I conoscitori di Roland Barthes sapranno già (con una certa tenerezza, quale è la mia) che Barthes fu in vita un uomo tranquillo, riservato, gentile, taciturno. I frequentatori della Parigi mondana, al contrario, lo ricordano come uno spirito giocoso nelle soirées a base di vino rosso del sesto arrondissement. Fabrice Luchini, intellettuale francese eccentrico, comparabile ad uno Sgarbi a cui abbiano disinnescato la violenza scatologica, ricorda così il Barthes di quel periodo: “Dopo una serata, erano le sette del mattino, e un mio amico dice: ‘andiamo da Roland Barthes’, arriviamo e sembrava l’università popolare di Caen, ma un po’ più chic […] Barthes arriva e dice ‘oggi è il concetto di questo è, del tempo che fa’ e tutti si mettono a scrivere; mi dico “ma sono in mezzo a dei pazzi”.
Questa intraprendenza, di cui il lettore percepisce il bollore sin da Miti d’oggi, emerge davvero nelle opere verso la fine della sua vita: nel Barthes “vecchio”, per così dire “compiuto”, del Collège de France. Quando infatti si insedia, grazie all’appoggio del suo amico e collega Michel Foucault, in una delle cattedre più à la page dell’epoca, Barthes si dà a una produzione più creativa. Nascono così le opere poi considerate più pop, vicine a una scrittura quasi letteraria, come i Frammenti di un discorso amoroso, la Camera chiara, e così via.
Tuttavia, è molto difficile parlar di “compimento” per un uomo la cui vita fu stroncata improvvisamente a sessantaquattro anni, mentre attraversava la strada per entrare in Sorbona, investito da un camioncino che trasportava baguette. Questo finale, degno di un film di Wes Anderson è, senza dubbio, una delle matrici della morbosa attenzione che numerosi accademici nutrono nei confronti di Barthes oggi. Basti pensare che uno dei romanzi francesi di più grande successo degli ultimi anni, La settima funzione del linguaggio di Laurent Binet, riscrive la morte del semiologo posizionandolo al centro di un complotto internazionale in salsa spy e guerra fredda.
È molto difficile parlar di “compimento” per un uomo come Barthes, la cui vita fu stroncata improvvisamente a sessantaquattro anni, mentre attraversava la strada per entrare in Sorbona.
Il punto di questa ossessione, però, non è solo la dinamica della morte in sé – ottimo espediente narrativo – ma anche una misteriosa incompiutezza che si può percepire anche nella sua produzione teorica. Per quanto non si possa dire troppo ad alta voce, infatti, né si possa pretendere di far divinazioni, si può presentare che nei mesi prima della sua morte Barthes stava meditando alla stesura di una forma di romanzo come passo successivo nella sua carriera. Il suo ultimo corso al Collège de France “La preparazione del romanzo”, lasciato a metà, ne è un indizio quantomeno interessante e che lascia grande spazio all’immaginazione, nonché l’impressione che se ne sia andato via “sul più bello”. Cosa avrebbe scritto? In quale forma incredibilmente frammentaria? Sarebbe stato un grande scrittore quanto fu un grande critico? eccetera.
In realtà, questa incompiutezza non è che una delle, se non la costante della vita di Barthes. È per questo che vale la pena di ripercorrerla per bene, alla luce da un lato della “sindrome dell’impostore” che lo attanagliava e che fu senza dubbio una delle fonti di questa “incompiutezza”, dall’altro guardando anche alle circostanze che gli furono avverse e che fecero l’altra metà del lavoro. Questo ci porterà in prima battuta a fare un bel tuffo nella Parigi del Novecento, nel Barthes studente durante e dopo la Seconda guerra mondiale, poi nel Barthes professore universitario alle prese col ’68 e infine nel Barthes super-intellettuale all’inizio dei roboanti anni Ottanta. In conclusione poi ci farà tirare due somme sulla questione dell’opera aperta e su come oggi questa incompiutezza riecheggi e confidi a noi, ricercatori del presente, un compito importante.
Quasi studente
A Parigi, per le menti più brillanti, tutta la vita può svolgersi in un solo quartiere, quello latino. È il caso anche di Roland Gérard Barthes che nel 1933 ha diciotto anni ed è uno studente molto promettente. Frequenta il prestigiosissimo liceo Louis-le-Grand che si trova – non a caso – davanti alla Sorbona. Secondo il cursus honorum classico, Barthes una volta passata la maturità avrebbe partecipato al concorso per entrare alla Scuola Normale Superiore, due vie più in là rispetto al suo liceo, poco lontano dal Pantheon; per poi, infine, con ogni auspicio ritornare a insegnare alla Sorbona, guardano il suo liceo dalle finestre delle aule magne.
