Q ualche anno fa persi la testa per un uomo molto più grande di me, il classico tipo sposato, con la camicia nei pantaloni e la fede al dito, che sembrava trarre più piacere nel contraddirmi che nel venire a letto con me. Mi telefonava un paio di volte alla settimana, generalmente quando la moglie era fuori città per lavoro, e parlava con me per una mezz’ora. Di quella mezz’ora, una ventina di minuti era dedicata a propormi pratiche sessuali che non presupponevano l’instaurarsi di una qualsiasi intimità casuale fra noi: orge a casa di suoi amici, BDSM in gruppo, scambi di coppie in parcheggi di periferia, sveltine in ascensore con una terza persona (scelta da lui e donna, naturalmente). Non voleva nemmeno sentire nominare attività come il dormire insieme, andare al cinema, fare una passeggiata o prendere un caffè: le riteneva “troppo borghesi” e indegne di una persona “brillante e alternativa” come me. I restanti dieci minuti parlavamo del tempo.
In una società fondata sui ruoli – di genere, di classe, professionali – trovavo pericoloso non avere un posto fisso, una categoria rigida in cui riconoscermi e recitare la mia parte.
Forse non ero abbastanza brillante e tantomeno alternativa, ma continuavo a chiedermi da cosa derivasse la sua riluttanza a passare del tempo con me, anche solo per fare quello che negli ambienti non femministi avrebbero definito “sesso classico”. Cosa c’era di così sbagliato nello stare distesi insieme, su un letto, a tenerci per mano post coito? Perché non voleva fare l’amore con me senza trasformare tutto in una performance a metà fra l’arte contemporanea e il ballo di gruppo? Mentre mi struggevo, indignata e offesa, e mi domandavo perché un uomo sposato e traditore seriale avesse tutti questi problemi di intimità con me, le mie amiche si dividevano in due fazioni. Alcune, felicemente fidanzate, si proclamavano indignate dal mio scarso rispetto per la moglie del mio amante – “Pensa se qualcuno lo facesse a te!” – e mi suggerivano di raccontarle tutto e tirarmi indietro, in una specie di parodia della solidarietà femminile. Le altre, plasmate dai ritmi e dalle dinamiche della vita da single, mi consolavano dicendo che “se non altro voleva sperimentare” e che “non mi sarei mai annoiata”.
Quando gli facevo notare che io avrei preferito gradualità e lentezza mi rispondeva che probabilmente la mia avversione verso il patriarcato e il capitalismo era tutta fuffa e che la mia era solo gelosia immotivata.
Il problema era proprio quello: io desideravo esattamente annoiarmi, e farlo in compagnia di quello specifico uomo sposato. Non mi interessava che lasciasse la moglie – la monogamia non era evidentemente la sua condizione naturale e in quel momento nemmeno la mia – ma volevo con tutte le mie forze una normalizzazione sessuale del nostro rapporto. Fare del sesso genitale a due, al chiuso, in una stanza con le tende tirate per me avrebbe significato istituzionalizzare i nostri incontri. In una società fondata sui ruoli – di genere, di classe, professionali – trovavo pericoloso non avere un posto fisso, una categoria rigida in cui riconoscermi e recitare la mia parte. Eppure, non riuscivo a comunicargli i miei desideri: erano così banali e ordinari da essere terrificanti. Avevo paura che se gli avessi detto quello che sentivo si sarebbe spaventato e se ne sarebbe andato, lasciandomi sola e senza un ruolo. Così mi aggrappavo alle pratiche che mi sembravano abbastanza estreme da controbilanciare il mio bisogno di affetto, unendo utile e dilettevole, il mio desiderio di un abbraccio e il suo di proporre gang-bang in mezzo a un pranzo di gala. Vendeva come una sua particolare versione del poliamore questo desiderio di coinvolgermi in una serie di fantasie che mi sembravano troppo affollate per due che si dovevano ancora conoscere. Quando gli facevo notare che io avrei preferito gradualità e lentezza mi rispondeva che probabilmente la mia avversione verso il patriarcato e il capitalismo era tutta fuffa e che la mia era solo gelosia immotivata.
