U n poeta sommerso di collaborazioni e commissioni, spesso di interesse quasi nullo, si avvale dell’ausilio di una macchina che, dato un tema e impostati i parametri metrici e stilistici da parte dell’utente, produce componimenti all’infinito, sempre più ingegnosi, sempre più indistinguibili dal frutto di una mente umana, e financo il testo stesso che il lettore ha tra le mani. Qualcuno penserà a ChatGPT, e invece è “Il Versificatore”, un racconto del 1960 scritto da Primo Levi. E anche per questo qualcuno, forse, si stupirà.
Prima opera di finzione di Levi uscita nel 1966, composta nel solco di Rabelais e funambolicamente sospesa tra il dovere morale e il piacere della pura invenzione, la raccolta delle Storie naturali che contiene questo testo si avvale ora, con la ripubblicazione, di un’esaustiva postfazione a cura di Martina Mengoni e Domenico Scarpa che offre spunti e chiavi di lettura di un Levi certo non più ‘nuovo’ ma ancora in qualche modo anomalo per chi lo conosce soprattutto per Se questo è un uomo e La tregua. Per l’autore, scrivono, è certamente “un nuovo debutto”.
Libero dal freno del dovere di testimoniare, qui, forse più che altrove, emergono l’eterodossa vastità delle sue letture, l’occhio acuto e critico e un’ammirevole capacità di inventare e, talvolta, anticipare, come ci si può aspettare dalla migliore fantascienza. Ma ci sono anche racconti di un virtuosismo fantastico encomiabile come la Quaestio de centauris, l’inquietante satira al futuro de La bella addormentata nel frigo, nonché – e non ci stupisce – perfette metafore del nazismo in chiave postumana ante litteram (Angelica Farfalla, “un altro dei miei brutti sogni sotto forma di racconto”, come scrisse l’autore a Mario Pannunzio).
Erano gli anni in cui la spinta dell’innovazione tecnologica incontrava l’appoggio della neonata società dei consumi, con la massificazione degli acquisti e la standardizzazione delle abitudini di vita, dei gusti. Non per nulla, molti di questi racconti, quasi tutti già usciti su giornali e riviste, erano stati pubblicati su Il Giorno, il quotidiano dell’ENI. L’Italia si riempiva di piazzisti ed elettrodomestici, di pubblicità ingenue e ottimiste, di fabbriche della plastica, di libretti d’istruzioni. Di macchine. Si diffondeva un ordine di esseri – ora aiutanti fedeli, ora provvidi liberatori, ora servi senza coscienza di classe, ora escrezioni della più oscura immaginazione umana – che, se certo non era nuovo, mai prima di allora era stato tanto sbandierato, accessibile, quotidiano, familiare. Non solo la fantascienza, ma anche la letteratura che vantava di fare i conti con la realtà era costretta a tenerne conto. Ma Levi cosa c’entra?
Libero dal freno del dovere di testimoniare, nei racconti emergono l’eterodossa vastità delle sue letture, l’ammirevole capacità di inventare e di anticipare, come ci si può aspettare dalla migliore fantascienza.
È indubbio che da questi racconti emerga la sua pura vocazione alla scrittura. Come disse a Carlo Fruttero, si era pensato uno scrittore anche prima del Lager. Addirittura, stando a quel che delle loro conversazioni riporta Fruttero stesso, per Levi “Se questo è un uomo era stato in certo modo un caso”: “avrebbe scritto anche se, anziché in Polonia, fosse finito in Svizzera”, o così gli avrebbe detto.
Certo questi racconti sembrano testimoniarlo. Il più antico, I mnemagoghi, fu scritto contemporaneamente a Se questo è un uomo ed uscì su L’Italia socialista nel 1948, forse scioccando i suoi lettori. In ogni caso, era in qualche modo profetico di ciò che sarebbe accaduto al suo autore quarant’anni dopo: come il suo personaggio si è costruito una memoria “artificiale e sostitutiva”, scrivono i curatori, così anche Levi “manifesterà questo preciso timore, che i suoi ricordi del Lager siano diventati ricordi artificiali, una ‘memoria-protesi’”.