Nonostante questo circuito ben chiaro all’orizzonte, una grave crisi di tubercolosi appena prima della maturità mette a soqquadro i suoi piani. Ne soffrirà tutta la vita, ma questo primo periodo, che va dai diciotto ai trentuno anni, è particolarmente duro. La tubercolosi, che descrive nella sua autobiografia attraverso una serie di cartelle cliniche personali, è secondo lui particolarmente infida perché è:
indolore, inconsistente, pulita, senza odori, senza un “questo”; i suoi unici segni [sono] la durata interminabile e il tabù sociale del contagio; per il resto, si [è] malati o si guari[sce], astrattamente, per puro decreto del medico [Trad. da “Roland Barthes par Roland Barthes”, in: Œuvres complètes, t.3, Parigi, Éd. du Seuil, 1993, p. 119.]
Lo strappo dalla realtà parigina di grande successo è enorme e dolorosissimo. Tutti i suoi amici entrano alla Normale, lui no. L’incompiutezza del progetto è scottante. “La mia giovinezza non è stata altro che una lunga serie di difficoltà, sempre più tragica ogni anno che passa, di cui dubito si potrebbe credere al racconto, tanto suonerebbe drammatico e romanzato”, scrive all’inizio del soggiorno al suo migliore amico Philippe Rebeyrol, anche lui entrato alla Normale. Al suo ritorno dal primo sanatorio appunta in dei quadernetti personali “Preparare la Normale? Impossibile: non potrei mai svegliarmi presto come quando andavo al liceo. Entro alla Sorbona, per una triennale in lettere antiche”.
A Parigi, per le menti più brillanti, tutta la vita può svolgersi in un solo quartiere, quello latino.
Un piano B interessante, tuttavia, de facto la maggior parte dei suoi anni di formazione li passa in sanatorio. Sono luoghi di riposo ma, senza la penicillina, anche luoghi di cure astruse e arcaiche, come i bagni di calore, il silenzio prolungato o la sospensione a testa in giù. Dal punto di vista intellettuale, se i suoi amici a Parigi si formano su Sartre e Camus, Barthes al sanatorio legge i fondamentali, ma sviluppa anche, come dice Tiphaine Samoyault, “delle pratiche autarchiche di relazione a sé, ai libri, che lo conducono a porre un’attenzione particolare ai segni”. I germi della sua cara semiologia li trova in questo periodo, nell’osservazione del suo corpo silenziosamente malato. Si rende conto che l’unità fisica di quest’ultimo è solo apparente e nasconde una realtà frammentaria, abitata da fantasmi. In questi due aspetti, Barthes intravede un’analogia tra il corpo e il testo, che diventa così anch’esso un elemento multiplo e spettrale, abitato a sua volta dal corpo dello scrittore.
Questa correlazione tra corpo e testo ha una grande influenza su di lui e in particolare sulla sua scoperta un po’ casuale dei testi dello storico Jules Michelet: uomo ottocentesco magniloquente, caduto nel dimenticatoio della comunità storica dell’epoca che privilegiava lo studio scientifico del testo, ai suoi slanci poetici e alle sue immedesimazioni. Barthes dall’osservazione del proprio corpo sviluppa un interesse per l’aspetto passionale e corporale di Michelet, come anche dei corpi degli uomini che attraverso la sua storia riesce a “resuscitare”. L’intuizione di Barthes è che Michelet vede nei documenti e nei testi “il luogo di una fantasma” che lo storico è chiamato a ricostituire caritatevolmente nel corso del suo studio. La carnalità del soggetto quindi, secondo Barthes, condizionerebbe irrimediabilmente l’oggettività dello studio della realtà. In questo periodo sottopone tutte le opere di Michelet, reperite nella biblioteca del sanatorio a una lettura continua, esaustiva, ossessiva, annotandole e creando poi delle schede che costituiranno la base delle sue prime opere (Il grado zero della scrittura e Michelet).
