P roprio negli ultimi tempi, in cui il dibattito sul cambiamento climatico non è mai stato così acceso e mediatizzato, bisogna considerare come anche la letteratura, in realtà, abbia sempre partecipato a quella discussione, portando la tematica ambientale al centro delle riflessioni sull’io lirico. Antropocene, il disastro ambientale e l’impatto nefasto dell’azione umana sul pianeta sono argomenti che spesso hanno trovato posto in opere letterarie di varia natura, poesia compresa. Riflessioni che nascono anche nella letteratura italiana, che vanta una delle voci più rappresentative: Andrea Zanzotto, nato a Pieve di Soligo (Treviso) nel 1921 e morto nel 2011.
Per me il paesaggio è prima di tutto trovarmi davanti a una grande offerta e un immenso donativo che corrisponde proprio all’ampiezza dell’orizzonte, nonostante venga continuamente ferito, ci raccoglie sempre allora bisogna sempre amarlo. Ricostruire le ragioni di un eros che è rivolto proprio alla terra come tale.
Definito da molti come poeta delle scorie e dei detriti, quella di Zanzotto è una difesa del paesaggio tutta rivolta verso l’oltraggio a una bellezza offesa, La Beltà – titolo di una sua raccolta del 1968. Lontano dalla corrente ermetica, poetica che i critici hanno comunque tentato di conferirgli, e dalla retorica avanguardistica, dalla cui banalità provocatoria si è impegnato a tenersi distante, Zanzotto è stato uno dei pionieri della corrente ecologista nella letteratura italiana. “Il poeta in trincea contro il cemento”, così definito nel titolo di un articolo apparso su Repubblica nel 2007, fino alla sua inossidabile età di novant’anni ha deciso di imbattersi nella lotta contro la cementificazione selvaggia, per salvare l’ultimo angolo di verde del territorio veneto, regione stravolta da uno sviluppo industriale onnivoro e senza controllo a partire dagli anni Cinquanta. Non bisogna, però, confondere il suo atteggiamento come una posizione anti-progressista, anzi quella di Zanzotto è stata semmai la voce poetica più aperta ad analizzare la problematicità di questo “progresso scorsoio”.
Quella del poeta di Pieve di Soligo è stata una difesa della natura volta a recuperare un dialogo che con l’uomo, in realtà, non si era mai interrotto. Radicato fortemente nella poesia civile impegnata che tenta di “connettere l’inconscio della collettività”, come ha spiegato lo stesso poeta, Zanzotto è stato uno dei pochi autori contemporanei italiani sensibile al dialogo tra storia e geografia: “la storia si risolve sempre in tragica e poi sempre meno significativa geografia, lasciando sulla ‘pelle’ della terra i graffi, le tracce dei suoi conflitti o della sua inerzia, che diventano sempre più equivoci con l’andare del tempo”. Più volte, nelle sue interviste, Zanzotto si soffermava sull’idea di una storia che è ininterrotta geografia, mostrando come la prima entri in continua collisione con lo spazio geografico.
Nei primi anni Ottanta il confronto tra letteratura ed ecologia è confluito negli studi di quella che recentemente è stata chiamata “ecocriticism”, ecocritica o ecologia letteraria, materia che ha fatto il suo esordio negli Stati Uniti tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Una prima definizione di questo filone va fatta risalire al critico Joseph Meeker e al suo saggio The Comedy of Survival: Studies in Literary Ecology, pubblicato nel 1972: secondo Meeker, l’ecologia letteraria è “lo studio dei temi e delle relazioni biologiche che appaiono nelle opere letterarie. Allo stesso tempo è il tentativo di scoprire quale sia il ruolo giocato dalla letteratura nell’ecologia della specie umana”, ma anche “lo studio delle interconnessioni tra natura e cultura, e specificamente degli artefatti culturali di linguaggio e letteratura”. Etimologicamente, il termine “ecologia” trova le proprie origini nella parola greca Oikos, che significa “casa/dimora”, dalla quale emerge una connotazione semantica fortemente legata a un’idea di quotidianità. Nel caso di Zanzotto, il concetto di ecologia va proprio fatto riferire alla sua cartografia paesaggistica:
Del resto sembra che geografia e storia abbiano ugualmente a che fare con il “sistema militare”, con lo scolice militare che orienta i rigiri della prassi umana, marcandola con punti massimi o di “precipitazione chimica”. Il sistema militare si potrebbe infine ricondurre al “sistema immunitario” presente in ogni corpo che viva o anche nei gruppi, offesa/difesa degli organismi, degli aggregati (umani e non) nei confronti di un fuori sempre ribaltabile in un dentro. […] Ogni luogo, oggi divenuto ormai obiettivo militare, somma in se stesso tutte le grafie e i graffiti storico-geografici della militarità/terrore/irrealtà.
