S tando alle voci che arrivano dal mondo anglofono – campagne di scandalo e indignazione, eccessi puritani di destra e sinistra, spettri di censura, romanzieri e interi comitati editoriali che si affidano alle cartine al tornasole di sensitivity readers – c’è chi si fa delle domande, a torto o a ragione, sullo stato di salute della letteratura, sui limiti della libertà d’espressione, sulla necessità per chi scrive e chi pubblica di saper correre dei rischi. Volgendo lo sguardo altrove, tuttavia, si può talora incappare in autori che propongono un’idea di scrittura e letteratura talmente svincolata da questo tipo di dinamiche da suggerire una provenienza oltremondana.
È il caso del marsigliese Régis Jauffret, nato nel 1955, che da qualche anno l’editore fiorentino Clichy propone anche al pubblico italiano. I suoi libri gli hanno meritato diversi premi e qualche querela, per via dell’assoluta irriverenza della sua penna: opere caratterizzate in grossa parte da un gusto per trame scompaginate, situazioni grottesche e surreale crudeltà, con cui lo scrittore, dall’esordio a metà degli anni Ottanta, va ritraendo la “rozza massa dell’umanità” al culmine dell’abiezione e dell’ignominia.
In una logica agonistica della letteratura, alla Harold Bloom, Jauffret è stato spesso paragonato ai suoi colleghi e connazionali Michel Houellebecq ed Emmanuel Carrère: del primo avrebbe la spietatezza nel raccontare lo sfacelo odierno, del secondo l’umanità. Ma se in Houellebecq, indubbiamente capace di mettere a nudo le ferite purulente e le contraddizioni del presente, talvolta a mancare è proprio la brillantezza artistica, e mentre Carrère, che pure ha il merito di aver scritto libri indimenticabili, dopo L’Avversario ha essenzialmente reiterato la medesima fortunata miscela di inchiesta, biografia e autobiografismo, scivolando qua e là nell’affabulazione e nella captatio benevolentiae, Jauffret ha dalla sua sia una ricerca sopraffina della forma letteraria, sia un totale disdegno per le simpatie del lettore.
Spesso nei suoi libri si assiste alla “lotta senza quartiere” tra i sessi, per esempio, raccontata con la massima sfiducia verso l’eventualità della pace. Nel romanzo epistolare Cannibali (2016; trad. it. di Federica Di Lella, 2017), una signora e una ragazza ventenne si scoprono alleate ai danni di Geoffrey (che, tra l’altro, si pronuncia proprio come il cognome dell’autore), figlio della prima ed ex della seconda, fino a desiderare di cibarsi della sua carne per cattiveria, rancore, vendetta. Tibère et Marjorie (2010; tradotto in italiano da Tania Spagnoli col titolo Dark Paris Blues nel 2016) è invece uno strampalato voyage au bout de la nuit: una carrellata di personaggi grotteschi e tableaux sempre più improbabili in cui incappano i protagonisti, una coppia di amanti in crisi giunti agli sgoccioli della loro storia. Lei, Marjorie, vuole lasciare Tibère, benché dica di amarlo troppo (e forse proprio per questo), ma la verità è che non riesce più a fare l’amore con lui, ormai soppiantato da sostituti sintetici (“Per lei l’amore era uno sport come un altro. La palestra e i sex-toys avevano rimpiazzato l’obsoleto coito”). Non per questo, però, sono capaci di fare a meno l’uno dell’altro e, non riuscendo a dirsi né di sì né di no, finiscono per trascinare nel delirio del loro amore difettoso, in una parabola teatrale e rocambolesca, da opera buffa, tutto un ampio mondo bislacco che sembra la goffa caricatura del nostro. Entrambi testi in cui lo stile ricerca ossessivamente il mot juste e l’intreccio non obbedisce alla logica del racconto quanto alla casualità onirica dell’assemblaggio assurdista, come se ciascun capoverso non fosse che il segmento demenziale di un cadavre exquis.
Perversa e immorale, l’umanità dipinta da Jauffret è allucinante fino alla più estrema dissonanza, degna del peggior incubo.
Esseri umani incapaci di rendersi felici e dimenticare a comando, costretti ad assecondare le bizze degli istinti fino a privarsi di ogni scrupolo, in ostaggio di desideri e nostalgie, vincolati a un sogno d’amore irrealizzabile (“Si domandò perché ci si si prendesse la briga di legarsi a qualcuno, se non si aveva la pazienza di aspettare insieme mezzo secolo che la morte sopraggiungesse”). L’esito, per i personaggi di Jauffret, è degradante: uomini e donne indistinguibili dai loro organi sessuali, entrambi avidi, violenti, spergiuri, approfittatori, spietati, subdoli e malvagi, alla perenne ricerca dell’umiliazione e distruzione dell’altro.
