È
possibile raccontare gli altri, cioè altre vite e punti di vista diversi, anche radicalmente lontani dal nostro? È una domanda che riguarda la filosofia e la letteratura fin dall’antichità. Dopo la colonizzazione delle Americhe si pone con particolare acutezza il problema del confronto tra civiltà “straniere”, comincia un’epoca di incontri senza precedenti, di cose mai viste e idee mai pensate, ma anche di violenze e genocidi. Nell’Europa del Seicento inizia a circolare l’espressione “punto di vista” (per esempio nella filosofia di Leibniz ogni sostanza è caratterizzata dal suo diverso “punto di vista” sul mondo). Il romanzo del Settecento è un continuo esercizio di racconto di sguardi altri e stranieri. Nei romanzi dei filosofi illuministi si dà voce ai Persiani, ai nativi nordamericani, ai tahitiani, finanche a un alieno (Micromega di Voltaire), con lo scopo di gettare uno sguardo straniante e critico sulla civiltà moderna europea con le sue istituzioni: famiglia, religione, monarchia. “Pensare mettendosi al posto degli altri” diventa per Kant un imperativo per conquistare un “punto di vista universale”. Due secoli dopo, Hannah Arendt ne sottolineerà il valore politico.
Spesso il romanzo è stato celebrato come mezzo esemplare per raccontare diverse voci e prospettive e promuovere la comprensione e la tolleranza. Milan Kundera, in questo senso, lo presentò come una preziosa risorsa contro i blocchi ideologici:
Il romanzo è un gioco con personaggi inventati. Vedi il mondo attraverso i loro occhi e così lo vedi da diversi angoli. Più i personaggi sono differenziati, più l’autore e il lettore devono uscire da sé stessi e tentare di capire. L’ideologia vuole convincerti che la sua verità è assoluta. Un romanzo ti mostra che tutto è relativo. L’ideologia è una scuola di intolleranza. Un romanzo ti insegna tolleranza e comprensione. Più il nostro secolo [il Novecento] diventa ideologico, più il romanzo diventa anacronistico. Ma più diventa anacronistico, più ne abbiamo bisogno.
Nonostante questa lunga tradizione di valutazioni positive, oggi l’operazione poetica di raccontare le voci degli altri nel romanzo è diventata controversa; in certi casi è considerata inopportuna o addirittura illegittima. È il momento di chiedersi di nuovo perché e a quali condizioni sia possibile il gesto, connaturato al romanzo, del dare voce ad altre persone – magari usando la prima persona, mettendosi grammaticalmente al posto di un altro soggetto.
Paolo Pecere
Appropriazione culturale, immaginazione morale
Paolo Pecere: Oggi l’atto di raccontare altre voci e altri punti di vista è oggetto di contesa. Se uno scrittore cerca di riprodurre la voce di personaggi appartenenti a altri gruppi etnici, ad altre classi, ad altri generi, si parla di “appropriazione culturale”, come di qualcosa di impossibile, oltraggioso, o almeno inopportuno. Secondo questa opinione, bisognerebbe che ognuno raccontasse con la propria voce la propria identità. Avendo scritto due romanzi in cui uso la prima persona, rispettivamente, per una donna madre di due figli (La vita lontana), e per un anziano poeta cinese e una giovane italo-cinese (Risorgere), mi sento ancora più coinvolto dal problema. Zadie Smith ha scritto un bel saggio per contestare queste tesi in base alla propria esperienza di ascoltatrice e di lettrice, prima che scrittrice. Racconta che, quando leggeva romanzi, “le voci dei personaggi andavano a ingrossare i ranghi di tutte le altre voci che avevo dentro, e finivano per rendere indistinta l’idea di una ‘mia’ voce. O forse è meglio dire così: non ho mai pensato di avere una voce del tutto separata dalle molte voci che sento, leggo e interiorizzo ogni giorno […] Quanto insulta l’anima mia è l’idea – molto diffusa nella cultura attuale, e presentata con gradi molto variabili di complessità – che si possa e si debba scrivere solo delle persone che sono sostanzialmente ‘simili’ a noi: dal punto di vista razziale, sessuale, genetico, nazionale, politico, personale. Che solo un intimo legame autobiografico col personaggio, da parte dell’autore, possa essere la base legittima di un’opera di letteratura”.
Cosa ne pensi? E a parte la teoria, che cosa sta succedendo nella narrativa di oggi?