Ma già questo fardello – la nomea o l’aura di scrittore-testimone – complicava le cose per un libro come Storie naturali. Che uscì infatti sotto il grandioso falso nome di Damiano Malabaila. Fu il direttore commerciale di Einaudi al tempo, Roberto Cerati, a spingere l’autore allo pseudonimo: da un lato, gli scrisse, in ogni caso “[n]on sarebbe mistero per alcuno, critico o lettore, che il signor X sarebbe lei”; dall’altro, questo accorgimento avrebbe aggiunto al suo profilo pubblico “un vezzo, un estro, una ritrosia, un gentile pudore” che, “lungi dal relegare una qualsiasi parte del suo ingegno ad una scala di valori”, costituiva però una buona trovata pubblicitaria. È come se – prosegue – “Gianfranco Contini desse alle stampe uno squisito libro di ricette”: lo comprerebbero sia gli amanti della cucina sia i filologi, per quanto sbalorditi. Tutta questione di sapere come venderlo. Ed “è ben più facile fare leva e presa sul lettore della Tregua con uno pseudonimo-fantascienza, che viceversa. Del resto, non sarebbe possibile vendere un Levi-fantascienza ammiccando ad un Levi-Tregua. Lei ben lo capisce”. Col nome di Primo Levi sarebbe uscito soltanto nella ristampa del 1979.
Il mascheramento, appunto quasi solo a fini commerciali, tradiva però anche qualcos’altro. All’inizio del risvolto di copertina della prima edizione – non firmato ma probabilmente scritto da Italo Calvino, il quale aveva incoraggiato Levi a pubblicare queste storie – dell’autore si diceva che era un chimico, come a non voler compromettere l’immagine dello scrittore-non-scrittore testimone del Lager con la pratica di chi fa racconti dal carattere fantastico. Quelli su cui, sempre nel risvolto, si glissa definendoli “divertimenti”, e nei cui confronti l’autore dice di provare “un vago senso di colpevolezza, come di chi commette consapevolmente una piccola trasgressione”. Ma perché una trasgressione, e una trasgressione di che cosa?
Il risvolto, riprendendo le parole di Levi a Maria Grazia Leopizzi, la quale aveva commentato alcuni suoi racconti sull’Avanti! un anno prima intendendoli come parabole, prosegue l’excusatio non petita e vanifica del tutto lo stratagemma del criptonimo:
io sono entrato (inopinatamente) nel mondo dello scrivere con due libri sui campi di concentramento; non sta a me giudicarne il valore, ma erano senza dubbio libri seri, dedicati a un pubblico serio. Proporre a questo pubblico un volume di racconti-scherzo, di trappole morali, magari divertenti ma distaccate, fredde: non è questa frode in commercio, come chi vendesse vino nelle bottiglie dell’olio?
Al di là dell’ipotesto rabelaisiano che giustamente i curatori ricordano per contestualizzare le parole di Levi e che darebbe a queste righe la fine patina dell’ironia, a prenderle per vere si capisce che c’è una letteratura seria per un “pubblico serio” – quella, supponiamo, che dice la verità, le cose come sono andate, nel suo caso, magari controllata dalla funzione etica del racconto, dall’obbligo testimoniale. Ne I sommersi e i salvati (1986), affrontando il tema della cosiddetta “zona grigia” – le gradazioni tra vittime e carnefici, innocenti e complici –, Levi ribadiva la pratica della memoria come valore supremo e, se necessario, anche comandamento estetico. Le stesse pagine contengono un anatema contro Il portiere di notte di Liliana Cavani, il controverso film di dodici anni prima in cui Dirk Bogarde era un ex SS impenitente che vive in incognito e ritrova la prigioniera e amante dei tempi del Lager (Charlotte Rampling), con la quale si riaccende la passione, per quanto perversa. Un film, scrive Levi, “bello e falso”, oltre che “un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità”. L’immaginazione muove in direzione opposta, precipita sovente nel “vezzo estetistico”, nella “malattia morale”, talvolta nella “complicità” tout court con i carnefici.
Benché distanti anni luce dall’intransigente scrittura-verità, anche questi racconti esplorano la medesima fonte oscura e irrazionale da cui era sorto anche l’incubo nazista.
