S ono neurodiversa, più precisamente Asperger. Lo dice la parola stessa, sento in modo diverso dalla maggioranza, dai cosiddetti neurotipici: se i sensi sono un grande mixer, i miei sono spesso regolati oltre la linea rossa di distorsione.
Per esempio, una mattina sono sulla porta di casa, pronta per uscire. Mi accorgo che qualcosa nella maglia mi punge tra le scapole. Forse ce la farò a ignorarlo: una volta salita in macchina già non ci farò più caso e potrò proseguire la mia giornata.
E se non passasse? Se diventasse un pungiglione, se si trasformasse in un piccolo cactus? Penso che potrei uccidere qualcuno. Non è l’etichetta, quella l’ho già scucita, come faccio con ogni indumento che compro. Forse un capello? A quest’ora dovrei essere già per strada, ma devo capire la fonte del fastidio ed eliminarla quanto prima.
Mi sfilo la maglia. La rovescio, controllo lo scollo posteriore, sfioro il cotone turchese. Ed eccolo qui. Un frammento microscopico di nylon, sfuggito all’epurazione. Cerco di estrarlo con la pinzetta, ma tiro, tiro e non viene, anzi si aggrappa più stretto al tessuto. Allora prendo le forbicine e la lente d’ingrandimento, come un medico che desutura una ferita. Zac! Il punto viene via e lo metto da parte, soddisfatta. Ma poi sollevo la maglia in controluce e scopro di aver forato anche lo scollo, un buchino che di sicuro si smaglierà e mi impedirà di levarmi la giacca, per cui all’ora di pranzo avrò caldo e il caldo mi sposserà e mi si gonfierà la pancia per il nervoso e diventerò intrattabile.
Stringo la bocca, cerco di non piangere per salvare il trucco, mi do i pugni in testa, “Che imbecille!”, mi dico.
Non ho tempo per rattoppare, così mi spoglio, infilo i soliti jeans e le solite Converse ed esco, sconvolta e ormai largamente in ritardo.
Oggi è stato uno stimolo tattile a rallentarmi, un altro giorno è un odore che mi si pianta nel naso e mi dà la nausea, oppure una radio di sottofondo che mi distrae e non mi permette di concentrarmi sull’interlocutore.
A farmi capire di essere Asperger sono stati Syd Barrett – il fondatore dei Pink Floyd – e mio figlio Matteo.
Il dieci marzo del 2018, alla mostra al MACRO di Roma, dopo aver girato tra maiali giganti, maschere antigas, strumenti vintage e bambini nel tritacarne, torno alla teca che racconta i loro esordi, come a un rifugio. C’è qualcosa di familiare qui che mi riporta a mia madre, a cominciare dalle illustrazioni del libro da cui Barrett prese la figura del pifferaio alle porte dell’alba. Lo stile dei disegni mi rimanda a un libro di filastrocche inglesi che ancora conservo e che mia madre ci portò dalla terra d’Albione, di cui era originaria. Qualcosa nella teca mi parla di me, mi rivedo nella bambina Emily che gioca e prova e fraintende. Sento un suono che ancora non riesco a decifrare, arriva a me dal vento che soffia tra i salici, una musica silvestre e antica che riecheggia da sempre nel mio essere più profondo.
Nella libreria del museo compro una biografia di Syd Barrett. Da piccolo Syd diceva cose strane, frasi che sorprendevano gli adulti. Per esempio, a quattro anni sgridò sua madre in mezzo alla strada, perché si era dimenticata di comprargli un giocattolo che gli aveva promesso, dicendole: “Tu pensi solo a te stessa!”.
Mio figlio fa lo stesso: a due anni sapeva già leggere parole lunghe, non sbagliava un congiuntivo e usava espressioni come: “Vorrei indossare il giubbotto, sono infreddolito e sfelice”. Oppure una volta gli chiesi cosa avesse fatto al nido, e lui rispose: “Sono entrato nelle narici della maestra”. Ci faceva ridere, lo chiamavamo ‘il nostro bimbo psichedelico’.
“In quel periodo il piccolo Barrett stava già sviluppando comportamenti molto personali: al temperamento gioioso e positivo che lo caratterizzava, di tanto in tanto potevano sostituirsi stravaganti manifestazioni di irritabilità se per qualche motivo veniva contrariato”, leggo nel libro.
Si ipotizza che Syd Barrett non fosse schizofrenico, ma avesse la sindrome di Asperger. La prima volta che l’ho sentita nominare è stato a casa di un’amica; parlava di sua madre, una donna, a suo dire fredda, ed eccentrica. Questo succedeva cinque anni fa e fino a stasera non ho avuto alcun interesse ad approfondire la questione.