Claudia Durastanti: Di recente ho scritto un racconto in prima persona per un’antologia basato su Alene Lee, la donna che ha ispirato il personaggio Mardou Fox ne I sotterranei di Jack Kerouac. Questi sono i problemi teorici che la scrittura di un racconto del genere comporta oggi: è positivo il tentativo di riscattare la storia di una donna afroamericana e cherokee dalla rappresentazione romanzesca che ne ha fatto un uomo innamorato ma misogino, razzista, patriarcale e a tratti violento. Ma essendo io una donna che ha un corpo e una storia legata al corpo molto diversa da quella di Alene Lee, anche se da ragazza ho provato una grande identificazione – termine cruciale e quasi automatico quando parliamo di impatto dei romanzi su di noi – con il personaggio di Mardou Fox ho il permesso di raccontare la sua storia, seppure in un lavoro di finzione? Oltretutto trattandosi di una donna non più in vita, che ha scelto di restare al margine? Le implicazioni sono numerose (leggendo La straniera, mia madre ha contestato solo la rappresentazione di suo fratello morto di HIV, perché non poteva leggere il libro, e invece di pensare alle ferite delle persone vive, ha pensato alle ferite che si arrecano ai defunti. Questo per dimostrare che il campo della «ferita» è molto soggettivo, difficile farne teoria).
«Chi ha diritto a dire cosa?» è una delle domande che ricorre nel lavoro di Chris Kraus, un’autrice a cui penso spesso, e che da sempre si interroga sul concetto di possibilità nella narrativa, e cerca di estendere il suo discorso al soggetto al margine. Anche nell’ambito della critical theory, Chris Kraus identifica e stana sempre delle forme di privilegio e silenziamento. E lo fa non per “sanitarizzare” la letteratura o renderla educata, ma per allargare il palinsesto. Tornando al racconto su Alene Lee: basta auto-identificarsi con il margine per raccontare storie come quella? Il permesso posso darmelo perché sono donna, perché sono cresciuta in un ambito subalterno, perché conosco un pochino New York? Dove inizia e finisce il limite con cui posso usare la sua storia? Che distanza c’è veramente tra me e Kerouac allora?
La cosa interessante è che io anni fa queste domande non me le sarei poste, due anni fa forse non avrei scelto Alene Lee come soggetto perché il mio sguardo l’avrebbe scartata proprio perché avrei sentito di non averne i mezzi, e oggi torno a lei con una riflessione che non ignora il dibattito sull’appropriazione culturale, ma cerca di trovare una via al suo interno. Per me il permesso di dire qualcosa presuppone la curiosità verso il soggetto ascoltato, la consapevolezza che l’identità è poco coerente e magmatica in qualsiasi caso. Per esempio, da figlia di una donna povera non mi innervosisce o imbarazza che l’autore borghese racconti la povertà, è sempre stato così; mi crea problemi la povertà rappresentata come massa indistinta di desideri violenti e frustrazioni, la frequente assenza di multi-tonalità, che dipende da scarso ascolto, da poca curiosità. Questa mancanza di attenzione e curiosità si può trovare anche all’interno di una cultura. Credo, d’altra parte, che ci sia un istinto innato a uscire e rientrare fuori dalla propria soggettività. Sono queste doti plastiche per me a modellare un permesso.
American Dirt, di Jeanine Cummins, è stato al centro di un’aspra polemica negli Stati Uniti perché l’autrice avrebbe dato una rappresentazione inaccurata dei migranti messicani, conoscendoli solo dall’esterno. Ma più che un libro scorretto, è un libro davvero brutto. Ragazza, donna, altro, di Bernardine Evaristo si colloca all’estremo opposto, con un’autrice che vive in prima persona l’intersezione identitaria su vari piani, concedendosi anche una liberatoria ironia sull’appropriazione culturale delle sue simili. Stilisticamente, esteticamente, dice in maniera bella quello che pensa in maniera bella. E questo per me è fondamentale. Il senso del discorso sta lì. La letteratura americana degli ultimi anni è invasa di libri che pensano bene e scrivono male, ed è un gioco che si sta esaurendo. Dunque io spero che accada questo: che si allarghino i palinsesti, che si trasformino e rovescino le gerarchie, che i portatori di nuove voci e visioni abbiano la curiosità, lo studio e il desiderio che producono scritture capaci di restare; e che impareremo ad avere meno bisogno dei libri pensati bene e scritti male, e ci ritroveremo con dei libri pensati anche male, ma scritti bene, ma che tutti hanno il permesso di scrivere, e che in tanti hanno l’interesse a pubblicare. La cattiveria, il pensiero scomodo, il fascino del male e della decadenza non sono più la prerogativa di alcuni soggetti scriventi tradizionali, e questo fa paura.
