a lavorare per semplificazione o per contrasto, con intenti spesso didattici.
Ovviamente il ragionamento di Gentile non vuole avere nemmeno la struttura retorica dell’argomentazione, ma è un lungo dialogo persuasivo similplatonico, in cui Gentile si impegna a confutare le obiezioni che lui stesso si pone. La sua tesi è chiarissima. Non ha senso tradurre la dialettica fascismo/antifascismo per rendere conto dei conflitti dello spazio politico attuale. La battaglia oggi è tra democratici e non; non perdiamo tempo a citare pericoli che non ci sono.
Cosa prova a ottenere dunque Gentile con il suo testo didattico?
1. Una restituzione del dibattito sul fascismo agli storici.
2. Una stigmatizzazione degli antifascisti, colpevoli nella storia ma anche oggi – secondo Gentile – di invocare il fascismo per provare a egemonizzare il campo politico con le proprie posizioni minoritarie. Oggetto delle sue pagine più critiche sono i massimalisti comunisti, oggi non proprio un fantasma politico pericoloso. Invocare così tante volte il fascismo per Gentile è come chiamare al lupo, al lupo: attenzione, ci dice, quando il lupo si avvicina forse poi non lo vediamo.
Ma se il lupo è già arrivato?
Esiste un’altra serie di testi che cercano di usare il racconto e l’analisi del fascismo per mettere a fuoco altre mancanze oltre il deficit di conoscenza storica. I due bei libri, quasi gemellari, di Giacomo Matteotti e di Ferruccio Parri, Un anno di dominazione fascista e Come farla finita con il fascismo sono la ripubblicazione dell’inchiesta del 1924 di Matteotti e di una serie di scritti editi tra il 1927 e gli anni settanta. Quasi una copia anastatica il primo, molto ben curato da David Bidussa e Carlo Greppi il secondo, entrambi mostrano, per contrasto, una grande questione politica dell’oggi: il gigantesco vuoto dell’impegno dei parlamentari, dei rappresentanti politici. Matteotti e Parri danno battaglia nelle istituzioni e fuori, usano la loro voce per denunciare, il loro corpo per testimoniare. C’è una tradizione politica luminosa in Italia che va da Gaetano Salvemini a Sandro Pertini, da Natale Colajanni a Tina Anselmi, che parte dalla denuncia e dall’analisi del fascismo per dare fiato al coraggio prima di tutto; persone che hanno coniugato la militanza personale con l’impegno nelle istituzioni. L’antifascismo si nutre di questa tradizione politica. Che fine ha fatto oggi tutto questo? Chi in parlamento potrebbe essere l’erede di questa storia?
Va citato anche un altro gruppo di libri interessanti usciti sul fascismo, al di là dei meriti saggistici, perché ragiona sul fascismo come metodo, come performance, come retorica, come costruzione di un frame comunicativo e ovviamente politico. Vengono più da fuori dei confini italiani, e da oltreoceano anche. A quello di Madeleine Albright uscito lo scorso anno, Fascismo. Un avvertimento, da qualche mese si accompagna Noi e loro. Come funziona il fascismo di Jason Stanley. La prospettiva interessante di questi due saggi è che si concentrano sugli effetti del fascismo, sul funzionamento, di quello che il fascismo fa piuttosto su ciò che il fascismo è. Propaganda, eliminazione delle libertà personali, culto del capo che sfocia in autoritarismo, eccetera. È chiaro quale sia l’interrogativo politico più urgente per uno statunitense? Possiamo comprendere l’incubo Trump attraverso le categorie – europee – del fascismo? Se sono libri la cui definizione di fascismo uno storico come Gentile potrebbe confutare, servono però a tenere in considerazione quale può essere il valore politico di questa polisemia, che forse non si può rubricare soltanto a genericità.
Un gruppo di libri interessanti ragiona sul fascismo come metodo, come performance, come retorica, come costruzione di un frame comunicativo e politico.
Il fascismo eterno che provava a definire Eco nella sua famosa conferenza diventata un libretto per la Nave di Teseo due anni fa era un modo quasi aristotelico di dare conto della quiddità del fascismo a partire dagli aspetti sostanziali e da quelli accidentali. Cos’è che non convince del tutto dell’ipotesi teorica di Eco? Il suo tentativo di definire qualcosa come indefinito, e il suo – scava scava – realismo che diventa essenzialismo. Ma non perché Eco riduca il fascismo a un’idea eterna, platonica, ma in quanto ragionare in termini metastorici (astorici, scrive espressamente Gentile) non è utile da una prospettiva politica radicata sul presente.
Questo è ben chiaro a Enzo Traverso. Nel suo I volti nuovi del fascismo prova a andare oltre Gentile, nella scia quel metodo storico che sempre confronta continuità e rotture, e conia questa categoria di postfascismo. Traverso usa postfascismo per indicare un paesaggio ancora molto mosso in cui la riduzione dei diritti civili, la propaganda, la violenza di stato, eccetera, attraversano regimi formalmente democratici. A Traverso serve questo concetto per rendere perspicuo un modello di destrificazione che sia diverso da quello neofascista, che Traverso giudica residuale.
