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emoria sarebbe la città fondata da Remo appena fuori dalla Roma del fratello. Se Remo non fosse stato ucciso da Romolo, la sua Remoria potrebbe essere una città parallela, collocata oltre il confine della nostra città – una città diversa, impermeabile ai criteri di ordine che Roma porterà nel mondo intero: cardo e decumano, un centro che si spande verso l’infinito, esportando lingua e diritto, unendo, razionalizzando, e ispirando poi dopo la sua fine altri imperi e altre capitali, Londra, Parigi, New York… Il libro di Mattioli prova a cucire alcuni eventi della storia recente urbanistica e sottoculturale di Roma per dire che una città parallela impossibile, alternativa, improduttiva ma vitale è probabilmente esistita, sovrapposta a quella ufficiale.
Per farci sentire quale operazione di fantascienza stia cercando di fare con un libro che ha le fattezze di un saggio su Roma (dove però adopera il suo rinomato stile sprezzante, i suoi soliti “be’” indiscutibili, le enfasi in corsivo, le ripetizioni ossessive dei temi ricorrenti da romano in botta che ti attacca una pippa) Mattioli chiama in causa i principi della speculative fiction, lasciando per esempio dire a un personaggio di Lovecraft: “Ho sempre creduto all’esistenza di mondi straordinari e inaccessibili vicinissimi a noi, e adesso sono convinto di aver trovato un modo per abbattere le barriere che ci separano da essi”. Non il solito modo realistico, moraviano, “altruista” o coloniale di trattare la questione. Remoria è scritto in modo che il lettore possa guardare con occhi nuovi una certa dimensione di Roma, le borgate, il coatto aggressivo, il tossico, il raverino, la diffusione di esperienze comunitarie varie non in regola con la legge del Centro.
Quella dimensione la chiama borgatasfera, uno strato dell’atmosfera a ben vedere troppo lontano perché ce ne sia mai importato qualcosa. La Roma lontano dal centro, quella Roma che tira fuori tutto il classismo volontario e involontario di chi abita il Centro (per la destra sono morti di fame, per la sinistra sono il ventre molle, l’ur-fascismo), la Roma per cui non si organizzano i concerti o le rassegne teatrali ma si aprono centri commerciali per spennarla, dove però non passa l’autobus, dove Mattioli da ragazzino giocava a golf con le siringhe abbandonate dai tossici, inaugurando “un torneo di lancio della siringa”, con mazze da golf improvvisate, “che era assieme prova di coraggio e manifestazione di pura, demenziale incoscienza”:
ci costruimmo delle mazze da golf attaccando due pezzi di legno rimediati dal falegname di via Casilina… Di certo la sola idea di mettersi a giocare a golf [con le siringhe] a Torre Maura non era granché, come dire, sensata… E però, che altro potevamo fare?… Tanto valeva disperarsi perché l’autobus… continuava a non passare mai. Cristo santo, uno a quell’età deve pur divertirsi.
Remoria traccerebbe la storia recente di questa città parallela per farci scoprire che viviamo tra alieni, che i borgatari hanno fatto tutta una serie di cose dopo Accattone, e che queste cose che hanno fatto hanno tutte una loro logica aliena a quella della Roma di Romolo, che spedisce le sue ambivalenti istanze civilizzatrici verso l’esterno, fino al raccordo e oltre, con sempre minor successo percepito.
Per rendere giustizia al libro il suo argomento va esposto come il racconto fondativo di una religione. Questa Remoria che per un laico non esiste va spiegata per un momento dalla prospettiva di un credente, di uno per cui – ecco, come dire – esiste, di uno che è stato folgorato dal vangelo di Mattioli e si mette a parlare come lui, si prende le sue stimmate di Palmer Eldritch oratorie. Che è il modo in cui ne ho fatto esperienza io. Chi infatti, al contrario, prende di peso l’argomento del libro e recensendolo o includendolo in un discorso ne fa subito un mero intervento su Roma (l’ha fatto Christian Raimo su Internazionale), ne disperde il potenziale gnostico.