PP: Secondo lo storico Carlo Ginzburg, “i romanzi ampliano la nostra immaginazione morale: nostra in quanto esseri umani, ma quindi anche di noi storici. Nella lettura di libri di finzione, ci possiamo ritrovare nei panni di un assassino, di un burattino, di un insetto. Delitto e castigo di Dostoevskij, Pinocchio di Collodi, La metamorfosi di Kafka: dimensioni lontanissime da noi; però questi scritti ci permettono di entrare in un mondo che non è il nostro e questo è, mi pare, qualcosa che ci nutre profondamente”. Il termine usato da Ginzburg, “immaginazione morale”, si trova nei lavori dell’antropologo Clifford Geertz per indicare il tentativo di comprendere persone di altre culture. Per Geertz non sentiamo mai “cosa si prova” a essere un nativo balinese, o marocchino, non entriamo nei panni degli altri. Ma possiamo comprendere di cosa si tratti mediante “un’abilità di interpretare modi di esprimersi”, “sistemi di simboli”. È più come “capire un proverbio, cogliere un’allusione, una battuta – o leggere una poesia – che entrare in comunione”. Io sono d’accordo con questa critica dell’empatia, al cui posto si trova il lavoro di comprensione dei segni e dei gesti.
Tu nel romanzo La straniera, a proposito della tua vita a Londra, scrivi: “L’empatia l’ho disimparata. Ora ho una cittadinanza”. Suggerisci così che se chiunque in teoria può immaginare gli altri, anche grazie allo studio, le minoranze sono in certo modo avvantaggiate dalle circostanze.
CD: Per restare su Ginzburg, mi ha molto colpito durante un suo intervento filmato su Cesare Pavese che ho visto di recente, sentire quest’affermazione: “Io detesto l’empatia, sono per la filologia”. Ne ho approfittato per ragionare sul mio lavoro, e ho tratto la conclusione di aver peccato forse di falsa coscienza: per anni ho creduto di avere una scrittura empatica, di offrire un’esperienza empatica. Forse per contrastare l’ironia postmoderna in cui sono stata immersa da adolescente e nei miei primi anni universitari, il cui cinismo conformista mi aveva stancata, mi sono molto abbandonata alla new sincerity a un certo punto, individuando nell’empatia una modalità per creare e creare vicinanza, dandomi delle regole che ho riportato nella Straniera, proprio perché non mi piaceva il contesto socio-politico in cui stavo abitando allora in Inghilterra, dove l’empatia era spesso antitetica alla sopravvivenza. Ma se ci penso adesso, la traduzione che è stata fondamentale per tutta la mia vita, sin da bambina facendo da interprete a mia madre, non si basava tanto sull’empatia quanto sulla comprensione e accettazione di una distanza, andando alla ricerca di un gesto per colmare quella distanza. Non sull’identificazione, ma sull’assunzione di responsabilità della mia differenza. E dunque, credendo di aver scritto un libro empatico, scopro ora quanto fosse in realtà filologico.
È quello che dicevo prima sul rapporto tra amore e cultura: amando una madre irriducibilmente «differente» come la mia avrei annullato la possibilità di studiarla, non avrei trovato modo di inserirla in un romanzo, di darle una forma letteraria. Peccando di «eccesso di cultura» invece, facendone cioè l’oggetto di un puro interesse intellettuale, avrei dimenticato l’esperienza amorosa dell’essere figlia, avrei scritto un saggio forse utile per comprendere la sua marginalità come «caso», ma avrei ucciso la sua individualità, la sua storia personale. È un equilibrio difficilissimo, mi pare, questo dell’immaginazione morale. Più semplice se ci si rapporta a persone realmente esistenti, poiché lì c’è proprio un’attrazione forte, carnale, c’è l’altro che fa metà del lavoro in un certo senso. Penso, per esempio, all’Avversario di Carrère, a La città dei vivi di Lagioia. Mia madre ne La straniera fa letteralmente metà del lavoro. La sfida è, come sempre, tenere presente il principio dell’immaginazione morale nel campo della finzione assoluta. E lì, se riesci, hai Dostoevskij. E risolvi anche la questione dell’appropriazione culturale.
