I poveri di Vollmann, edito da minimum fax nella traduzione di Cristiana Mennella, è un saggio sul concetto di povertà indagato attraverso una serie di interviste in diverse parti del mondo (Usa, Messico, Giappone, Thailandia, Yemen, Kenya, Russia… ) tra il 1992 e il 2005. Nell’introduzione al libro, Vollmann fa subito una dichiarazione di intenti:
Questo saggio sui poveri è stato scritto con uno spirito diverso: non per spiegare la povertà in base a un sistema né per erigere un monumento da affiancare al
Capitale nel cimitero dei pensieri svuotati.
Lo spirito diverso di cui parla fa riferimento al suo lungo saggio sulla violenza, Come un’onda che sale e che scende. Pensieri su violenza, libertà e misure di emergenza, dove Vollmann cercava di “valutare le molteplici ma non certo infinite categorie di giustificazioni della violenza”. I poveri, sebbene tenti una classificazione della povertà attraverso otto “fenomeni” (Invisibilità, Deformità, Indesiderabilità, Dipendenza, Vulnerabilità, Dolore, Torpore, Separazione), non ha la pretesa di creare un apparato teorico coerente ed esaustivo.
Ammettere un deficit di completezza è lo stratagemma usato da Vollmann per portare avanti la sua indagine e spostare la seduzione di un’inchiesta sulla povertà verso una riflessione di tipo etico rispetto alla possibilità stessa di rappresentare i poveri.
La questione è: come rendere conto dell’esperienza di una subalternità? L’idea che questa subalternità esista non viene mai messa in discussione, anzi Vollmann dichiara sin dalle prime righe la sua posizione di privilegio: “Non posso sostenere di essere stato povero. Il mio sentimento a riguardo non è affatto di colpa, ma di semplice gratitudine”.
Non è un caso che parli di un mancato senso di colpa, perché per Vollmann è esattamente quello che rende fallimentare il tentativo di raccontare i poveri di Sia lode ora a uomini di fama dello scrittore James Agee e del fotografo Walker Evans, un reportage commissionato nel 1936 dalla rivista Fortune per preparare un articolo sulla “vita quotidiana e l’ambiente di una famiglia media bianca di contadini fittavoli”.
“
Sia lode ora a uomini di fama” è un’espressione elitaria di un anelito egualitario. La tensione tragica tra il fine e i suoi mezzi contribuisce notevolmente alla grandezza di questo libro. (…) È un progetto che continua a darsi la zappa sui piedi. È un successo perché fallisce. Fallisce perché si fonda su due ricchi che osservano la vita dei poveri (…) L’estraneo è talmente eccelso e irraggiungibile nella sua povertà che i nostri osservatori non possono percepirlo con la facilità con cui vedono se stessi. Se avessero ritratto il soggetto dell’opera con quella facilità, sarebbero stati paternalistici.
Ma qui arriva la distinzione più interessante: “Di conseguenza Agee diventa sincero al punto di disprezzare se stesso, mentre Evans si rifugia nel silenzio rivelatore della fotografia”. E ancora: “Quanto al fotografo, non ha bisogno di prendere posizione. Agee invece prende posizione. (…) Si disprezza e disprezza noi, chiedendo scusa alle famiglie con una sublime astrusità della mortificazione che solo i ricchi avranno il tempo di capire”.
Dunque secondo Vollmann, Agee è attanagliato dal senso di colpa, per cui l’abuso di sincerità si trasforma in un’arma a doppio taglio di speculazioni filosofiche o troppo ambigue o troppo sofisticate per interessare un povero, mentre Evans si ripara dentro la strana imperturbabilità del mezzo fotografico.
È un singolare paradosso: un autore come Vollmann capace di liquidare con una battuta la propria radicale estraneità rispetto al soggetto (“Ho fatto i soldi sulle spalle dei poveri”) non è in grado di riconoscere la propria estraneità rispetto al linguaggio fotografico. Se accorda il privilegio deformante del senso di colpa ad Agee in quanto autore, non riesce a fare altrettanto con Evans perché in quanto fotografo è puro “mezzo” e non ha bisogno di prendere posizione, né quindi di interpretare la realtà.
I poveri ha un voluminoso apparato fotografico di immagini scattate dallo stesso Vollmann. Le immagini vengono usate a scopo didascalico per illustrare le situazioni e i personaggi che intervista nel libro. Si potrebbe parlare di un’opera ipertestuale, perché all’interno si aprono parentesi quadre che fanno riferimento alle foto.