Questi “racconti-scherzo” di stampo fantastico e fantascientifico, per chi ha praticato la “letteratura seria”, rischiano allora di avere un che di compromettente e fraudolento. Ma forse, come scrive Levi in fondo al risvolto, “fra il Lager e queste invenzioni una continuità, un ponte esiste”: il Lager non è stato forse “il più minaccioso dei mostri generati dal sonno della ragione”? Ecco come giustificare l’assenza di mimesi, scendendo al tempo stesso nel cuore del fantastico: benché distanti anni luce dall’intransigente scrittura-verità, anche questi testi esplorano, proprio grazie a questa distanza siderale, la medesima fonte oscura, torbida, romantica e – in una parola – irrazionale da cui era sorto anche l’incubo nazista.
Era un’idea diffusa largamente, al tempo, che nel fantastico ci fosse un certo che di irrazionale e dunque di perverso e reazionario, di nemico. Roberto Calasso, ne L’impronta dell’editore, ricorda come ancora negli anni Sessanta, quando la “Biblioteca Adelphi” veniva inaugurata con L’altra parte di Alfred Kubin, dominava
una cultura dove l’epiteto irrazionale implicava la più severa condanna. […] Non solo certi autori, ma certi generi erano condannati in linea di principio. A distanza di qualche decennio può far sorridere e suscitare incredulità, ma chi ha buona memoria ricorda che il fantastico in sé era considerato sospetto e torbido.
Priva di una propria tradizione fantastica “forte” (i casi dei fratelli Boito, Tarchetti e Luigi Gualdo erano state esperienze marginali), una letteratura di questo genere si era affermata in Italia con grande ritardo rispetto al mondo anglofono, tedesco, francese e russo. Ma anche nel Novecento, nonostante un quindicennio “tutto bontempelliano” (come lo definì Calvino) fra gli anni Trenta e la Seconda guerra mondiale, in cui anche in letteratura esperienze riconducibili all’onirismo, alla metafisica, al realismo magico o alla visionarietà erano all’ordine del giorno e persino Moravia scriveva raccontini surrealisti, quel “canone strano” verso cui ciclicamente si riaccende l’interesse è rimasto perlopiù sommerso, negletto, se non apertamente ostacolato.
Qualcosa lo dice già l’indice di Notturno italiano, un’importante antologia di racconti fantastici del nostro Novecento a cura di Enrico Ghidetti e Leonardo Lattarulo uscita nel 1984, quando, dopo lo sdoganamento degli studi universitari in questo ambito con l’Introduction à la littérature fantastique di Todorov (in italiano nel 1977) e l’antologia di racconti ottocenteschi curata da Calvino (1983), iniziava la (prima) riscoperta di quegli autori esclusi e dimenticati: Landolfi, Buzzati, Alberto Savinio… Se il primo Novecento è ben rappresentato, con nomi celebri a fianco di perfetti sconosciuti, al periodo successivo al 1945 risalgono soltanto 11 racconti su 36 antologizzati.
Nel nostro Novecento letterario quel “canone strano” verso cui ciclicamente si riaccende l’interesse è rimasto perlopiù sommerso, negletto, se non apertamente ostacolato.
C’è chi ha parlato di un’obsolescenza connaturata nel fantastico che, dopo l’Ottocento, l’avrebbe costretto, per sopravvivere, al manierismo, a una “finzionalità” pienamente esposta, se non addirittura alla smontatura per così dire in presa diretta delle meccaniche di questo modo o genere letterario al fine di dimostrare l’impossibilità del fantastico nell’epoca in cui si era pienamente compiuto l’esorcismo del sovrannaturale. Per Todorov, la psicoanalisi avrebbe tradotto i fantasmi e i mostri dei racconti, di cui pure si era nutrita, in quelli della psiche, inscatolandoli per sempre. Qualcuno incolpava l’inaridimento dello spirito. Per altri, l’individuo novecentesco è già soggetto a troppe crisi su troppi versanti per tremare ancora di fronte alle crepe nel paradigma positivista, come forse i suoi nonni. E per Ernst Bloch era stata colpa delle luci elettriche, che avevano respinto, “più a fondo ad esempio di Voltaire, gli assalti dell’orrore notturno”, banalmente rendendo meno sinistre strade e case: “Rispetto allo stato d’animo “spettri”, un singolo mutamento della tecnica d’illuminazione ha fatto luce ben più a fondo di mille scritti illuministici… letti a luma di candela, a mezzanotte, in una casa deserta, tra ombre vaganti e nascondigli scricchiolanti”.