Io penso che la scrittura empatica, azzardo a scrivere simbiotica, sia una fase; spesso coincide con gli esordi. L’esperienza della simbiosi per me è stata fondamentale nelle relazioni più intime, una vera e propria forma conoscitiva, ma ha comportato spesso la distruzione dell’altro, e al tempo stesso di me stessa, in una fusione che rischiava di distruggere il processo della scoperta e la mediazione del linguaggio. In quella simbiosi si scrivono pagine bellissime, alte, quasi sacre. Molte scrittrici che ho amato l’hanno usata. Ma comporta appunto una distruzione. Non penso che sia un caso quando verso la fine della Straniera scrivo che la violenza più grande che ho fatto a una persona non è stata abbandonarla o spezzarle il cuore, ma renderla simile a me. C’è qualcosa di atroce in questa idea della somiglianza. E in fondo anche l’empatia, in certi casi estremi, diventa mostruosa.
Conoscenza e rappresentazione di sé
PP: Vorrei proporre un ultimo passaggio. Forse non solo è possibile comprendere gli altri (benché più o meno facile e opportuno), ma soltanto il dialogo con altre voci può aiutarci a portare a chiarezza quello che siamo, poiché un accesso privilegiato alla verità su noi stessi non è la nostra condizione di partenza. La stessa Zadie Smith, nel saggio che ho citato, dice di aver capito di essere abitata da “voci contraddittorie”, di non essere coerente. Certo, mettendo insieme i nostri ricordi siamo certi di sapere, a grandi linee, chi siamo: è facile scrivere brevi biografie. Ma la psicologia mostra che quando ci spieghiamo le nostre azioni e i nostri pensieri spesso ci illudiamo, confabuliamo, quindi non soltanto non comprendiamo i nostri autentici moventi, ma ci convinciamo di averne altri. E le biografie, nel tempo, cambiano anche profondamente, poiché le svolte della vita ci fanno cambiare l’interpretazione degli stessi eventi. Ma allora chi sono veramente io? “Io” è un pronome che si riferisce a qualcosa di indefinito, il cui contenuto cambia continuamente, che viene modificato mediante una continua negoziazione con altre voci, che talvolta facciamo nostre, incorporiamo. O, si potrebbe dire, ce ne facciamo possedere, come ho scoperto lavorando al libro che ho appena terminato sulla possessione, Il dio che danza: in tante culture, il diventare temporaneamente altro è un metodo istituzionalizzato per incorporare altre identità e esplorare personalità alternative, e l’io è normalmente concepito come un’entità porosa e molteplice.
Questo non significa affatto che possiamo essere chiunque e che non esistono differenze. La nostra coscienza si accompagna a un corpo, a una storia sociale, e le differenze fisiche e sociali non sono superabili con un atto di comprensione o immaginazione. Ma il punto è che la stessa identità personale non è un bene stabile, come una proprietà registrata al catasto, è una forma costante, in un corpo mutevole, che è sempre in gioco e spesso, nei fatti, ci mostra lati sconosciuti di noi stessi.
L’emigrazione, di nuovo, mi sembra poter giocare un ruolo esemplare per illustrare questa variabilità dello sguardo su se stessi. Un caso esemplare è quello dello sciamano Davi Kopenawa, che ne La caduta del cielo racconta di aver vissuto in un’altra comunità (quella dei bianchi) e così facendo acquisisce una comprensione nuova di sé e della propria cultura, se ne riappropria con una nuova consapevolezza. Ma non c’è bisogno di una situazione tanto eccezionale: per chiunque il colloquio con un osservatore attento e critico è fondamentale a comprendersi meglio. Questo colloquio diventa metodo clinico nella psicoterapia, dove una persona esamina le proprie azioni e i propri pensieri ascoltando le ricostruzioni dello psicologo proprio allo scopo comprendere meglio sé stessa a partire dall’esigenza di cambiare. Tu hai studiato antropologia, non so se e quanto questo abbia ispirato, o lasciato traccia nella tua attività di scrittrice e traduttrice. Che pensi?
