N on sarà un caso se tre libri recenti che toccano più o meno direttamente il tema del mare sono stati scritti da autrici che sono anche affermate poete. E non può esserlo tantomeno il fatto che, in queste storie, il tema del mare sia intrecciato a quello del potere, un potere che spesso è legato a un mondo che non funziona più. Le storie di questi libri sono tentativi di utopie, non dimenticano la crisi ambientale né la devastazione provocata dal capitalismo globale. Che cosa c’entra però la poesia con tutto questo? Forse, semplicemente, la familiarità con la scrittura poetica è il presupposto per trovare parole più precise, parole che immaginano nuovi mondi marini, ma è anche vero che il mare sa imporre, come scriveva Rainer Maria Rilke – un poeta che sull’acqua ha scritto tra i versi più indimenticabili – “un ritmo su tutto ciò che è disorientato e confuso”.
Quello che sappiamo è che il mare, l’oceano, quel “fiume d’acqua” che collega ogni cosa, è per eccellenza un sistema complesso nel senso proprio di “composto di più parti collegate tra loro e dipendenti l’una dall’altra”; e chi scrive poesia possiede un talento per le connessioni. Tutte le motivazioni rischiano di suonare tanto banali e incomplete quanto questi libri sono invece consistenti nelle loro storie inaudite. L’esordio di Mariette Navarro, Ultramarino (La Nuova Frontiera, Traduzione di Camilla Diez) è la storia di una traversata oceanica a bordo una nave cargo dove, a seguito di un bagno imprevisto nell’oceano, iniziano a verificarsi delle anomalie nel funzionamento della nave. La comandante della nave è una donna “che appartiene all’acqua e conosce il suo mestiere”, ma che tuttavia ogni volta prima di imbarcarsi si chiede “cosa l’abbia spinta a prendere il mare, quel maledetto piacere dello strappo”.
Non è un caso nemmeno che sia una donna la protagonista di un libro in cui si indagano i limiti umani forzando fin quasi a sfiorare il soprannaturale. La comandante del cargo è una per il cui “il meteo è diventato un senso più acuto degli altri, così come la cartografia di precisione, con le crocette tracciate ogni venti minuti sulla grande carta della scrivania per segnare la posizione”. Un personaggio complesso, lontano dai cliché: una donna che fa il suo lavoro, autorevole, che non ha bisogno di essere autoritaria, anzi appare vagamente serafica e può concedersi momenti di debolezza o tenerezza. Si sa che non c’è nulla di più noioso del racconto della navigazione per chi non va per mare: l’ambiente claustrofobico, il paesaggio sempre uguale, l’orizzonte invisibile.
Le storie di questi libri sono tentativi di utopie: non dimenticano la crisi ambientale né la devastazione provocata dal capitalismo globale.
Eppure, Mariette Navarro, classe 1980, autrice, poeta e drammaturga, fa tutto l’opposto: mette in scena l’impossibile. La nave si ferma in mezzo all’oceano e i marinai si tuffano nel blu più profondo. Quando risalgono non sono più venti bensì ventuno. Dopo il bagno è salito a bordo qualcuno che prima non c’era? E che cosa sta succedendo al motore della nave? Navarro ha raccontato in una intervista a Laura Marzi su Il Manifesto di avere scritto questo romanzo – bestseller in Francia – all’indomani di una esperienza diretta dell’oceano (difficile, del resto, scrivere di oceano se non ci si è stati, come sapevano bene Melville, Conrad e compagnia).
All’origine di Ultramarino c’è, infatti, un viaggio che l’autrice ha intrapreso nel 2012 in compagnia di altri scrittori, su un cargo. “Durante la traversata ho preso molti appunti sulle sensazioni fisiche che provavo e sulle immagini che mi attraversavano”, ha detto Navarro. L’autrice continua raccontando come in mare siamo sprovvisti di punti di riferimento. “È come se i nostri corpi non capissero più niente. Con le vibrazioni del motore incessanti, notte e giorno, avevo l’impressione di un animale che respirava, il cui cuore batteva sotto il mio letto”. In Ultramarino tutto sembra fondersi, il motore che diventa umano, “l’animale” come lo chiamano a bordo, mutazioni tra carne e metallo, ma anche mutazioni immaginarie tra pesci e plastica.
Dicono che nel fondo degli oceani la plastica si fonda al pesce. A volte lo pensa davvero. Una lievissima evoluzione della specie. Un ritorno alle profondità dell’acqua.
L’ibridsimo è al centro anche del nuovo libro di Laura Pugno, Melusina (Hacca Edizioni, illustrazioni magnifiche di Elisa Seitzinger), che è una riscrittura originalissima dell’antica fiaba medioevale di Melusina. Pugno, poeta e scrittrice di lungo corso, ha familiarità oltre che con la scrittura poetica con l’essere ibrido per eccellenza: la sirena. Attratta letterariamente da questa figura, Pugno ha individuato e indagato già molti anni fa nell’essere metà donna metà pesce – o metà donna metà uccello come per le sirene omeriche, o metà donna metà drago come in alcune fiabe medioevali – quel punto di contatto tra natura e umano che oggi si è dissolto.