Ma invocare l’obsolescenza del genere non basta, soprattutto se significa mettere in secondo piano condizioni extraletterarie di altra natura che ne impedivano lo sviluppo e la circolazione, ossia quella precisa politica culturale che ha spesso e volentieri promosso una concezione ideologica di realismo facendone un diktat e intrecciandola all’idea di impegno, con la volontà di raccontare la realtà – qualunque cosa essa sia – che si tramuta rapidamente in moda sterile. Sulle pagine del romanzo d’impegno e (neo)realista facevano l’ingresso la cronaca e il costume: come se fossero mai stati esclusi dal romanzo, e soprattutto come se fare letteratura si riducesse alla documentazione, allo schedario. Un personaggio de L’Iguana (1965) di Anna Maria Ortese vissuto fuori dal mondo domanda all’aggiornato esploratore che cosa sia il realismo di cui ha sentito dire:
“Dovrebbe essere” rispose il conte un po’ impacciato “un’arte di illuminare il reale. Purtroppo, non si tiene conto che il reale è a più strati, e l’intero Creato, quando si è giunti ad analizzare fin l’ultimo strato, non risulta affatto reale, ma pura e profonda immaginazione”.
Ancora alla fine degli anni Quaranta, sulle pagine del Politecnico, introducendo un pezzo di Oreste Del Buono sul romanzo nero da Horace Walpole fino a Sade, responsabile di aver fatto entrare nell’immaginario generale uno stuolo di vampiri, adoratori demoniaci, castelli infestati, nobili splenetici e ossessivi e oscure segrete con gli strumenti di tortura, Elio Vittorini denunciava i pericoli della “letteratura che esprime i ‘sottosuoli’”. Certo non ci si può mettere contro Dostoevskij e Kafka, scrive, ma “nemmeno si può accettarla tutta. Bisogna distinguere in essa; e distinguere la necessaria dalla gratuita; quella che è reale scoperta da quella che è costruzione arbitraria; la poesia, e dunque verità, dall’artificio, e dunque assurdo”. Come si decida, tuttavia, cosa stia da una parte e cosa stia dall’altra è ovviamente tutto da vedere. E Del Buono aggiungeva, nelle pagine seguenti, che l’opera di Sade è “mostruosa e inutile” e soprattutto falsa. Sarà vero che è mostruosa, ma non dirà qualcosa proprio in quanto tale? E inutile – quale letteratura non lo è? E non è qualcosa di straordinario proprio perché, in qualche misura, inutile? E infine chi, di fronte allo scaffale dei libri “utili” (utili a chi, poi?), non opterebbe per quelli proibiti?
Il 1956 fu un anno nero come pochi altri per Vittorini e compagni. Nel mese di maggio, Giuseppe Tomasi di Lampedusa inviava da Villa Piccolo la stesura ancora incompleta de Il gattopardo, su cui il suo conterraneo avrebbe commesso una delle sviste editoriali più clamorose del XX secolo italiano (“Non è un gran che”, scrisse Bobi Bazlen a Sergio Solmi nel 1959, ma “la pagina più brutta vale tutti i ‘gettoni’”, con riferimento al nome della collana diretta da Vittorini). Il 4 novembre, i carrarmati sovietici entravano a Budapest. E – strano ma vero – Minuetto all’inferno di Elémire Zolle vinceva un riconoscimento per l’opera prima al Premio Strega di quell’anno.
Quand’era arrivato in Einaudi il dattiloscritto di Zolla, Vittorini l’aveva giudicato insufficiente, non tanto per le ingenuità dell’esordiente, ma per la “poetica decadente, arcaica e presuntuosa”, come ha ricostruito Grazia Marchianò. Fruttero, benché non del tutto convinto (i romanzi sataneggianti lo precipitavano, scrive, “in uno stato di allergia”), non lo ritiene “indegno” dei “Gettoni”; pubblicarlo, scrive a Vittorini, “non costerebbe, riconoscilo, neanche a te, un terribile sacrificio ideologico. Ti prego con tutte le forze di ripensarci”. Risponde Vittorini: “non dico che non lo voglia pubblicare. Ho detto e ripeto che vorrei scrivere all’autore per dirgli della brutta impressione che mi ha fatto leggere il suo manoscritto e per cercare di convincerlo a ritirarlo, a non commettere l’errore di rendersene responsabile in pubblico”. Impensabilmente, viste le premesse, il romanzo andò in stampa. Vittorini si lamentò con Calvino: “Nel risvolto per lo Zolla non farò che dir male di me. Niente di lui”. Infatti, nel risvolto suddetto, si legge a chiare lettere: “Non so, francamente che cosa valga questo romanzo”, che gli ricordava “il Pavese più torbido”.