Ci avrei messo anni a farmi un’idea di cosa era successo con quest’uomo. Ne parla Natasha Lennard in Fare la rivoluzione ai tempi di Pornhub. Sesso potere e piattaforme, uscito nella collana-rivista dei Quanti Einaudi: “la voglia che hai di scoparti un sacco di persone non ha nulla a che fare con la voglia che hai di fottere il capitalismo”.
Nonostante l’accento posto sulla soggettività e gli effetti particolari di tutte le esperienze, nella scena che frequento sembra che esista un imperativo politico a sperimentare in prima persona pratiche poliamorose e queer. Chi non ha voglia di farlo, viene sanzionato. Quando Chomsky illustrava le possibilità democratiche di una società potenzialmente anarcoide e organizzata in piccoli centri comunicanti, Foucault protestava che anche all’interno dei piccoli centri sociali esistono dinamiche di potere e di repressione: all’interno di ogni società si creano, in ogni caso, dei rapporti di potere e delle gerarchie.
Mi spiego meglio: l’impressione che si deduce dalle discussioni pubbliche negli ambienti di attivismo e di movimento culturale è che una brava femminista debba necessariamente sfidare l’ordine sociale eteronormativo fondato sulla coppia. Non si tratta semplicemente di doverlo comprendere, criticare e decostruire: bisogna vivere in prima persona, sulla propria pelle, le modalità non monogamiche, non vanilla e non eteronormate che si accettano come possibili. Che in questo modo smettano di essere possibilità e diventino norme, alla stregua di quelle mainstream ma con un tipo di utenza diverso, sembra passare sotto silenzio. Uso il termine utenza con cognizione di causa: la modalità di relazione – amorosa, amicale, politica e generalmente sociale – che prende le fila dai meccanismi statunitensi per cui siamo tutti consumatori prima ancora che individui, ricorda con inquietante precisione i meccanismi con cui ci approcciamo a un qualsiasi prodotto commerciale. In Fare la rivoluzione ai tempi di Pornhub. Sesso potere e piattaforme, si pone l’accento sull’ambiguità e la potenziale problematicità di uno slogan come “il personale è politico”:
Alle persone piace tanto dire che “il personale è politico”, perlopiú intendendolo in maniera riduttiva. Non significa soltanto che le nostre questioni personali – come la nostra sessualità, la nostra famiglia, le nostre scopate – sono territorio di negoziazione politica. Mi chiedo se sia persino il caso di definire queste cose “personali”. E poi anche le questioni impersonali sono politiche. Se concordiamo sul fatto che tutto sia politico, non vedo a cosa servano altre distinzioni.
Come scrive Lennard, veniamo formati, inseriti in categorie e organizzati attraverso relazioni che concorrono a definirci. Il personale è politico non perché le scelte che facciamo sono politiche, ma perché il campo delle scelte che possiamo e non possiamo fare, di chi può farle e di chi non può, di chi può essere e chi no, è definito dal potere politico. Questo discorso vale anche nell’ambito della pornografia virtuale, anche nell’ambito della cosiddetta pornografia alternativa che, come sottolinea Giovanna Maina nel suo Piaceri identitari e (porno) subculture, si rivolgono a comunità che condividono stili di vita più che pulsioni, anche dal punto di vista del tipo di eros desiderato. Negli ambienti virtuali gli utenti si comportano come persone: intessono relazioni, creano scambi. Il sesso rientra a pieno titolo nelle pratiche condivise dai membri delle comunità alt virtuali. I codici rappresentativi condivisi fanno sì che si ricreino gruppi di affinità, che a loro volta, però, non solo vengono cooptati e utilizzati dal mercato, ma finiscono per imporre le loro particolari norme a chi vi si avvicina. In un momento in cui la tecnologia finge di svolgere una funzione liberatoria, moltiplicando e diversificando le pratiche sessuali, è importante mettere in discussione l’idea che soggiace a questo discorso, ovvero che l’abbondanza – di partner e perversioni – sia necessariamente una liberazione. Non è detto, come sottolinea Lennard, che qualsiasi perversione erotica sia necessariamente liberatoria: Lennard ricorda il personaggio di Meryl Streep nel Diavolo veste Prada, nella celebre scena in cui Miranda, caporedattrice di una rivista di moda molto influente, rimprovera Andy, l’assistente naïve interpretata da Anne Hathaway, per aver creduto di aver scelto in piena libertà di indossare un maglioncino azzurro, in realtà lascito di selezioni di alta moda operate dalla stessa Miranda anni prima e scese con un effetto trickle-down fino ai saldi dei grandi magazzini, luogo dove la ragazza colta si convince di compiere scelte sobrie e indipendenti, che mortificano le pretese della moda. Andy si illude di avere un arbitrio che appartiene, invece, al mercato: il capitale non le impone di comprare quel maglione, ma determina rigidamente le condizioni di possibilità per ogni scelta. Il sesso, come il maglione azzurro, è l’ennesimo tassello di un processo di normalizzazione e appartenenza:
Il problema era che (il mio compagno) vedeva un certo tipo di sesso – e non il sesso in sé – come un rito di passaggio senza il quale non sarebbe stato possibile dirsi davvero radicali. La sua convinzione rasentava il credo religioso: aveva fede nel fatto che determinati atti sessuali tra determinati tipi di corpi fossero intrinsecamente dotati di una capacità trasformativa.