Leggo sul sito di Spazio Asperger – una onlus che si occupa delle persone nello spettro autistico ad alto funzionamento: “Sindrome di Asperger è un’etichetta diagnostica che il DSM-IV ha introdotto per definire tutte quelle persone dotate di linguaggio formalmente corretto che, in assenza di ritardo cognitivo, presentano alcune caratteristiche dell’autismo. Le persone che si situano in questo punto del continuum autistico presentano un insieme di peculiarità comportamentali che riguardano principalmente l’area sociale, sensoriale percettiva, attentiva e affettivo motivazionale. Nella prassi clinica si raggruppano sotto questa definizione un’ampia gamma di condizioni e di stili di funzionamento cognitivo, affettivo e sociale. Non esistono due persone asperger uguali e le loro abilità possono spaziare dall’eccellenza in alcuni settori, come le arti grafiche, la musica o le scienze, con risultati a volte straordinari, a situazioni più deficitarie dove possono essere presenti difficoltà nella gestione autonoma di semplici attività di vita quotidiana. Si tratta di una condizione di variazione neurobiologica, che si manifesta in un determinato fenotipo comportamentale, con conseguenze in ambito sociale, affettivo e lavorativo. Per riferirsi a questa condizione si usa anche il termine di neurodiversità”.
Tra le caratteristiche mi colpisce in particolare la tendenza a camminare in punta di piedi: mio figlio lo fa da quando ha imparato i primi passi e pare che lo facesse anche Syd Barrett.
Insomma, mio figlio è Asperger. Alle feste di classe si apparta e chiacchiera tra sé, agitando l’indice come per tracciare in aria i suoi pensieri. Non ho mai visto la cosa come un problema. Io stessa non trovo le parole giuste per descrivere quant’è bello starsene assorti nel proprio mondo. Ma prima pensavo anche che mio figlio fosse un po’ stronzetto, e adesso invece capisco che è fatto così, che è la sua fibra.
Al tempo in cui lessi queste cose, Matteo stava seguendo una terapia presso un centro di logopedia che ci avevano consigliato le maestre. La diagnosi era disturbo da disregolazione emotivo-comportamentale, ma fin dai primi colloqui avevo avuto la sensazione che quei terapeuti non stessero guardando nel posto giusto, che il loro giudizio fosse orbo.
Quando avanzai la prospettiva dell’Asperger mi chiesero provocatoriamente perché ci tenessi tanto che mio figlio fosse autistico. “Perché sono come lui, l’ho partorito io”, ho risposto, sorprendendo anche me stessa. “E conosco la tragedia di un’infanzia senza aiuto”.
Le bambine Asperger sono attente osservatrici, nei giochi scelgono un punto periferico e strategico per analizzare ciò che vedono e schedarlo in categorie.
Nel cortile della mia scuola c’erano i maschi che urlavano e correvano, sollevando polvere come bufali; e le femmine che saltavano la corda in gruppo; altri nuclei di due o di tre che facevano conte, recitavano filastrocche, o semplicemente chiacchieravano e ridevano tra loro.
Io preferivo costeggiare il perimetro del cortile, starmene dietro la fila dei platani, protetta dai loro tronchi e dalla loro ombra. Giocavo con le foglie, le spezzettavo facendo finta di cucinare. Fossi stata sola avrei parlato a piena voce, con tono disinvolto e accattivante, immaginandomi come la presentatrice di un programma di ricette. Ma già sentivo che la vera me stessa andava nascosta, e che nel mettermi lì a ciarlare da sola c’era qualcosa di inaccettabile.
Accantonavo fantasie e foglie e andavo in cerca di qualcuno con cui stare. Mi piaceva più di tutto giocare ‘ai cartoni’, cioè mettere in scena situazioni inedite utilizzando i miei personaggi preferiti. Allora trovavo qualche compagna un po’ meno sociale, qualcuna che appariva un po’ annoiata, e dicevo: “Giochiamo a Lady Oscar? Giochiamo a Capitan Harlock?”.
Tony Attwood, psicologo clinico, professore alla Griffith University di Queensland in Australia e maggior esperto vivente di sindrome di Asperger, spiega che le bambine sono più creative dei maschi nel ricercare strategie di adattamento. Studiano atteggiamenti e gusti delle compagne più estroverse e li imitano per mascherare le difficoltà di socializzazione. Spesso attingono da personaggi di finzione televisiva o letteraria, per cui sviluppano vere e proprie manie, e hanno amici immaginari. Utilizzano le bambole per mettere in scena giochi di ruolo in cui ripetere e analizzare i meccanismi sociali che non riescono a comprendere, ma tutto ciò avviene attraverso l’intelletto, non l’istinto, come accade invece per le coetanee neurotipiche.
Della scuola mi piaceva molto poco, mi piaceva quando bisognava accendere la luce perché fuori c’era il temporale, mi piaceva disegnare e fare i temi. Per il resto, era un luogo dov’ero costretta a resistere, mi impegnavo a stringere i denti, fino alle quattro, poi volavo a casa per mettermi davanti alla televisione.