Quand’era arrivato in Einaudi il dattiloscritto di Zolla, Vittorini l’aveva giudicato insufficiente, non tanto per le ingenuità dell’esordiente, ma per la “poetica decadente, arcaica e presuntuosa”.
L’origine di antipatie editoriali e pregiudizi critici come questi è da rintracciarsi nella teoria letteraria marxista e nella pratica del realismo socialista. Quello promulgato, per esempio, dal più influente dei critici marxisti, György Lukács, il quale, dopo la fine della guerra, aveva proclamato la superiorità del “vero grande realismo”, l’unico che ritrae “l’uomo completo e la società completa, invece di limitarsi ad alcuni dei suoi aspetti”, e al tempo stesso la lotta senza quartiere alla “trasformazione dell’uomo in una caotica corrente di fantasticherie” (così nei Saggi sul realismo). Si cristallizza l’equazione fra antirealismo cosiddetto, che non riconosce il sociale come matrice prima e ultima dell’artista e, anzi, promuove il suo distacco dalla comunità, e il concetto di evasione. Etica ed estetica non sarebbero più in conflitto, perché, con il marxismo, coincidevano, se e solo se “La vera pienezza estetica dell’opera d’arte si fonda sulla completa rappresentazione dei fattori storici essenziali”, su “una intensa esperienza del processo sociale”. Fino ad arrivare, ne Il marxismo e la critica letteraria, a stabilire clamorosamente e senza dubbio alcuno che “La meta di pressoché tutti i grandi scrittori fu la riproduzione artistica della realtà; la fedeltà alla realtà, l’appassionato sforzo di restituirla nella sua totalità e integrità, furono per ogni grande scrittore […] il vero criterio della grandezza letteraria”. Il resto – anche e soprattutto immaginare fantasmi privati – è decadentismo borghese.
Ma se fossero soltanto menzogne belle e buone, fantasticherie, castelli di carta forse sciocchi ma tutto sommato innocui, basterebbe non farvi troppo caso. Invece, secondo Lukács e seguaci, la letteratura non mimetica, non realistica distorcerebbe i fatti elementari, vincolandoli a residui di superstizioni reazionarie e impedendo di ricondurli alla società (come se questa non fosse, a sua volta, la più grande delle superstizioni). Di fronte a pericolose deviazioni come queste, continua il critico, “il vero amico della letteratura”, probabilmente nominato da comitati, tessere e apparati di partito,
non può far a meno di ripetere abbastanza spesso e recisamente la verità […] che tutto è politica. Tutto è politica naturalmente soltanto per il vero scrittore realista serio e profondo, che sa penetrare sino alle più recondite radici della vita, quelle radici che decidono quale tipo umano sia vitale e quale sia destinato a morire, quale abbia un valore, quale invece non ne abbia nessuno, ecc. Proprio in questi tempi è ora di comprendere che soltanto nel realismo veramente profondo si possono unire in modo organico e inscindibile la più alta letteratura e la più efficace azione politica.
Il vero amico della letteratura. Il vero scrittore realista. Il realismo veramente profondo. Il resto non solo non ha valore, ma è destinato a morire, e già si intravedono tra le righe le censure, le accuse di parassitismo sociale, le delazioni, la polizia segreta, i processi, gli “Io il romanzo di Pasternak non l’ho letto ma lo disapprovo” e i “Quale autorità ha riconosciuto che siete poeta?”. E poi gli esili, i gulag.
Salvo scoprire, con un po’ di imbarazzo, che Marx, uomo del suo tempo, era un lettore dei racconti notturni di E.T.A. Hoffmann, scrittore del fantastico quintessenziale. Per salvare capra e cavoli, come si dice, Lukács compie un contorsionismo logico per il quale anche Hoffmann, con le sue case infestate e gli elisir del diavolo, starebbe propriamente tra le “vette della letteratura realistica”, perché, come ripeterà Vittorini, “c’è fantasia e fantasia, fantastico e fantastico”.