Mai questo è evidente come in Autobiografia (2000), tradotto solo quest’anno in italiano da Giuseppe Girimonti Greco, Tommaso Gurrieri e Maria Laura Vanorio. Un’opera dal titolo ingannevole, che ripercorre le vicende, dalla maturità sessuale fino al tramonto della libido, di un uomo “preda di un’erezione eterna” a cui si offre un mondo quasi esclusivamente femminile da sfruttare e divorare orrendamente. La sua vita viene raccontata soltanto attraverso le sue relazioni carnali: null’altro apprendiamo di lui o delle sue partner. Nessuna interiorità, a esclusione dell’istinto di morte e annullamento, anche di sé, che lo spinge di letto in letto.
Perversa, immorale ma del tutto anestetizzata, l’umanità dipinta da Jauffret è allucinante fino alla più estrema dissonanza, degna del peggior incubo, e sempre raccontata con un gusto per l’esagerazione, l’iperbole e l’accumulo pantagruelico che lo accomuna a quella linea della letteratura francese che, da Sade, passa per I canti di Maldoror di Lautréamont e il rabelaisiano Le undicimila verghe di Apollinaire, fino a celeberrime opere di crudeltà ipertrofica come la Storia dell’occhio di Bataille. Ma non mancano, nel soggetto della fittizia autobiografia, echi di Raskolnikov e Stavrogin, principe della dissolutezza, calati però nella quasi radicale assenza di coscienza e nel più becero materialismo.
Ripercorrendo le origini dell’arte a partire dai disegni dei primitivi e dei bambini, proprio Bataille ne aveva indicato il primum movens nella curiosità infantile per la deformazione e il disfacimento delle cose. “L’arte”, scriveva sulle pagine di Documents, “procede in questo senso per distruzioni successive. E allora gli istinti libidinosi che essa libera sono istinti sadici”. La scrittura di Jauffret non si limita a distruggere i corpi delle amanti con l’ampia gamma degli strumenti di tortura, sfruttamento e umiliazione suggeriti dalla cronaca nera e dalla fantasia, ma si accanisce sul protagonista stesso. Un uomo esecrabile dalla vita “insapore”, le cui giornate hanno come unico scopo “far progredire di un passo il [suo] cadavere”, costretto alla schiavitù del sesso e della violenza, alla ricerca di un esilio da se stesso e dagli altri ma incapace di vivere altrimenti, estraneo all’amore, che né può dare né mai riceve. Soltanto uno sfrenato e patologico istinto di conquista senza fascino o carisma che lo rende, come lui stesso si definisce nell’ultima pagina, “un burattino dai modi volgari”.
Lo scrittore ritaglia per se stesso una posizione al di là di bene e male da cui raccontare, con la più libera e scatenata immaginazione, il peggio di cui l’essere umano sia capace anche solo in linea teorica, e talvolta senza neppure il vincolo del realismo, finché l’ultimo bersaglio non diventa la stessa insopportabile realtà. Ciò che a qualcuno può sembrare compiacimento lubrico può anche esser letto come la dichiarazione di assoluta indipendenza della facoltà immaginativa, se non addirittura come l’atto di coraggio (o di scelleratezza) di chi non chiude gli occhi di fronte all’orrore.
Lo scrittore ritaglia per se stesso una posizione al di là di bene e male da cui raccontare, con la più libera e scatenata immaginazione, il peggio di cui l’essere umano sia capace anche solo in linea teorica.
È questo uno dei modi in cui si può avvicinare la più notevole produzione di Jauffret, i mastodontici volumi delle Microfictions, di cui il terzo è uscito in Francia qualche mese fa. L’idea è portentosa: in ogni volume, cinquecento racconti minimalisti di poco più di duemila battute ciascuno, tutti col medesimo ritmo, tutti in prima persona singolare, ognuno il resoconto di una vita diversa. Sono storie di mostruosa normalità e di ordinario squallore, ma anche di abiezione eccezionale. Uno zibaldone, una summa delle pieghe più meschine, banali e rivoltanti dell’esperienza umana. Nessuno è risparmiato – nessun vizio, non una paura, perversione, debolezza, nemmeno la speranza più inconsistente. Tutto diventa materiale letterario nella sapiente applicazione della forma del racconto-lampo. E l’ordine stesso è del tutto insignificante: per rispettare la volontà dell’autore, che nel testo originale ha voluto sistemare le microfictions alfabeticamente, la traduzione propone una sequenza diversa. Ancora, addirittura, il primo volume edito in Italia (2019) è il secondo (2018) della serie francese, mentre il primo oltralpe (2007) da noi è uscito solo l’anno scorso. Già strutturalmente Microfictions nega qualsiasi pretesa di gerarchia.