Questo approccio al lavoro, che consiste nello scrivere, è quella che può essere la principale invenzione di Barthes. È lo sguardo del lettore che passa dal libro al mondo. Questa tensione crea il frammento e conduce a momenti di gioia intellettuale, di iniziazione politica e di risveglio esistenziale. Come scrive il 23 luglio 1934 al suo caro amico Philippe Rebeyrol: “da quando sono malato, la mia vita è molto più intensa, molto più calda. Se vuoi, sono più consapevole di me stesso”, e poi ancora qualche mese più tardi, alla fine del primo soggiorno di cura: “resterà solo il ricordo di un anno felice e sereno. Non senza una certa poesia. I miei occhi si sono aperti ai colori, i miei sensi sono stati completamente viziati” . È in queste contrazioni sensibili e spirituali che, secondo Jean Pierre-Richard, critico letterario e amico, Barthes trova una certa energia vitale che caratterizzerà “il [suo] vero paesaggio passionale”.
Mentre tutti i suoi amici sono assordati dalla guerra, Barthes è obbligato al silenzio: ancora una volta è a distanza dalla sua generazione.
Per quanto Barthes tenti di stare al passo coi tempi, con le sue letture dal sanatorio, la fine degli anni Trenta porta in serbo un triste, nuovo, fuori tempo. Mentre la maggior parte del suo entourage viene mobilitato nel 1939, Barthes è esonerato dal Consiglio della Riforma a causa dei suoi problemi polmonari. Nel 1941 ha una grave ricaduta che lo porta al sanatorio di Saint-Hilare-du-Touvet e poi a iniziare un estenuante pellegrinaggio medico di quattro anni tra Svizzera e Francia. E di nuovo cure a base di riposo, sole, silenzio, completa immobilizzazione. Mentre tutti i suoi amici sono assordati dalla guerra, Barthes è obbligato al silenzio. Ancora una volta è a distanza dalla sua generazione. E col senno di poi questo distacco potrebbe giustificare una certa tendenza alla solitudine intellettuale, una certa anaffettività rispetto all’impegno collettivo, che lo caratterizzerà in seguito perché, come dice Samoyault: “le scelte e gli impegni principali della sua generazione, quelli di cui ognuno di loro dovrà rispondere in seguito e che costituiranno la base delle linee di forza politiche e intellettuali dei decenni a venire, non lo concernono”. Quando esce dal sanatorio nel 1946 ha trentun anni, è uno studente incompiuto con una laurea risicata in lettere antiche che tenta di recuperare il tempo perso e di trovare un posto per lui a Parigi e nel mondo.
Quasi professore
Quando il generale De Gaulle ritorna a Parigi e sfreccia sotto l’Arc de Triomphe in mezzo alla folla in festa, Barthes è un uomo che si cerca ancora, terribilmente. A posteriori, dal punto di vista teorico, tutto sembra girare, come racconta in un’intervista del 1971:
all’armistizio, per rispondere alla sua domanda nel modo più diretto e breve possibile, sono un sartreano e un marxista: provo a “engager” la forma letteraria (di cui ho avuto un sentimento vivo con lo Straniero di Camus) e di marxizzare l’impegno di Sartre, o almeno di dargli una giustificazione marxista; un duplice progetto che è ben visibile in Il grado zero della scrittura…
Tuttavia, sia dal punto di vista politico, sia dal punto di vista personale, Barthes nel 1946 sembra agli occhi dei suoi giovani coscritti un personaggio strano, incompiuto. Anche dal punto di vista accademico, i conti non tornano: la sua formazione è atipica, non ha fatto l’università, se non una triennale a macchia di leopardo e poi conosce tutti gli autori della sua epoca, ma è appassionato di altri, come Michelet, che nessuno conosce.
Per fortuna ci sono alcuni personaggi del circolo intellettuale dell’epoca che intuiscono la sua intelligenza e lo accolgono. Maurice Nadeau, intellettuale e critico letterario, lo aiuta in primis introducendolo nel circolo della rivista Combat, che radunava sotto di sé tutto il milieu letterario vivo, militante, frutto della resistenza. Barthes pensa allora al dottorato anche come modo per mettere un punto alla precarietà della sua formazione. Ci prova tre volte, di seguito, in tre materie diverse, ma nessuna riesce. Il primo dottorato prova a farlo in storia, sulle “tecniche della storia in Jules Michelet”, il secondo in lessicologia, il terzo in sociologia. Mille luminari della Sorbona intervengono in suo aiuto, ma niente basta a fargli portare a termine l’oneroso compito. Ironia della sorte: qualche anno fa un brillante studioso della Sorbona ha consacrato una tesi di dottorato proprio a questa incompiutezza. Lui si chiama Charles Coustilles e il suo dottorato, che poi è diventato un saggio piacevolissimo, si intitola Antithèse: Mallarmé, Péguy, Paulhan, Céline, Barthes.