Remoria è un libro che non va discusso, perché il suo argomento non dialoga con l’argomento di nessun altro, a eccezione (forse) delle teorie e dei miti di cui si compone (da Amore tossico a Ranxerox alla scena rave romana, alla Virus, ai porno di Matteo Schwaiz, al rap di ODEI, per una ricapitolazione dei temi consiglierei questo pezzo di Ilaria Giaccio). Può solo illuminare, squarciare il cielo sul raccordo anulare con la seguente verità di un altro mondo: c’è un vero dio, che sia la vitalità, o l’elettricità, inconoscibile se non per illuminazione. Ma c’è anche un demiurgo stolido e pecione – la borghesia? il generone? – che ordina il mondo spacciandosi per dio, e quello è appunto l’ordine che promana dal centro, un ordine che non può dare vita, né quindi felicità. E c’è la povera anima del lettore, che vive nell’incubo finto-geometrico creato dal centro e solo attraverso una scossa può smettere di vedere quanto disposto dal demiurgo per capire meglio, per liberarsi l’anima del lettore dalle leggi sbagliate e soffocanti imposte sciattamente dal demiurgo. Perché il sogno americano non funziona? Perché degli altri a chi ha i soldi non importa niente? Perché i concetti di educazione e decoro sono usati contro persone tenute nell’assenza di educazione e decoro apposta? Perché la povertà è considerata un fallimento individuale?
Serve un salto mistico per uscire da questa prigione filosofica e Mattioli perciò usa quel suo stile, come dire, persuasivo. Nella serie di Amazon Undone, uscita in questi giorni, risuona il try not try della meditazione, come consiglio, come metodo per accedere ad altri mondi: ci si libera dalle catene della “realtà” condivisa concentrandosi ma non troppo, come gli yogi. L’ironia sincopata, i “be’” e i corsivi di Mattioli fungono da versione romana dell’orientale provaci senza provarci davvero. L’ironia del romano, il disfattismo, il cinismo, la paraculaggine Mattioli li adopera poeticamente per far raggiungere quella stessa condizione della meditazione, una trance capace di schiudere significati nuovi, di rovesciare il quadro.
Quindi provo a raccontare Remoria come una religione, una forma di gnosi, un invito all’illuminazione, per riprodurre l’effetto che ha avuto su di me. Senza la fede però non è detto che si attivi alcunché.
Nel 1946, nasce il raccordo anulare, il Gra, dal cognome del suo inventore. È un gesto magico. Il cerchio, assurdamente largo rispetto ai confini della città al momento della sua concezione, disegna intorno alla città un ano esoterico con cui ciò che è fuori dal centro, fuori dalla grazia di Dio, comincerà ad accelerare, girando intorno nella macchina celibe che è l’anello d’asfalto, producendo una forza perversa che da lì in poi assedierà il centro in vari modi (ha presente quel fastidio di veder passare ragazzini rumorosi appena sciamati dalla metro su piazza di Spagna, signora mia?) “Per Gilles Deleuze e Félix Guattari, ogni macchina celibe produce ‘quantità intensive’ e quindi desiderio”, da quel desiderio partirà il movimento. Il centro aspira all’ordine, ma dall’esterno di Roma la “borgatasfera” – lo strato appena fuori dalla respirabile atmosfera dei quartieri borghesi dove gli autobus e i tram passano davvero – comincia a premere, stringendo lo sfintere, soffocando, tra festa e vendetta, il centro.
Perché degli altri a chi ha i soldi non importa niente?
Per credere alla religione di Remoria bisogna lasciarsi rapire da quest’idea: che una delle più grandi mosse urbanistiche di Roma moderna, il GRA, sia servito magicamente a creare dal caos una vera borgatasfera, sovvertendo “qualsiasi razionalità urbanistica: da una parte, ribalta i tradizionali poli di periferia e centro; dall’altra, manda in frantumi le categorie di limite, di margine, di frontiera”. Mattioli è particolarmente affascinato dall’idea che le sue origini siano splendidamente “inspiegabili”.
Da qui si comincia a dare senso complessivo, e circolare, e perverso a tutto ciò che sta e starà attorno alla “città dei monumenti, delle scenografie faticose, dei palazzi del potere, l’1%, la Capitale, insomma: il centro”, che diventa minuscolo perché il Gra ha ridefinito il modo di pensarla, rimpicciolendo di fatto quel che sta dentro le mura e subito intorno.