CD: Ho appena finito di tradurre un romanzo anomalo, a cui tengo molto, Notti insonni di Elizabeth Hardwick. Quando uscì nel 1979, Joan Didion lo recensì accostandolo a Tristi Tropici di Claude Lévi-Strauss. Didion scriveva: «I modi in cui Notti insonni ricorda Tristi Tropici non riguardano solo il tono. Il metodo dell’“io” in Notti insonni è infatti quello dell’antropologo, del viaggiatore attento a cogliere il dettaglio rivelatore: ci vengono fornite osservazioni precise sugli sconosciuti incontrati nel corso del viaggio, studi intimi dei loro rituali. Questi studi assumono la forma di scenette, rievocazioni, storie che all’inizio non offrono un filo conduttore sostanzioso». Penso che questo passaggio riassuma cosa siano stati gli studi antropologici per me, anche se interrotti a un certo punto (mi piacerebbe riprenderli a dire il vero), una forma di imprinting fortissima, un’ossessione per il dettaglio, il simbolo, il presentare qualcosa e allo stesso tempo mettermi al riparo dallo spiegare tutto. Le scritture antropologiche migliori hanno sempre un rispetto verso il mistero, e lo riflettono anche nella lingua. È strano dirlo di una disciplina nata per classificare e categorizzare l’altro anche a scopi politici, ma nel suo cuore profondo, l’antropologia si ritira davanti al mistero, e rende tutto l’inspiegabile, la distanza e l’incoerenza dell’esperienza umana, senza scivolare nell’esoterismo o nella feticizzazione. Questo fa una buona antropologia, questo mi ha insegnato.
PP: Hai raccontato la Basilicata, fonte di alcune delle “mitologie” famigliari con cui hai fatto i conti. Fin da quando i gesuiti chiamavano le regioni dell’Italia meridionale le “Indie di qua” c’è un problema di prospettiva: per un verso ne circola una rappresentazione esotica, per l’altro verso la popolazione locale non se ne libera facilmente. Come ti sei posta rispetto a questo problema? Lavorerai ancora sulla Basilicata?
CD: Ci sto lavorando adesso a partire da due procedimenti apparentemente opposti: la mappatura e la dimenticanza. Voglio conoscere qualcosa che mi è familiare con i miei strumenti, ma anche dimenticarne la letteratura e la sociologia, in modo da creare se possibile letture alternative del territorio. A volte penso che la Lucania sia un romanzo straniero dell’Ottocento che non è stato più tradotto. Ma per dimenticare devo prima ovviamente sapere cosa sto dimenticando. E in un certo senso la Basilicata, che Pasolini definiva la Cenerentola del Meridione, è stata molto “fiabizzata”, esoterizzata, feticizzata, data in pasto ad antropologie buone e cattive a partire da un bacino fecondo di distanza. Penso sempre a cosa ne avrebbe fatto un Joseph Conrad. Mi sono occupata molto di marginalità, intersezione e subalternità su un piano personale, famigliare, o scegliendo di raccontare alcuni personaggi e non altri. Ma gravitando appunto in una dimensione di famiglia, concetto chiave nel Sud, nel modo di pensare al Sud. Mi piacerebbe ora traslare questi temi in un ambito di comunità, e penso sia anche questa una storia del meridione. Come la trinità individuo-famiglia-comunità sia cambiata nel corso della storia, o rimasta uguale a se stessa. Ma in maniera plastica, flessibile, questa è l’ambizione. Da scrittrice, il tema è a chi fa comodo tutta questa povertà e questa autenticità della povertà nel romanzo del Sud, e trovare nuovi snodi tra rivoluzione e corruzione, meno biblici e mitici da un lato, meno sociologici dall’altro. Ecco, ora so benissimo cosa ne avrebbe fatto Steinbeck.
PP: Il tuo romanzo, La straniera, già dal titolo rimanda allo straniamento (estrangement), allo sguardo straniero (stranger), che è un tema tipico dell’incontro con qualcosa di mai visto e remoto, caratteristico della modernità. In un dialogo memorabile dell’Amleto, Orazio trova “strana” l’apparizione del fantasma del padre di Amleto, e questo lo invita all’apertura mentale: “E allora dagli il benvenuto da straniero. In cielo e in terra ci sono più cose, Orazio, di quante non ne sogni la tua filosofia”.