Una coppia facoltosa che sogna di dare in sposa la figlia trisomica a un giovane politico di belle speranze. L’autore di un sanguinoso e insensato attentato che si concede qualche istante di genuina felicità prima dell’arresto. Una donna insoddisfatta dall’anonimia della sua vita che si rifugia in un suo mondo immaginario, pianificando l’omicidio dei familiari per sgomberare il campo alla sua chimerica felicità. Una coppia in crisi di mezz’età che apprende tardivamente i piaceri dell’eros e si dimentica dei quattro figli e di tutto il resto. Una truccatrice per donne picchiate dai mariti. Un uomo che guarisce insperatamente dal cancro solo per scoprire che sua moglie ha un altro e aspettava la sua morte per risparmiarsi la fatica di lasciarlo. Una bestemmia per chi pensa che non si dovrebbe scrivere di ciò che è al di fuori dei margini dell’esperienza diretta individuale.
Sono schegge di appena due pagine, istantanee di squallore, disperazione, mediocrità soffocante, indecenza e dolore atroce, in qualche caso anche di grazia. Ma ci sono altresì assassini di padri, madri e figli (la famiglia – “ultimo esame di riparazione per non essere un giorno condannati a subire la vecchiaia amara dei falliti” – sembra la vittima predominante), e poi cannibali, necrofili, feroci psicopatici, mutilatori, nonché una serie innumerevole di bambini abbandonati, venduti, prostituiti, narcotizzati, seviziati. Il tentativo di forzare la sensibilità del lettore è evidente; come in una performance estrema, si è portati a chiedersi quale sia il limite.
Perché Microfictions ne ha per tutti: immigrati e nazionalisti, omosessuali e cultori della famiglia tradizionale, cristiani e musulmani, poveri e potenti, tossicodipendenti e probi, carcerati e inquisitori, aristocratici e plebei, cinici e fanatici, integralisti e relativisti, violenti e pacifisti, cosmopoliti e abitanti delle banlieues, persino gli animali. L’eccesso dissacrante e provocatorio è tale che produce un sovraccarico, ingozza il gusto osceno e pornografico per la violenza e lo sfacelo fino alla nausea, annega la bestialità nella petite mort di un “mare di amarezza”. Il tutto ‘addolcito’, per così dire, da un’anda sentenziale di sardonico pessimismo in aforismi, alla Cioran: “Vorremmo incontrare la nostra esistenza all’angolo di una strada per obbligarla a chiederci perdono in ginocchio per quei settantasette anni di mediocrità e farla a fette a colpi di coltello”, o “Se nel tempo non mi succederà di avere una gioia inattesa che nemmeno riesco a immaginare, potrò dire senza timore di diffamarla che la felicità non mi ha mai voluto bene”.
Ma non solo: ci sono anche droni impazziti che trasmettono le riprese surrettizie dell’intimità altrui; bambini che tornano da scuola radioattivi a causa di una forma estrema di punizione corporale, “moderna e indolore” ergo “assolutamente accettabile”; imprenditori senza scrupoli che attendono “la legalizzazione della pena di morte in azienda”; nonché uno stuolo di angeli, extraterrestri, meditatori dai vasti poteri psichici. L’eccesso infrange ogni residuo di realismo soltanto per il piacere di fare a pezzi la realtà, ultimo lusso rimasto in “questa società che merita la morte”, nella quale in ogni caso
Non c’è niente di vero se non l’immensa orgia che si svolge eternamente nell’infinito arcipelago dei siti pornografici dell’universo. Il reale di un tempo è morto. L’economia è immaginaria come i passanti per strada, le guerre e gli attentati le cui immagini sono ancora più noiose delle incisioni monocrome dei libri di scuola della mia infanzia.
Solo gli scrittori – forse la categoria più bistrattata nelle Microfictions – sembrano conoscere “la massima felicità”, che consiste nel lasciare a tutti gli altri “la pena di vivere, di danzare, di recitare la commedia dell’essere al mondo” per concedersi piuttosto “il privilegio di sfuggire alla fatica scrivendo nascosti sotto i salotti, le sale da pranzo, i fumoir, i boudoir dove si spera di scopare la bellezza. Ogni volta che salgo sul ponte perfino il sole mi delude”. Jauffret propone un’idea di letteratura come guerra permanente con la realtà, che chi scrive ha il vizio inestirpabile di voler disfare e rifare.
È questo il cuore di quello che non si teme di definire il capolavoro di Jauffret, Papà (2020; trad. it. 2020), un testo che ricorda lo scavo nelle radici familiari di Carrère in Un romanzo russo, ma anche opere di autofiction o non-fiction sullo sfondo di guerre e dittature come Soldati di Salamina o L’impostore di Javier Cercas. O l’ossessione della morte del padre nel primo dei sei volumi del Min kamp di Karl Ove Knausgård. E ancora Il primo uomo di Camus. Ma cionondimeno il libro di Jauffret propone un racconto doloroso e originale sull’eterno motivo paterno.