È la forza del Gra e del movimento – be’ – a stringere, a soffocare l’uno percento, grazie al magico ouroboros d’asfalto, il serpente che si morde la coda e produce movimento infinito, che spinge alcune generazioni di romani, anzi remoriani, a superare il tragico e innocuo Accattone pasoliniano per una serie di mutazioni antropologiche dimenticate dalla storia ma forse rilevanti per capire Roma. Si parte dai bucatini di Amore tossico di Caligari, si arriva alla Roma dei Centocelle City Rockers, che importano nella borgatasfera l’elettricità del punk, forza brutta che elettrifica il coatto e l’emarginato. Questi figuri una volta elettrificati diventano il mostro Ranxerox, violento, romantico, nella Roma a trenta piani pensata dal fumetto di Stefano Tamburini che è un po’ il cuore o il pacemaker del libro, e poi si spargono in varie direzioni, sfogandosi e rimescolandosi in forme di vita comunitaria o di piaceri individuali sempre dure, fredde, sporche e mutanti.
Non più una romanità tragica da far visitare in macchina a Moravia, ma una romanità che si gestisce da sé. Perché raccontarlo, se tanto non interessa a nessuno? Be’, ma perché il borghese – o il membro ripulito del generone – che abita a Roma ha sempre saputo quanto gli fa paura quella forza che preme dall’esterno, e Mattioli sembra aver voglia di spiegarglielo. Il borghese – il generone – ha sempre liquidato la faccenda della borgatasfera lamentandosi che Roma non sarà mai “normale”, non ci si respirerà mai aria da “paese normale”, che Roma non “funzionerà” mai. Mattioli, che contesta questo tipo di narrazione da sempre, riesce in questo libro a tirare fuori tutta insieme la sua argomentazione insuperabile: ecco cos’ha fatto chi non era al Centro mentre a voi (a noi) non importava assolutamente nulla e pensavate solo al raggio di parcheggio della Car2go. Si è preso tanta ecstasy nei capannoni ballando la techno e la virus. Ha fatto sesso con i trans. Si è bucato. Chi sta fuori dal Centro dovrà pur vivere, specie se il centro giudica ma non è interessato a offrire niente, e a volte vivere è giocare a golf con le siringhe, altre volte è portare la techno nei centri sociali alla ricerca di alleanze impossibili col rischio di tirarsi dentro i fascisti.
C’è in Mattioli, come nelle borgate che racconta, “qualcosa come un orgoglio operaio esploso, una proiezione oltre l’accettabile di bisogni e desideri considerati patrimonio esclusivo di una ristrettissima cerchia di aristocratici: l’ozio al posto del lavorare duro, l’adozione di atteggiamenti moralmente sconvenienti al posto del rigoroso puritanesimo working class, le rose anziché il pane, la festa anziché il merito, il carnevale anziché la fabbrica, la racchetta da tennis al posto della fermata del bus…”.
Remoria è un libro unico e meriterebbe di restare lontano da tutto il dibattito su Roma.
È inevitabile che il classista che non ha mai considerato il bisogno aristocratico di ozio del borgataro veda come orrenda e indecorosa questa “deriva”. Perciò Mattioli, che vive da sempre a metà tra i due mondi e scrive per le riviste mainstream e conosce tutte le aspettative del centro, parla di una “sodomizzazione del creato”, via Lautréamont, vicinissima secondo lui ad avverarsi nel 1977, quando da Roma partì il movimento che, di tutti i “ragionamenti tossici” e di tutti i Muretti sparsi in città, pareva davvero un’emanazione diretta. Era la sostanziazione dell’incubo”, vista dal centro: da qui era vista come l’inizio della fine del decoro percepito, “il rovescio che prende il sopravvento, la calata dei mostri in città, la Commune rediviva, la rivoluzione del buco del culo: era il Settantasette”. Con tutte le papille gustative borghesi che ha in bocca, ma venendo da quei prestigiosi circoli di golf per siringhe di Torre Maura, Mattioli modula il racconto per costruire un nobilissimo cialtronesco horror erotico sul destino di Roma contemporanea, dove “nel cerchio assoluto del Grande Raccordo Anulare riecheggiano i girotondi sabbatici che alle fattezze dell’anello sovrapponevano quelle dell’ano, celebrando il gesto improduttivo della sodomia quale prodromo di una fecondazione artificiale i cui frutti parlano la lingua del ‘mondo basso, oscuro, plebeo’”, scrive citando un altro dei numi tutelari del libro, Luciano Parinetto, per riportare i suoi lettori – i lettori di Mattioli sono quasi tutti giovani marxisti – a un Marx più sessuale, più sconcio, visto che “l’anello-ano impone un’orizzontalità dal movimento positivamente negativo, che tutto schiaccia e tutto costringe al grado zero”, quindi in fondo nella visione mattioliana – e, be’, come dargli torto – non si può trovare parità, orizzontalità se non abbassandosi tutti.