Nel tuo romanzo hai raccontato una storia di famiglia e emigrazione, misurandoti con la distanza culturale e linguistica: la “voce rotta” dei nonni emigrati dalla Basilicata a New York, la sordità dei tuoi genitori. A un certo punto del libro scrivi che, raccontando di te stessa, capisci che “tutto nel tuo sangue è richiamo, e tu sei solo l’eco di una mitologia interiore”. D’altra parte, hai dichiarato che il tuo è un romanzo piuttosto che un memoir, poiché quella mitologia non ti limiti a trasmetterla, ma la elabori. In che misura narrare una storia con materiali vissuti è una trascrizione di voci, e in che misura è riflessione e invenzione?
CD: Nel caso de La straniera, il concetto di trascrizione è fondamentale, perché rinvia immediatamente all’ambito dell’ascolto e del sentire, centrali in un testo che gravita attorno alla sordità. Il desiderio alla base del libro era ascoltare qualcuno di esterno, in questo caso una madre, per scoprire come riecheggiava dentro di me e capire come cambiavano i reciproci significati. Ci sono storie di non-fiction in prima persona che partono da un ascolto molto profondo di sé stessi; ci si relaziona al proprio materiale biografico quasi con un orecchio assoluto. Questo non era il tipo di libro che volevo scrivere, e che identifico come memoir proprio perché ha questo assunto di base: una grande intimità e ossessione verso il precipitato della propria memoria, a partire da una sensibilità molto «interessata». In questo caso io ero davvero interessata alla vita di qualcun altro, e al modo in cui questa si era sviluppata prima e dopo la mia vita: volevo «sentire» la vita dei miei genitori, la loro giovinezza, la loro lingua rotta, quella delle donne della mia famiglia allargata, o sentire la vita dei miei doppi rimasti in America quando sono emigrata a sei anni.
Pur essendo molto attenta a questioni di suono, tuttavia, ho iniziato a ragionare sul genere prima ancora che sul tono da imprimere alla storia o alla lingua. Per via della maturità storica della forma romanzo, riconosciamo al romanzo la possibilità di avere vari generi al suo interno, dal giallo a quello di formazione, dal genere storico all’autofiction appunto. Ma è come se a loro volta questi macrogeneri avessero poche varianti; ne accettiamo le evoluzioni e trasformazioni con pigrizia, finendo con l’accettare sempre alla dicotomia tra io autentico e io di finzione, che nella letteratura biografica aderirebbero a vari livelli. Eppure all’interno della letteratura biografica, che è un campo sterminato e indecifrabile, si sono imposte letture molto ristrette, tanto che poi testi ibridi come La straniera vengono fuori quasi come anomalie, quando fanno parte di uno spettro di possibilità molto ampio e ormai tradizionale.
Leggiamo autofiction dai tempi di Kerouac – cito lui come primo esempio che ha avuto una valenza personale nella mia formazione –, ci sono forme dell’io esautorate, esaurite, per quanto sono state percorse. Audre Lorde ha scritto My name is Zami, la sua bio-mitografia, nel 1982, dunque anche le «anomalie» hanno ormai un pieno radicamento nella storia della letteratura. La questione dei generi romanzeschi è stata fondamentale per strutturare La straniera, e lo dimostra un esempio semplice: tanti anni fa, mentre raccontavo la mia infanzia tra Brooklyn e Lucania a un amico scrittore, mi ha detto: «Ma è fantastico, è un misto tra western e storia di fantascienza. Siete arrivati con una navicella spaziale, da alieni, in una comunità definita dalla presenza di preti, forze dell’ordine, matti e fuorilegge.» Io pensavo di non avere il diritto a pensare alla mia vita come romanzo, figuriamoci se dentro ci potevo sentire il western o lo sci-fi. La mia vita poteva essere sociologia, per via della sordità e della classe subalterna, poteva essere letteralmente autobiografica, e dunque trasformarsi in un memoir grazie alla presenza del trauma, ma prima di quella conversazione non ci avevo mai sentito dentro il romanzo. Semmai ci avevo sentito la mitologia, quella materna.