“Anche se le persone con sindrome di Asperger hanno difficoltà negli aspetti interpersonali della vita, la maggior parte di esse è dotata di notevoli capacità in un ambito di competenza selezionato”, scrive il dottor Attwood nella Guida completa alla sindrome di Asperger (edizione italiana a cura di Davide Moscone e David Vagni – Spazio Asperger ONLUS). “Una componente essenziale dell’interesse è rappresentata dall’accumulo e dalla catalogazione di oggetti oppure di fatti e informazioni su un argomento specifico. L’interesse speciale è più di un hobby, e può dominare il tempo libero e la conversazione della persona”.
Ma la differenza tra interesse speciale e ossessione è che l’ossessione consuma, mentre la dedizione autistica appaga, dà un senso di identità e di appartenenza.
Col passaggio alla scuola media aggiornai le mie fissazioni. All’improvviso non disegnavo più occhioni stellati, ma concerti dei Duran Duran, arene colorate e teste, centinaia di teste immerse in fasci di luce che si incrociavano nel mezzo. Seduta in classe fantasticavo di essere alle Bahamas con Simon Le Bon o in Norvegia con gli A-ha e all’uscita correvo in edicola per comprare giornalini e riviste da cui poter ricavare quante più immagini e informazioni possibili. Un atteggiamento comune a tante mie coetanee, sicuramente, ma non so quante di loro abbiano intrattenuto lunghe conversazioni immaginarie con i poster. Gli sguardi fissi erano confortanti, erano immobili e non riservavano sorprese, dovevo solo stare attenta a non farmi scoprire dalle persone vere. Io raccontavo di me, loro mi rispondevano, mi davano i consigli che nessuno mi dava, erano gli amici che fuori non riuscivo a conquistare.
Le statistiche sul numero di diagnosticati dicono che ci sono quattro maschi per ogni bambina. Questo dato potrebbe essere falsato dal pregiudizio che vede l’Asperger come il disturbo dei maschietti che allineano trenini in solitudine o che ripetono a mente le targhe delle macchine incontrate durante il tragitto da casa a scuola. Le donne sono incoraggiate per cultura a conformarsi e i loro interessi particolari si confondono spesso con quelli delle coetanee: la musica, gli animali, il disegno, i libri. Una bambina timida e riservata è quasi romantica, al contrario del piccolo scienziato, che allarma molto prima.
Il neurotipico cerca la socializzazione in quanto tale, mentre l’Asperger (maschio o femmina che sia) è felice quando è immerso nei suoi interessi speciali. Se l’interlocutore non lo rimanda a uno di questi interessi, l’Asperger resterà muto o visibilmente impacciato e non vedrà l’ora di sganciarsi.
Sono stati i miei interessi speciali a portarmi degli amici. Dai metallari di piazza di Spagna, che mi hanno dato un motivo di appartenenza, alla passione per l’America, ai corsi di spagnolo all’università, ai gruppi rock che nel corso degli anni ho amato e che mi hanno fatta sentire meno aliena e meno sola.
Quando è stata confermata la diagnosi a me e a Matteo, lui aveva otto anni e io da poco quarantacinque. Ero sollevata, le nostre differenze avevano un nome e potevo lasciar cadere il senso di colpa. Ma poi è sopravvenuta la rabbia verso chi, anziché riconoscere le mie difficoltà, mi ha giudicato. Ho buoni motivi per sospettare che anche mia madre fosse un’aspie e, riconosciuta questa possibilità, il rancore si è trasformato in gratitudine: noi almeno l’abbiamo saputo. Lei è morta credendo di essere difettosa, straniera ovunque, serena solo nelle ore passate a ricamare arazzi o ad ascoltare Bach, o nel suo giardino.
Ho riguardato la mia storia una volta ancora e sotto quella nuova luce ho visto che per esistere ho sempre avuto bisogno di cucirmi addosso un’etichetta: la duraniana, la metallara, l’universitaria, l’artista, la moglie, la madre. Ogni situazione mi voleva diversa e spesso in conflitto con le mie altre versioni. Ora so che posso essere tutte queste cose insieme, nello stesso momento e nello stesso posto, senza bisogno di mutilare il mio spirito per recitare un ruolo plastico.
In seguito alla diagnosi ho fatto una lista di ciò che considero essenziale, poi ho eliminato tutto quello che non mi rappresenta, vestiti, oggetti, pensieri. Ho iniziato a costruire una narrazione basata su chi sono veramente, sui miei punti di forza e sui miei limiti, limiti che ora sto imparando a gestire con appropriate strategie.
Syd Barrett trascorse gli ultimi vent’anni della sua vita in un seminterrato, a dipingere e a compilare un personalissimo volume di storia dell’arte. Quando morì, il 7 luglio del 2006, il volume era ancora in lavorazione. Aveva rifiutato ogni legame col passato e si faceva chiamare semplicemente Roger.