Remoria è un libro unico e meriterebbe di restare lontano da tutto il dibattito su Roma, perché quel dibattito ha sempre quel che di abatinesco, di mortuario, mentre nelle pagine di questo libro si gode del passaggio successivo, del Frankenstein che è cadavere ma riacceso da un’elettricità che lo fa diventare più umano degli umani che lo disprezzano. Inutile far scaricare la batteria di questo libro, meglio lasciarlo usare a chi ne possa rimanere scottato, folgorato, almeno divertito, o scandalizzato (non ci si scandalizza più alla lettera, ma ci si scandalizza ancora).
Questo è un libro scritto per essere letto più che per essere catalogato: “Nel maggio del 1986 quella caotica galassia di corpi composta da punk, dark, autonomi e anarchici di zona, si riscoprì sufficientemente numerosa da regalare alla borgatasfera uno stupefacente coup de théâtre: l’occupazione del Forte Prenestino”. Con queste, diciamolo, pennellate Mattioli restituisce a chi ha frequentato i centri sociali di Roma il gusto di vederli descritti per la loro epica e per la loro potenza mitologica invece che come sintomi o come problemi. Il Forte (corsivi miei nelle parti che mi sembrano colpi da scrittore vero) era “un mastodontico forte militare del diciannovesimo secolo abbandonato da decenni, e ritrovatosi quasi per caso a delimitare il confine tra Centocelle e il Quarticciolo quando nel dopoguerra l’area divenne l’epicentro dell’espansione edilizia da cui sarebbe discesa la borgatasfera casilina”. Mattioli scrive come un naturalista francese esaltato dalle possibilità della prosa di far sentire la dimensione delle cose. “Come spazio, il Forte Prenestino aveva qualcosa di irreale, di magico, persino di spaventoso: circondato da un fossato e seminascosto tra gli alberi, era un immenso labirinto in mattoni di torri, cunicoli, sotterranei, tunnel e piazze d’armi per un totale di tredici ettari che parevano moltiplicarsi all’infinito”.
Questa non è l’istruttoria per un dibattito sulle periferie, questa è letteratura. Se Walter Siti oggi usa l’analisi del testo per dire che Saviano si è rifiutato di fare letteratura, non potremo dire lo stesso di Mattioli. Ed è letteratura anche se a Mattioli non andrà mai di considerarsi uno scrittore, o farà per sempre il gioco di dire di non esserlo e di far sentire in colpa chi voleva coinvolgerlo nel gioco tanto borghese di dire “che autore, signori”, e amenità simili. Continuiamo a descrivere il forte: “Per più di un secolo, la sua presenza aveva gravato come un buco nero sul quadrante orientale di una città che a malapena ne sospettava l’esistenza”: ecco i trucchi letterari con cui Mattioli fa apparire e sparire, secondo il sentire della città, alcune sue parti tanto misteriose da apparire irreali: “era l’equivalente di un castello gotico schermato alla realtà ufficiale da qualche sortilegio oscuro. Aprirne i cancelli significò penetrare in una dimensione fantastica tanto quanto fantastiche sono le fortezze non euclidee che riempiono i racconti di Clark Ashton Smith”.
E non euclideo, tutto votato a un cerchio tossico che continua a spandere cerchi d’asfalto nell’aria, vuole essere il racconto di Remoria, da leggere come una poesia, come un sortilegio.