È stato mio padre contestando la memoria di mia madre sul loro primo incontro a donarmi un romanzo, e ci tengo a ribadire questa idea del «dono»: senza questa offerta fortuita da parte sua, avrei avuto un altro libro. Non avrei compreso a pieno la natura profondamente contraddittoria della memoria di sé. Lo sanno bene gli storici che si occupano di storia orale, e che devono risalire alle fonti per tamponare quelle falle. Da romanziera, io dovevo solo divaricarle. Non fidarmi delle fonti, in un certo senso. Volevo talmente smagliare questa idea di memoria e tempo nell’autobiografia che tutto il capitolo su Londra, nella stesura originale, era ambientato a dieci anni da adesso, nel futuro. Come se fosse speculative non-fiction. Non c’è niente di più integrato nel passato o nel presente dell’idea di noi nel futuro, di come saremo. Come potevo tenere traccia del prima, senza raccontare questa fantasticheria del dopo? Ma nei memoir che leggevo, raramente mi imbattevo in questi elementi di distopia o di anticipazione. Il capitolo poi è collassato, era troppo e non funzionava, ma resto legata a quell’idea. La straniera intesa, pensata e costruita come romanzo almeno fino a metà (dopo diventa più diario e saggio personale), mi ha dato una libertà che il memoir non mi avrebbe dato, sarebbe stata un’esperienza punitiva, proprio perché io stessa verso il memoir ho avuto fino a qualche anno fa idee ristrette, stanche, appiattite. Dove c’era molto Io, e poco Altro.
Io, lei, noi
PP: La straniera è scritto in prima persona. Che ruolo ha la scelta tra prima e terza persona nel tuo lavoro sui punti di vista?
CD: Prima di La straniera, ho pubblicato un romanzo scritto con un’alternanza di prima e terza persona, Cleopatra va in prigione, che era uno studio su una ragazza della periferia romana. Mentre concepivo la struttura del libro, ero convinta che le parti in cui Caterina parlava di sé, della sua città e del suo desiderio di fare la ballerina, sarebbero state le più intime, liriche, vagamente sgrammaticate, soggettive e libere, mentre lo sguardo su di lei in terza persona sarebbe stato formalmente disciplinato, con una lingua precisa, un punto di vista educato e universale, capace di «dire» qualcosa su Roma, facendo sì che il lettore ci credesse. E poi ho sfasciato tutto, perché quel modo di intendere la prima e terza persona era davvero tradizionale, per non dire ideologico: come se lo sguardo esterno fosse più preciso e attendibile di quello interno, come se spettasse alla voce esterna stabilire i contorni e confini di una ragazza di periferia, lasciandola alla sua mistica e prevedibile anarchia in prima persona. È il motivo per cui, quando Caterina parla in prima persona, ho scelto di farla esprimere con una lingua neutra, un italiano piatto, non colorato, non marginale e non viscerale, e di rinunciare al dialetto.
E se fossi stata più audace mi sarei concessa invece queste slabbrature in terza persona, che resta comunque più viva e palpitante rispetto alla prima in questo testo. Questa lezione è stata fondamentale per strutturare lo sguardo interno/esterno de La straniera. Di Caterina ho letto spesso che era «trattenuta», e a volte ho letto lo stesso della protagonista della Straniera, che coincide con me. Sono due io diversi, ma ugualmente composti. Questo riguarda appunto le aspettative di intimità e vicinanza che abbiamo con la prima persona, l’idea che niente ci sia più intimo e rivelato della nostra identità, vera o finzionale che sia, mi pare davvero un azzardo. O quantomeno io questo orecchio assoluto per il sé non ce l’ho. Mi viene più semplice indagarlo provando a uscirne.
Questo tema, dell’uscire o di entrare senza dimenticare che si proviene da fuori, risale alla mia primissima lezione di antropologia alla Sapienza, nell’autunno 2003. Il professor Alberto Sobrero (il caso vuole che il mio primo corso seguito fosse Antropologia e letteratura, e da lì non sono tornata indietro), commentando il lavoro di un autore disse che il segreto stava nell’andare in visita presso una comunità cinese, farsi spiritualmente cinesi, ma non dimenticare mai di non esserlo. E così quando mia madre durante un commiato all’aeroporto di Stansted in cui scoppiai a piangere perché dopo una settimana di convivenza, ad anni di distanza dal momento in cui avevo lasciato la sua casa, ero stanchissima di dialogare con lei, mi disse che per forza ero esausta, a parlare piano, a farmi leggere il labiale e gesticolare, perché in fondo stavo «parlando cinese da una settimana, senza sapere il cinese». Mia madre in quel momento si è trasformata nella Cina di quella vecchia lezione di antropologia, trovando una giustificazione alla mia fatica d’amore, filiale, che però era una fatica culturale anche. Anche questo è stato un dono che ho ricevuto, qualcosa che ho imparato: in tutta la Straniera, c’è una tensione costante nel rendere l’amore cultura, e la cultura amore. Non so se ha a che fare con la prima e terza persona, ma credo di sì.