Nel frattempo, in mezzo a queste montagne russe accademiche, per campare, l’ormai non più giovane Barthes si deve spostare “ai confini dell’impero”, in mezzo ai reietti dell’accademia: per la mentalità francese, se una cosa non succede a Parigi ha sempre un’importanza relativa. Prima va a Bucarest, come bibliotecario dell’Institut Français. Continua le sue letture di Marx, di Sartre, di Merleau Ponty, ma si interessa anche agli storici di Annales, una rivista che in quegli anni sta spingendo una nuova maniera di fare la storia, non solo attraverso i documenti, ma anche attraverso le scienze umane, quali l’antropologia, la sociologia eccetera. L’interesse è tra l’altro ricambiato.
Quando pubblica Michelet, un’opera piccola, ma densissima di anni di letture approfondite e appassionate sulla vita e l’opera dello storico, la reazione degli Annales è entusiasta. Attraverso dei dettagli, come le sue emicranie, le sue fobie, le sue pitture, Barthes fa una critica tematica particolare, antologica e frammentaria di Michelet. “Con voi, il dettaglio diventa profondità. La vostra tecnica a getto di luce penetra nelle profondità dell’essere” dice Gaston Bachelard in una lettera, ma soprattutto Lucien Fabvre, capofila degli annalisti, pubblica su Combat una recensione a dir poco appassionata: “Come parla bene e vede le cose con chiarezza! Come si è nutrito del meglio di Michelet. Come giudica dall’interno e non più dall’esterno! Come ama e comprende la vita in Michelet, e Michelet attraverso la vita!”.
Nel 1954 Roland Barthes ha trentanove anni, è un ricercatore potenzialmente di grande talento, ma privo di una direzione precisa.
Tuttavia non basta per tornare a Parigi. Nel 1950 si sposta ad Alessandria d’Egitto, lì conosce ancora una volta degli intellettuali in “esilio”, dei linguisti, e in particolare Algirdas Julien Greimas. Attraverso di lui si interessa alla moda e al vocabolario della moda, tema della sua seconda tesi di dottorato, “incompiuta”, in lessicologia. Nel frattempo incomincia a pubblicare articoli e saggi brevissimi che interessano molto l’opinione pubblica. In particolare attira l’attenzione “Le monde où l’on cache” sulla rivista Esprit, che sarà poi una delle parti più celebri delle sue mitologie. Questo Barthes spigliato, disinvolto, smaliziato, quello appunto di Mythologies, Miti d’oggi, piace alle riviste che gli chiedono sempre più contribuzioni regolari e cronache mensili. Nel 1954 Roland Barthes ha trentanove anni, è un ricercatore potenzialmente di grande talento, ma privo di una direzione precisa. Se i suoi articoli, caratterizzati da un ordine sintattico semplice, numerosi modalizzatori come “évidemment”, “c’est-à-dire”, gli danno una notorietà da intellettuale pop, è alla carriera scientifica stricto sensu a cui ambisce sotterraneamente e ardentemente. Desidera allora dedicarsi a un lungo periodo di ricerca in un ambiente più strutturato e istituzionale, come probabilmente aveva sempre pronosticato, dai tempo della mancata ammissione in Normale, quando la strada dell’incompiutezza ha cominciato il suo corso.
Il fatto è che in Francia, all’epoca, senza i “galloni giusti” non si può entrare in università, e si tratta di stellette molto precise: Scuola Normale, concorso per l’insegnamento, dottorato, come minimo. E Barthes, per quanto ci si metta, non riesce ad ottenere nulla di tutto questo. Per fortuna, infine, le circostanze gli sono estremamente favorevoli. In questo decennio pre-sessantottino si stanno infatti creando le inconsapevoli primizie di una grande rimessa in discussione del sistema universitario. In quegli anni, sono i professori stessi della capitale a interrogarsi su un rimodernamento del sistema di insegnamento e di assunzione dei ricercatori. In particolare, una figura chiave di questo cambiamento è lo storico Fernand Braudel, figlio spirituale di Lucien Febvre e Marc Bloch, che incomincia in quegli anni a dirigere una “scuola superiore” parallela alla Sorbona e che oggi porta il nome di “École des hautes études des sciences sociales” (EHESS). Insomma tutti i ricercatori promettenti, ma rigettati dalla Sorbona vanno lì, e Barthes viene preso sotto l’ala di Braudel nel 1959. Qui sviluppa la sua scienza semiotica, ma anche la sua grande fama di professore. Incapace di scrivere compiutamente delle lezioni frontali, sviluppa delle incredibili capacità di creare dialoghi proficui durante dei seminari, ricordati per la loro libertà di parola. Nel 1975 Foucault, dopo il trambusto del ’68, ricorda quegli anni e lo definisce come: “colui che ci ha aiutato di più a scuotere une certa forma di sapere universitario che era del non-sapere […] credo che sia stato anche molto importante per averci fatto capire le scosse degli ultimi dieci anni. È stato il più grande precursore”.