Ho suggerito la nozione di postfascismo proprio per distinguerla dal neofascismo. In alcuni paesi il neofascismo è un fenomeno residuale, in altri un tentativo di estendere e rigenerare il vecchio fascismo. È il caso soprattutto di numerosi partiti e movimenti apparsi in Europa centrale nel corso degli ultimi vent’anni (Jobbik in Ungheria è un buon esempio), che rivendicano apertamente una continuità ideologica con il fascismo storico. Il postfascismo è diverso: nella maggior parte dei casi la sua matrice rimane il fascismo classico, ma se ne è emancipato. Molti di questi movimenti non rivendicano più questa provenienza, distinguendosi così chiaramente dai neofascismi.
Questo giudizio di Traverso può essere in parte credibile da un punto di vista storico: è vero che c’è un’estrema destra senza padri né mentori, ma è vero anche che è molto utile invece ricostruire le filiazioni, le affinità, le associazioni ideologiche e anche organizzative che il neofascismo italiano – mai studiato in maniera sistematica – ha con i movimenti, i gruppi, gli ideologi che potremmo definire postfascisti con Traverso, e che spesso si definiscono, camuffandosi male, come sovranisti.
Altrimenti invece di uscire dall’impasse che Gentile indicava, facciamo una mossa del cavallo, ma stiamo di nuovo dentro la palude. Il postfascismo si vuole emancipare dall’ambivalenza della definizione storica/politica, perché chiaramente indica un avanzamento che non è storico ma ideale; dall’altra parte da parte di Traverso l’insistenza sul fatto che ideologia postfascista non si sia ancora cristallizzata, si espone alla critica di chi può azzardare una definizione efficace ma solo perché l’oggetto non si è ancora formato. Lo stesso rischio di Eco, in fondo: mi sembra di definire qualcosa con efficacia solo perché ne do una definizione aperta.
(Una buona introduzione al neofascismo italiano sono i libri recenti di Claudio Vercelli e Elia Rosati).
Nella scia dei libri meno storici e più politici, anche se è un pamphlet pieno di semplificazioni e false equivalenze, Istruzioni per diventare fascisti di Michela Murgia coglie però un segno: ci può essere molto utile parlare di fascismo dal punto di vista di pratica linguistica. Anche Murgia prova a definire un fascismo eterno o quantomeno revenant, ma fa un grande miscuglio: mette insieme populismi e fascismi recenti, le caratteristiche che potremmo attribuire alle democrature e ai nuovi regimi pseudoautoritari e ciò che invece indicano soltanto – non è poco certo – la degradazione del discorso pubblico. (Qui delle buone letture da affiancare sono Il passato è storia di Masha Gessen e Come sfasciare un paese in sette mosse di Ece Temelkuran, e Dai fascismi ai populismi di Federico Finchelstein)
Ma il libretto di Murgia non è affatto inutile, anche il suo essere esplicitamente militante lo può rendere alle volte ribaldo e alle volte confuso. Non lo è perché coglie un segno: oggi del fascismo (che lo interpretiamo come fenomeno storico/politico o metastorico) la componente più interessante da riconoscere, studiare – e quindi poi contrastare – è quella comunicativa. Anzi, diciamola meglio, quella performativa.
Potremmo proprio azzardare un’ipotesi di lavoro, che è anche una proposta di militanza politica. Credo che serva pensare il fascismo come un genere di atti linguistici, nel senso che a questo termine dà John Austin. Se ne riconosciamo questa caratteristica pragmatica, possiamo forse usare il concetto fascismo nella nostra interpretazione e pratica politica: individuarne i tratti in alcuni atti ben precisi, pratici e linguistici, e elaborare un’azione di contrasto mirata e adeguata. Questa per esempio è la ragione per cui l’antologia di testi di Mussolini, Me ne frego, di David Bidussa riesce a perturbarci più di quanto immagineremmo – perché mentre abbiamo anticorpi e capacità di oggettivare il personaggio Mussolini e il fascismo, siamo meno equipaggiati rispetto a una retorica che ha delle caratteristiche evidentemente metastoriche, innestate non solo nel lessico attuale (Scurati su questo fa un lavoro attento nel suo romanzo) ma nel nostro immaginario, psichico e psicosociale.
Il fascismo italiano ha dato forma al patriarcato qui da noi, al nazionalismo, al discorso capitalista, si è mangiato molti altri discorsi del potere, e oggi sta innervando l’uso spregiudicato dei social e delle dichiarazioni pubbliche in generale da parte del potere, quel fare cose con le parole come direbbe Austin.
Rispetto a questo fascismo performativo occorre far crescere un antifascismo performativo, un antifascismo al passo con i tempi.