PP: Nel libro racconti anche di un viaggio in India, grazie al quale sei riuscita a capire l’Inghilterra paragonando le caste alle classi, e a un certo punto usi la prima persona plurale. Tutto il romanzo è attraversato da questo tema, apparentemente paradossale, per cui viaggio e emigrazione sono condizioni per comprendere meglio ciò che ci è vicino. L’esercizio del romanzo, anche per me, non è interessante come amplificazione di una voce intima e familiare, ma sta nel riconsiderare ciò che è familiare e sembrava noto come straniero, anche noi stessi. A proposito del romanzo di emigrazione tu usi una formula in cui mi sono ritrovato: “inadeguata appartenenza”. Quanto è importante tutto questo per un romanzo che racconti il mondo contemporaneo?
CD: La prima persona plurale è quella che mi fa più spavento in assoluto. Perché è politica e sacra (corale) insieme, con poche eccezioni (come Le vergini suicide di Eugenides). E devo dire che quando uso quel narratore collettivo lo faccio quasi sempre in racconti di adolescenza, o di realismo aumentato, in cui le protagoniste sono creature ibride, non proprio umane, mezze vampire o mezze androidi. Come a voler togliere peso a quel “noi”. Proprio perché del “noi” mi spaventa il concetto sottointeso di «importanza». Figuriamoci se questo noi poi appartiene davvero un mondo altro: sarei mai capace di usare una prima persona plurale parlando – appunto – di una comunità cinese? E infatti l’unico caso in cui ricorre nella Straniera è quello in cui volevo che l’io si fondesse in un noi generazionale a me ben presente nel tempo che stavo vivendo, volevo scattare l’istantanea di una comunità dislocata fuori. Fuori di casa, dalla città in cui si è cresciuti, dalla lingua che si è appresa per prima. La domanda, molto legata al contemporaneo per come lo concepisco io, forse era questa: esiste un noi che riesce a farsi carico di questo io, quando questo io si sente fuori, solitario, fragile? Esiste questo tipo di comunità, fosse anche transitoria? E io l’ho trovata?
Per quanto sia problematico costruire una comunità in base a una mancanza e assenza, invece che in base a desideri e qualcosa che si vuole nel presente o nel futuro, in Inghilterra ho fatto esperienza proprio di questo negli anni straniati e stranianti che hanno portato a Brexit. E questo mi ha aiutato anche a ragionare di migrazione. Sempre per voler restare nel gioco dei generi letterari, io da piccola ero fissata con i viaggi nel tempo. Forse per una specie di nostalgia congenita o di idiozia romantica, ero convinta che esistesse davvero una macchina che ci potesse portare nel passato e nel futuro, che la Nasa ci stesse lavorando e che gli scienziati la tenessero per sé, che sarebbe stata realizzata prima ancora di andare su Marte. Solo dopo aver scritto La straniera mi sono accorta che la migrazione in sé è una specie di navicella spaziale che porta avanti e indietro nel futuro, nella storia collettiva, in quella personale.
La migrazione genera figure aliene: crea dei doppi, degli ologrammi, dei sostituti che rimangono in un paese mentre te ne vai in un altro, e per alcuni resti sempre bambina, o adolescente, o criogenizzata per sempre in qualcosa, uno stato che non ti appartiene più, eppure vive dentro di te. E penso che questo processo sia vero di ogni migrazione, desiderata o subita, voluta e facilitata, costretta e punita. Eppure non è una navicella spaziale perfetta: non ci entri da essere umano integro, non ti fa approdare in una cultura da cui tornerai o dove ti trasformerai in qualcosa di altrettanto integro. A volte penso di aver usato La straniera per spaccare il congegno teorico della migrazione, dell’identità e dell’appartenenza, e poi rendermi conto che era piena di luci e di parti oscure, tutte incoerenti. Usare il “noi” è un espediente per rimetterla assieme, ma può durare solo per alcuni istanti. Ma del contemporaneo mi interessa molto come questi congegni vengono spaccati. Ed è una perversione credere che a sfasciarli siamo solo “noi”.