Quasi scrittore
Quando Barthes entra all’EHESS come ricercatore è preso in quanto sociologo. Così risulta dai suoi CV visibili negli archivi della Biblioteca Nazionale di Francia. È interessante vederli perché cristallizzano l’immagine che Barthes voleva dare di sé all’epoca, ma che in nulla corrisponde a quella che noi abbiamo attualmente, come di un critico letterario che, a mo’ di Umberto Eco, traeva la sua verve da una curiosità inesauribile nelle cose più disparate.
Gli anni Sessanta sono, al contrario, per Barthes un periodo di grande rigore scientifico. Questo atteggiamento è anche, e probabilmente, lo scotto da pagare per essere riuscito, deo gratiae, a entrare in università, malgrado il suo percorso claudicante. Il resoconto ufficiale, che invia a Fernand Braudel all’inizio del 1960, fornisce una sintesi particolarmente chiara di questa tendenza. Barthes afferma di voler innanzitutto terminare un lavoro iniziato al CNRS su “Les significations du Vêtement de Mode ”, nella speranza di trasformarlo in una specie di tesi post-doc. In secondo luogo, vuole portare avanti un’indagine sull’immagine e su quella che chiama “civiltà post-scritturale”, cioè “una psico-sociologia dell’immagine (fotografia e disegno, escluso il cinema), studiata attraverso la stampa, il libro e la pubblicità, e condotta in modo comparativo secondo i gruppi nazionali e sociali che la consumano”. Infine, con qualche dubbio sul successo di un piano di ricerca così ambizioso, desidera “intraprendere una ricerca sulla sociologia storica della letteratura francese dalle origini ai giorni nostri”.
Gli anni Sessanta sono per Barthes un periodo di grande rigore scientifico: questo atteggiamento è anche lo scotto da pagare per essere riuscito a entrare in università.
Insomma, la letteratura pare essere l’ultimo dei suoi pensieri. Anche nei suoi primi seminari, che portano nomi originali come “Inventare i sistemi contemporanei di significazione: sistemi di oggetti (vestiti, cibo, abitazioni)”, il legame col testo manca totalmente. Sono tuttavia in questo genere di seminari che viene acclamato come professore: progetti così provocanti, come l’invenzione di un sistema di significato, elettrizzano i suoi studenti e impediscono dialoghi con risposte univoche e scontate, come al contrario nei tradizionali corsi “compiuti” della Sorbona. È questa apertura che, tra l’altro, nutre giovani menti diventate oggi nomi di spicco della cultura francese dei nostri giorni, come Julia Kristeva, Antoine Compagnon o Eric Marty.
Senza nulla togliere ai lavori che compie in questo periodo da purista delle scienze sociali, è però chiaro, leggendo i resoconti, che Barthes tenta negli anni successivi di riconvertire la sua specializzazione da sociologo a, finalmente, letterato. Deve in sostanza, come direbbe Bourdieu, “negoziare” il suo campo scientifico. È in quest’ottica che si possono leggere dei testi come Elementi di semiologia, Il sistema della moda, ma anche Critica e verità.
Tutto cambia quando riesce nel suo twist passando dai “sistemi di segni” di cibo, pubblicità e moda, al “sistema retorico”. Dice cioè che se l’ars retorica sembra scomparsa con la fine del XIX secolo, in concomitanza con la società dell’immagine, non è in realtà morta. Nei fatti, le strutture di discorso continuano a persistere e performare, e la scienza semiotica è lo strumento adatto per decriptare questo nuovo genere di impianto discorsivo, che si è arricchito anche ormai dell’immagine, e dei sensi.