Tutto parte da un documentario sulla Repubblica di Vichy visto svogliatamente. Parlando dei rastrellamenti della Gestapo nel 1943, vengono mostrate alcune riprese d’epoca, e in una di queste, della durata di sette secondi, il narratore riconosce il proprio padre che viene arrestato e portato fuori dalla storica abitazione di Marsiglia. Un fatto di cui non sapeva nulla, e di cui nessuno che avesse conosciuto suo padre sembra essere al corrente. Suo padre, oltretutto, che aveva sofferto il drammatico isolamento causato dalla sua precoce sordità, nonché una depressione alternata a stati euforici per via dei quali era stato rintontito coi neurolettici e spossato con le cure del sonno. Un padre disabile, insomma, “a malapena esistito”, di cui il figlio ricorda poco e conosce ancora meno, e che improvvisamente, anni dopo la sua morte, sembra rivelarsi come “personaggio romanzesco” a tutti gli effetti. Quale beffa maggiore per un “creatore di storie” a tempo pieno?
Jauffret propone un’idea di letteratura come guerra permanente con la realtà, che chi scrive ha il vizio inestirpabile di voler disfare e rifare.
Suo padre era forse stato un eroe delle forze di liberazione o una figura più ambigua e tragica, ma non per questo meno degna di venerazione, come i protagonisti de L’armée des ombres di Jean-Pierre Melville? E perché non piuttosto un martire del tutto casuale, la classica persona sbagliata al momento sbagliato, o addirittura un pericoloso criminale? E, ancora, immaginando che, com’era prassi, fosse stato torturato dai tedeschi, resistette coraggiosamente o sputò il rospo alla prima unghia torta? E perché il suo arresto avrebbe dovuto essere meritevole di documentazione da parte degli occupanti? Un arresto peraltro “corretto e democratico”, senza ecchimosi, soprusi e prepotenze, con le manette sospettosamente davanti al corpo e non dietro la schiena. Potrebbe trattarsi di una ricostruzione successiva a cui il padre si era prestato come attore? Ma allora perché non farne parola? Realtà e finzione sono spesso indistinguibili, anzi: “La realtà giustifica la finzione”, come recita l’esergo, e d’altro canto “il cervello di un uomo ha il diritto di confondere il reale con un artefatto della propria immaginazione. Fa così spesso il contrario”.
“Quei sette secondi di pellicola hanno risvegliato il bambino annidato negli strati più profondi di me, dandomi un’inestinguibile sete di padre”, scrive Jauffret. Le “impudiche pagine” di Papà costituiscono dunque una discesa al padre, in parte documentata e in parte immaginaria, nel tentativo di riempire il vuoto di risposte e una memoria falsa e ingrata, la sua assenza e la sua insignificanza che non placano il bisogno d’amore. “Si ha il diritto di sognare il proprio padre”, prosegue, e la sua duplice natura di scrittore incline a sostituire la realtà con la finzione e di figlio assetato di un padre in carne e ossa genera un lavoro magistrale dal punto di vista letterario oltre che uno straordinario monumento di umanità e sincerità.
Così, per un istante, la vita e la letteratura sembrano toccarsi proprio là dove si direbbero massimamente inconciliabili, poiché è la letteratura, ancora una volta, a restituirci la massima approssimazione alla vita stessa, o al suo mistero, e tramite lo strumento più ingannevole che esista, perché davvero una vita “può stare interamente in una frase che da vivi ci sembra solo un soffio”. Basta saper scegliere la parola esatta. E, suo malgrado, la letteratura dalla vita dipende e ne abbisogna. Può ogni cosa, ma come la vita è fragile, rischia di ammalarsi, di assumere pessimi vizi, che non di rado nascono dalle nostre presunte migliori intenzioni, come quando dimentichiamo che la scrittura, salvifica sublimazione, è nel profondo un esercizio di libertà che ambisce a misurarsi contro le costrizioni di ogni forma, comprese quelle a cui essa stessa dà il nome di stile, e contro qualsiasi ordine di destino.
Per dirla con Jauffret, dalla premessa alla raccolta Giochi di spiaggia (2002), in italiano pubblicata – quasi fosse già un libro postumo – in appendice ad Autobiografia:
Vi racconterò storie finché non diventerò una storia anch’io, una vecchia storia, una fiaba sconclusionata, e a quel punto nessuno si ricorderà più del principe, del gufo, dell’albero dei fagioli magici. Nessuno si chiederà neppure più chi sia questo gnomo improbabile che ha scritto Giochi di spiaggia. Questo libretto si inabisserà nella sabbia. La letteratura è come noi, è viva, finisce per rompersi il collo contro il muro del tempo. […] Nel frattempo, dite loro che non ho mai sofferto. Dite loro che la scrittura è la felicità.