Lennard esclude che le nostre scelte sessuali abbiano davvero rilevanza nell’organizzazione di un’alternativa politica radicale a breve termine, ma ribadisce l’importanza dell’allargare l’immaginario del possibile e dell’auspicabile, anche “a letto” (uso apposta l’espressione più cringe possibile). E sono d’accordo con lei quando afferma che la rigida separazione della politica dal sesso non tiene conto della dimensione delle rappresentazioni, e del ruolo che hanno nel costruire l’idea di sesso che abbiamo oggi. Tuttavia, i proclami a favore di pratiche sessuali radicali, specialmente nel contesto di movimenti politici, possono finire col ricalcare le strutture di potere patriarcali. Questo assunto non scardina il compito e l’importanza dei pornografi queer: in un ordine sociale eteronormativo che punisce il desiderio, le identità e le pratiche sessuali che si spingono oltre i suoi confini ristretti, tutte le persone hanno il diritto di disporre di rappresentazioni in cui riconoscersi. Foucaultianamente, è necessario non tanto stabilire rigide fondamenta per l’elaborazione di una nuova società ma operare una critica della società esistente, per liberare il pensiero (e il corpo) dell’individuo e del soggetto. Come scrive Lennard,
Ci sono persone che hanno lottato e sono morte, e succede ancora, per avere il diritto di amare e scopare senza essere oppresse.
Anche a me è servito del tempo per saper distinguere e discernere l’ipocrisia e il dogmatismo in ciò che ritenevo giusto (e persino sexy). Se unirsi a un movimento per combattere l’oppressione è la base per diventare un soggetto politico, vale la pena prestare attenzione al ruolo delle rivendicazioni sul valore rivoluzionario della sfida alla morale sessuale tradizionale. Il sesso è un ordine discorsivo che ha un ruolo fondamentale nello stabilire quali tipi di identità hanno diritto di esistere: la pornografia può creare uno spazio per secondi/terzi/quarti sessi e soggettività altrimenti silenziate. Il punto, però, è che è necessario essere consapevoli della cornice a cui nessuna nostra interazione, mainstream, alternativa, dichiaratamente attivistica o annoiata, può sottrarsi:
Quel potere politico che sottilmente si insinua nelle nostre storie, e si adopera perché si mantengano intatte certe convenzioni sociali, certe gerarchie a cui dobbiamo sottostare, certi regimi di competenza, di oppressione e di fatica, quel potere che stabilisce di volta in volta i modelli da seguire.
La prescrittività riguarda anche i nostri desideri sessuali: secoli di condizionamenti da parte del potere hanno contribuito a definire quello che desideriamo. Eppure, una destrutturazione è possibile. Se per alcuni, come Foucault, il BDSM indica nuove possibilità a partire dal corpo, imprigionato dalla genitalità che sta al centro della nostra socializzazione, la consapevolezza dello status quo è la chiave per un’emancipazione da tutte le norme e non la riproposizione di altre, per quanto meno patinate. Come scrive il teorico queer Guy Hocquenghem,“i ruoli non si possono sovvertire se la recita è la stessa”.