“Una foto valle mille parole” scrive Vollmann, “senza dubbio, ma mille parole quali? Useremmo tutti la stessa didascalia?”. La domanda è ingegnosamente retorica, visto che la didascalia è esplicitata proprio grazie al dispositivo ipertestuale. Se le immagini di Evans sono composizioni formali che tentano di restituire un’insita bellezza, una dignità – sia nei ritratti di gruppo accuratamente organizzati, che nelle foto degli interni simili a set scenografici – di contesti fortemente disagiati, le immagini di Vollmann agiscono al contrario: gli elementi sono volutamente lasciati in disordine, sono invadenti, non c’è alcuna ambizione di ricreare un senso di armonia.
E questo non significa prendere posizione?
Facciamo un passo indietro. Sia lode ora a uomini di fama nasce sulla scia dell’imponente campagna fotografica promossa dalla Farm Security Administration tra il 1935 e il 1944 con lo scopo di rappresentare le condizioni di estrema indigenza in cui vivevano gli agricoltori e di promuovere così un programma governativo (ideato da Roosevelt) di riorganizzazione sociale. Nel 1935, il direttore della Sezione Storica della FSA, Roy Stryker, invia una quarantina di fotografi a documentare il lavoro della FSA.
Le immagini di quella campagna fotografica hanno creato le basi della fotografia documentaria contemporanea, nonché la rappresentazione della Grande Depressione nell’immaginario collettivo. Tra i fotografi c’era anche Walker Evans. Nel ’36, Fortune – di cui in seguito Evans diventerà photo editor contribuendo a imporle una veste più sociale – commissiona quello che diventerà Sia lode ora a uomini di fama. Ando Gilardi, nella sua Storia sociale della fotografia, parla della campagna fotografica della FSA, come “una delle leggende fotografiche più mistificanti” mai esistite. Prendendo in esame proprio una delle immagini di Evans, scrive:
Ovviamente i ‘cittadini’ restarono qualche volta rattristati dall’illustrazione della crisi agricola, non lo sarebbero rimasti di meno i ‘campagnoli’ da quella dell’ancor più grave crisi industriale. Ma lo scopo della propaganda era a senso unico: espropriare e spopolare le campagne dai piccoli e medi proprietari per la creazione di gigantesche aziende agricolo-industriali, ‘riclassare’ gli espropriati introducendoli nelle immense e miserabili riserve dei semi-occupati e disoccupati urbani in nome della solidarietà di classe.
Per Gilardi il “filantropismo fotografico” della FSA non è molto dissimile dagli apparati di propaganda dei sistemi totalitari, e la mitica figura di Roy Stryker è accreditata così: “era la persona adatta per svolgere la mansione e in quanto al mezzo fotografico possedeva quel ‘cinismo’ sufficiente che permette di usarlo nel modo più valido allo scopo e che distingue appunto l’‘art director’ di razza”.
Nella visione di Gilardi, Stryker è quasi il mandante morale del giornalismo alla Fortune, quella che lui bolla semplicemente come “una rivista per uomini d’affari”.
La teoria di Gilardi può sembrare al limite del complottismo, ma il dato rilevante è un altro. Possiamo considerare la campagna fotografica della FSA un’opera di propaganda, e Sia lode ora a uomini di fama un lavoro “cinico” commissionato da una rivista per uomini d’affari, eppure entrambi i progetti hanno fatto la storia della fotografia documentaria. La verità è che sono tutte e due le cose, un aspetto non esclude l’altro, anzi è proprio l’ambiguità che li tiene insieme ad averli resi così iconici e penetranti. Il punto è che un’opera d’arte può tradire e superare le intenzioni della committenza. Ma non è vero anche il contrario? Le intenzioni di un artista non possono essere tradite e superate dalla realizzazione dell’opera?
È quello che accade in parte con I poveri. Se Sia lode ora a uomini di fama si dà la zappa sui piedi, come dice Vollmann, lui stesso se la dà in un’altra maniera. L’insistenza programmatica nel cercare di smarcarsi dal detestabile senso di colpa finisce per tendere dei tranelli, perché nelle fotografie di Vollmann è proprio una specie di rimorso a insinuarsi nell’apparante sciatteria sovraccarica delle immagini. La rivendicazione dell’estraneità dai soggetti che riprende, la consapevolezza di un’asimmetria rispetto alla subalternità, lo porta a insistere troppo sugli elementi che creano questa distanza finendo per generare un’ipertrofia della povertà. Non si tratta di stabilire se sia più (in)autentica questa visione o quella dell’organizzazione estetica di Evans, quanto constare come il senso di colpa arrivi a trovare comunque un modo per insinuarsi, per agire sulla mano di chi scrive e fotografa.