Da qui il periodo di grande successo critico: con la querelle contro un professore della Sorbona, Raymont Picard – a proposito di un racconto di Balzac sull’amore tra un uomo e una persona trans (che dà luogo a S/Z); poi con un articolo che ha segnato un prima e un dopo nella storia della critica del ‘900, e che porta il titolo di “La morte dell’autore”. Il concetto cardine che gli frutta il successo è nuovamente la necessità di un’incompiutezza. A dispetto della critica allora vigente, che si incardinava in Sainte-Beuve e Lançon (i Croce e De Sanctis d’oltralpe) e che vedeva la conoscenza dell’autore, della sua storia, del suo pensiero, come imprescindibile per la comprensione dell’opera, Barthes sostiene che in via definitiva, la conoscenza dell’autore non è necessaria ai fini della comprensione di un’opera.
In queste sue parole, l’ultimo twist: da sociologo, poi critico letterario, ora quasi scrittore.
Al contrario, quello che più interessa è il posto che quella proposta letteraria trova nel lettore: una certa indefinitezza delle intenzioni dell’autore è quindi precisamente quello che lascia lo spazio nel lettore per una profonda e sempre nuova comprensione dell’opera e del suo significato. Da qui, l’importanza sempre più crescente della teoria della ricezione anche nella critica contemporanea. La cosa incredibile è che questa teoria, questa apertura e leggerezza nel significato del testo letterario, Barthes la desidera anche per sé e tenta di metterla in opera. In Sade, Fourier, Loyola dice:
Se fossi uno scrittore e fossi morto, quanto mi piacerebbe che la mia vita fosse ridotta, dalla cura di un biografo amichevole e disinvolto, a qualche dettaglio, a qualche gusto, a qualche inflessione, diciamo: “biografemi”, la cui distinzione e mobilità potrebbe viaggiare al di là di ogni destino e venire a cercare, come gli atomi epicurei, qualche corpo futuro, promesso alla stessa dispersione.
In queste sue parole, l’ultimo twist: da sociologo, poi critico letterario, ora quasi scrittore. Con i testi più tardivi di Barthes si riconosce una maturità ormai acquisita dal punto di vista di questa chiarezza di intenti: in opere come Frammenti di un discorso amoroso, la Camera chiara, e poi il Barthes secondo Roland Barthes egli prova ad addentrarsi nella scrittura di qualcosa di sé, mantenendo un’apertura, una neutralità, un’incompiutezza. Sono testi pieni di fotografie, stralci di testo, pieni di uno “squadernamento” ricercato e desiderato per diventare leggero, come un atomo, secondo le leggi che Calvino avrebbe dettato qualche anno dopo ad Harvard.
E se tutto questo percorso fosse stato espletato per arrivare a una forma di racconto, di romanzo, insomma qualcosa che rientri nel magico perimetro della letteratura? La tensione ultima era forse rivolta a questo traguardo fin dall’inizio? Dagli studi sulla retorica, dall’annullamento del regime autoriale: era forse tutta una grande “preparazione al romanzo”, come è intitolato l’ultimo corso?
Era forse?
Una strada,
Un camion,
Delle baguette,
Buio.
L’intera vita di Barthes rivela una verità importante: a guardarla da vicino sprigiona, per reazione, quella forza che sovente si tiene repressa, latente, e incoraggia a lanciarsi nel gioco delle cose. Barthes, ci risulta così incompiuto perché nella premura di controllare e risalire nella conoscenza perde forse di vista il suo traguardo, a cui non arriva mai. Basti pensare che inizia i suoi studi con la semiologia, che è esattamente la comprensione del concetto stesso di significato, cioè la scienza delle tracce, non prive di significato, che le rappresentazioni depositano prima di tutto in noi. È come se fosse partito dal chiedersi: se scrivo un testo che impressione farà? In che campo della rappresentazione, inevitabilmente, si situerà? Niente di più perfetto di questa domanda definitiva, quella della posterità, per creare un blocco. D’altra parte, questa cautela nel cominciare, questa ricerca dell’origine, questa cura è ciò che gli ha permesso di scoprire nei dettagli della parola, dei significati, delle flessioni che nessun altro aveva trovato prima e che fanno tutta le ricchezza della sua eredità.
Quello che appassiona e ossessiona, in tutta questa traiettoria di vita, è quindi il Barthes che non c’è stato, quello che noi possiamo farlo diventare. E allora bisogna ringraziarlo, poi rimboccarsi le maniche, e andare. Da un lato ci dà la speranza che la sua, come la nostra vita, si possa compiere potenzialmente in vite altrui, contemporanee o postume; dall’altro ci invita a darci una sveglia e non tardare, finché non vedremo una scritta “baguette” venirci incontro a troppa velocità.