Il fantastico in sé viene quindi svalutato, ridotto ad accessorio preteribile: è buono solo in funzione di un principio rappresentativo alla luce del quale va giudicato, dunque è sospetto fino a prova contraria. Se il visionario esprime le contraddizioni storiche, economiche e sociali, allora è realistico senza sapere d’esserlo (un po’ come la critica marxista aveva detto che Balzac e Tolstoj, legittimista e reazionario il primo, figlio di una principessa e utopista cristiano il secondo, lavoravano loro malgrado per la rivoluzione). Altrimenti, se esprime il mondo della soggettività scindendolo dalla realtà sociale e magari facendone qualcosa di astorico ed eterno, è irrazionalismo per definizione, o apologetica indiretta per il capitale. Nel dubbio, meglio attenersi al realismo indubitabile, che si fa politica (“la lotta per un’arte vera deve coincidere con la lotta per il realismo”, scrive Lukács). Rilegga La vita è altrove di Kundera chi ha ancora qualche dubbio.
Se il visionario esprime le contraddizioni storiche, economiche e sociali, allora – questa l’assurda conclusione – è realistico senza sapere d’esserlo.
Per avere un’idea delle ingerenze della politica culturale in questa direzione nell’Italia del dopoguerra, basta sfogliare le lettere tra Pavese ed Ernesto De Martino, che fra il 1945 e il 1950 diressero la celebre “Collana Viola” di Einaudi, i cui temi – il folklore, lo studio delle religioni, i simboli dell’inconscio, l’etnologia – erano già sospetti di per sé ancor prima di andare a verificare le opinioni o le visioni del mondo degli autori da mettere in catalogo, spesso giudicati scomodi, controversi o apertamente compromessi, come Mircea Eliade. Pietro Angelini, che ha curato il loro epistolario, ricorda che all’epoca la sinistra, sentendosi chiamata alla “difesa dei valori della tradizione umanistica nazionale”, si opponeva “a tutto ciò che sapeva di esotico, di recondito, di crepuscolare”. Tra cui anche, com’è evidente, la letteratura fantastica ampiamente definita. Qualcosa, se non di sospetto o di scopertamente pernicioso, di cui c’era quantomeno di che scusarsi, se trasgredendo i confini mai davvero stabiliti del realismo si cadeva in tentazione.
Per aggirare il pericolo di precipitare dall’‘altra parte’, sempre insito nei discorsi sul magico, sul sacro e sul fantastico, De Martino suggeriva una forma di “vaccinazione”, “ovvero l’immunizzazione dal morbo dell’irrazionalismo ottenibile attraverso l’inoculazione di piccole dosi di irrazionalismo controllato”, scrive sempre Angelini, in un tentativo di “storicizzare l’irrazionale” che passava anche tramite la pratica della “prefazione-antidoto” (l’espressione era di Leone Ginzburg), di cui il risvolto di Calvino alle Storie naturali è erede.
Rifiutata e condannata dalla sinistra, essa entrava sugli scaffali degli avversari politici, e non dovrebbe stupire che opere ascrivibili al genere, o al modo, venissero pubblicate da editori legati alla destra e celebrate dal movimentismo giovanile missino: si veda l’affaire Tolkien recentemente tornato alla ribalta. Non furono molte le eccezioni prima di una graduale riscoperta degli studi sul mito e sulla morfologia della fiaba a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta (ma in sordina) e fino alla fine del decennio successivo, quando diventava nuovamente possibile guardare alla letteratura dell’immaginario, creatrice di nuovi miti o riscopritrice di quelli intramontati, al di fuori delle appropriazioni o degli ukase della politica. Più o meno.
Negli ultimi anni, forse perché il mondo sembra tornato strano e inquietante, la natura è sinistra e minacciosa e ci sono più fantasmi senz’anima né corpo che individui, le metafore fantastiche, talvolta veicolate dall’etichetta weird (nozione vaga come poche altre), hanno avuto discreta diffusione. Leggere, o rileggere, le Storie naturali quasi sessant’anni dopo, considerati la sua genesi e il contesto, permette non solo di riscoprire un volto forse per qualcuno nuovo e di certo ammirevole dello scrittore Levi, ma consente anche di valutare con la giusta distanza il peso tremendo di mode, pregiudizi e ideologie politiche e l’inanità – in definitiva – dei criteri di “serietà” e “utilità” in letteratura.