Avendo una libertà maggiore rispetto alla committenza, Vollmann si pone un problema di autolegittimazione rispetto invece al destinatario. Interroga il lettore in maniera diretta: “Lettore, chi sei? (…) Mi hanno detto che i miei libri sono difficili. Quand’è così, i miei lettori saranno persone a cui non dispiacciono i libri difficili”. La difficoltà vollmanniana, in questo caso, rientra nella distanza rispetto ai soggetti di cui scrive.
Quando pubblicheranno questo libro ne regalerò, come faccio sempre, parecchie copie a chiunque si trovi a vivere nel mio parcheggio. Qualunque sia il prezzo di vendita, per un povero sarà sempre troppo alto per valere la spesa. Qualunque sia la conoscenza della povertà racchiusa in questo libro, la loro sarà senz’altro più autentica, più profonda, sebbene meno estesa. Quanto allo stile, sebbene mi sia sforzato di scrivere in maniera semplice, perché le persone che non si sono potute permettere la mia università non dovrebbero farsi scoraggiare dalle frasi lunghe? Allora lasciami supporre che anche tu sei ricco, come me.
Nelle sue interviste con i poveri, Vollmann chiede spesso se sappiano leggere e scrivere. La maggior parte di loro è analfabeta. In un certo senso anche lui è analfabeta rispetto a loro, potendo comunicare in molti casi solo attraverso la mediazione di un interprete. Eppure per Vollmann l’impossibilità di raccontare la propria storia da parte dei poveri, e l’impossibilità di leggerla, è una delle discriminanti fondamentali che impedisce di uscire dalla povertà.
I poveri incontrati e intervistati non solo non potranno probabilmente leggere un libro sulla povertà, ma non saranno nemmeno in grado di scriverlo e quindi di elaborare una riflessione sulla propria condizione. “Jack London e George Orwell” ci ricorda Vollmann, “hanno conosciuto la miseria, ma sono riusciti a darci Il popolo degli abissi e Senza un soldo a Parigi e a Londra proprio perché sono sfuggiti a quella condizione”. C’è da aggiungere che nel farlo si sono “travestiti” da poveri per documentare l’abbrutimento, con risultati efficaci ma forse eticamente problematici.
L’appropriazione è ancora debita se sappiamo che usciremo dall’esperienza? Vollmann non ha mai adottato il mimetismo come strumento di comprensione, tanto che sul piano formale concretizza questa scelta affidandosi all’intervista come modalità di rapporto e mettendo ben in chiaro che si tratta di un rapporto contrattuale: offre del denaro agli intervistati per ripagarli del loro tempo.
Che cosa può fare allora questo libro per i poveri?
La domanda non è mia, ma dell’autore. L’intero saggio si potrebbe considerare come il tentativo di dare una risposta. Voglio azzardarne una anch’io. “Una volta ho salvato una bambina dalla prostituzione forzata” scrive Vollmann. “Le ho pagato la scuola per un anno. Ha deciso di imparare a cucire anziché a leggere. Avrei dovuto insistere perché studiasse? L’ultima volta che ho avuto sue notizie era sposata, analfabeta, si manteneva da sola e non era infelice”.
C’è una brevissima parte de I poveri, quasi un inserto di pura fiction che compare all’inizio di un capitolo (“Gabinetti sporchi”), che sembra mettere in crisi la predilezione di Vollmann per le frasi lunghe o la sua autocertificazione di scrittura complessa. È un piccolo racconto corale dove si perde la distinzione netta tra intervistatore e intervistato – ovviamente non in direzione di un mimetismo che sembrerebbe abusivo, quanto di un’esperienza meno filtrata. Siamo in un albergaccio di New York, ci sono delle prostitute, dei ragazzini, e dei cessi sporchi. L’io di Vollmann si smarrisce – il distanziamento rimane, ma lui è per la prima volta un personaggio e non il giornalista che sta tendando di rispondere a cos’è la povertà. C’è il suo corpo presente, impacciato e spavaldo al tempo stesso. Anche la voce – e quindi la scrittura – si modifica, diventa diciamo più Selby Jr. che Vollmann. La sfera emotiva, sensoriale, affiora a tradimento sfondando l’interpretazione intellettuale. In altri momenti abbiamo visto la sua soggettività fare un passo indietro per non soffocare il soggetto dell’indagine, ma in questo caso accade qualcosa di diverso, di più estremo e non controllato.
Forse la bambina salvata dalla prostituzione non potrà mai leggere I poveri, eppure se qualcuno le leggesse quella breve parte di libro, potrebbe trovarci qualcosa di sé che la riguarda profondamente, perché esiste una salvezza prima della salvezza. Mi chiedo allora se sia proprio questo che può fare I poveri per i poveri, tradire se stesso per non tradire loro.