Con il suo romanzo Sirene (pubblicato la prima volta nel 2007) Pugno aveva già raccontato di un mondo sottomarino dove la vita si svolge al riparo dai raggi solari divenuti letali. Melusina è invece una fiaba contemporanea, ambientata su un’isola immaginaria ma insieme iperrealista: un’isola di un mar Mediterraneo che negli anni è cambiato.
Il livello dell’acqua è salito, negli anni, in modo tale da rendere malsicura quella zona che un tempo, secoli prima, non era altro che un immenso, paludoso acquitrino di acqua salata e acqua dolce, e adesso sta tornando a esserlo come se si trattasse della restituzione di qualcosa che era stato solo preso in prestito. Ora certe parti di costa sono di nuovo affondate, altre vengono sommerse furiosamente dalle maree, maree che fanno sì che quel tratto di litorale assomigli sempre più all’Atlantico e sempre meno al Mediterraneo.
Come scrive Pugno nella nota finale, Melusina è in qualche misura l’inverso e l’opposto di Sirene: “Non uno specchio oscuro ma di un bianco accecante… Non l’apocalissi e la distopia, ma la fiaba e l’utopia, nella stagione delle ultime, non ultime?, utopie e della mia nascita, gli anni Settanta. Con tutta la crudeltà che da sempre le fiabe sanno riservarci.” Melusina è una fiaba d’acqua, di acque che si ibridano tra loro, quella del mare e quelle del fiume, quel fiume d’acqua, l’Okeanos. E in fondo è il mare stesso a essere per primo un ibrido, un incrocio di acque dolci e salate, di oceani e mari. Laura Pugno in Melusina cita fugacemente due poeti: Rilke – non a caso – e Adrienne Rich. “This is the place. / And I am here, the mermaid whose dark hair / streams black, the merman in his armored body. / We circle silently / about the wreck/we dive into the hold. / I am she: I am he.” La trasformazione di un corpo in un altro, di un genere in un altro, accade nell’acqua e che cosa sono le sirene se non degli esseri queer ante litteram? Melusina è anche una storia di un’utopia, fallita, come tutte le utopie, una leggenda che rendeva capaci di abitare il mondo in un altro modo, un mondo che non aveva più nome Terra ma Oceano. Mutare forma per le protagoniste del libro è anche un modo per svincolarsi dal mondo degli uomini, sperimentare la libertà, la fuga se non addirittura la sparizione.
Tre romanzi che cercano di tracciare una nuova, dolente ma pur sempre poetica, geografia dell’acqua.
Nel mondo degli uomini è invece ambientato Dove arrivano le acque di Anja Kampmann (Keller editore, traduzione di Franco Filice), uomini che fanno il più duro e pericoloso dei mestieri. Già la giornalista inglese Tabitha Lasley aveva scritto degli operai off shore e dei loro ritmi devastanti – un tema quasi del tutto inedito in letteratura – con il reportage letterario Lo stato del mare (NR edizioni). “Volevo vedere come sono gli uomini quando non hanno donne intorno”, aveva detto Lasley a corredo del suo libro. Anja Kampmann propone però un approccio diverso, più letterario, e costruisce un romanzo dall’impianto apparentemente classico che è in realtà un lungo viaggio tumultuoso con un andirivieni continuo tra passato e presente, tra rimpianto e smarrimento. Waclaw e Mátyás sono due amici che lavorano su una piattaforma in Atlantico e dopo la morte del secondo per un incidente terribile sulla piattaforma, un incidente di cui non sembra importare niente a nessuno, l’amico superstite intraprende un pellegrinaggio a bordo di un vecchio fiorino sulle tracce dell’amico scomparso.
Durante il viaggio Waclaw torna continuamente ai ricordi condivisi dei giorni con Mátyás in giro per il mondo e sulle piattaforme. Al romanzo di Kampmann qualcuno ha accostato addirittura Moby Dick: oggi come allora il mare è pieno di insidie e la posta in gioco altissima. Intervistata da Rai Cultura Kampmann, classe 1983, ha spiegato di sentire in realtà il romanzo di Melville molto lontano dalla storia di Waclaw; per la scrittura del suo libro si è servita di tutto quello che ha trovato sulla vita dei lavoratori off shore. Nel suo romanzo riesce a restituire la fragilità di esistenze sofferte senza tradirle, accompagnando chi legge, con delicatezza, in un mondo estraneo.
Se la poesia serve a cambiare lo sguardo, in questi tre libri il lettore si trova a guardare il mare da prospettive inedite – dall’alto di una piattaforma petrolifera, a bordo di un cargo capitanato da una donna o in una o “terra-mare” dove i paesi si chiamano Santuario o Stellamarina. Per tracciare una nuova, dolente ma pur sempre poetica, geografia dell’acqua.