Anche il territorio di cui parla il poeta ha visto cadere sul suo suolo i corpi di migliaia di civili e soldati coinvolti nella Prima Guerra Mondiale. I milioni di morti di quel conflitto hanno generato una lunga faglia, storicamente denotata come “Linea degli ossari”, che si estende dal Veneto alla Manica, cui si unisce anche i boschi del Montello, messi in versi da Zanzotto.
Così come questa linea geografica delimita il territorio, al suo interno essa implica anche una possibile demarcazione temporale: se si risale all’etimologia stessa della parola “tempo” (dal verbo greco “temno” ovvero “taglio”) si intuisce una ferita inflitta dal tempo alla terra, alla geografia e al suo spazio. Nel novembre del 2018 quegli stessi boschi del Veneto sono stati devastati da uno sterminio senza precedenti: milioni di alberi sono stati abbattuti dal vento e da una pioggia che ha spogliato e distrutto, umiliando un intero territorio, compresa l’esistenza di chi lì ha sempre vissuto. Esattamente cento anni prima, la grande guerra finiva di raschiare la superficie della terra facendo tornare quelle foreste a crescere sui corpi dei caduti.
È proprio il territorio del Montello, caratterizzato da boschi e colline, a diventare il luogo e la patria-heimat della poesia di Zanzotto, in quanto riparo e rifugio anche dai traumi del secondo conflitto mondiale e della Resistenza partigiana, che toccò direttamente la biografia del poeta, quando un suo caro amico partigiano fu ucciso dai nazisti durante una rappresaglia nell’agosto del 1944:
Nei miei primi libri, io avevo addirittura cancellato la presenza umana, per una forma di “fastidio” causato dagli eventi storici; volevo solo parlare di paesaggi, ritornare a una natura in cui l’uomo non avesse operato. Era un riflesso psicologico alle devastazioni della guerra. Non avrei potuto più guardare le colline che mi erano familiari come qualcosa di bello e di dolce, sapendo che là erano stati massacrati tanti ragazzi innocenti.
Quella di Zanzotto è un’opera ampia (sarà attivo dagli anni Cinquanta fino alla morte), attenta a registrare le metamorfosi di un paesaggio infetto, che si lascia cogliere dallo sguardo di un io lirico sempre più rarefatto, come lo stesso territorio che lo accoglie. Nel 1978, con l’uscita emblematica di una sua opera centrale, Il Galateo in Bosco, il poeta ragiona su come gli Ossari dei caduti durante la Prima guerra mondiale abbiano trasformato il paesaggio nella prossimità del Montello:
Il Galateo in Bosco è forse l’ultimo libro “etnico” della letteratura italiana: vi rientra la grande tragedia popolare che fu la Prima guerra mondiale, con i suoi seicentomila morti, nella prospettiva di rivitalizzarne la memoria nel presente, sfuggendo alle insidie “marmificanti” della retorica statalista e della commemorazione ufficiale.
Zanzotto insegna che se si vuole parlare di umanesimo occorre riflettere anche su un’umanità che distrugge e sta distruggendo, e sull’esistenza di una nuova barbarie ambientale. Quella che emerge è una visione sempre più drammatica che riguarda l’essere umano, in particolare dell’uomo alfa e la ferita che questo uomo infligge al paesaggio. Da un lato, nella produzione di Zanzotto emerge sempre un vocativo struggente nei confronti dei luoghi, dall’altro viene messa in luce la catastrofe dei luoghi dove biologia e geologia si parlano continuamente: “si è passati dai campi di sterminio allo sterminio dei campi”.
In un’intervista realizzata da Marzio Breda nel 2009, Zanzotto, citando Sopra una conchiglia fossile di Giacomo Zanella, poeta veneto del secondo Ottocento, nei cui versi la geologia entra nella storia con l’immagine della conchiglia ricoperta dal fango espulso da vulcani sottomarini, ha così commentato: “questo introduce al trauma forse più forte che l’uomo abbia dovuto soffrire: passare dalla storia alla geologia e tentare di armonizzare il tempo storico con il tempo biologico e, appunto, con quello geologico e cosmologico”.
Dato il sistema climatico planetario sempre più dissestato, il bollettino meteorologico non può fare altro che segnalare tale instabilità tra cui anomale variazioni atmosferiche e allarmanti mutamenti stagionali. La raccolta poetica intitolata Meteo (1996) non può che registrare un’instabilità verbale, raggrumata in ingorghi testuali, più marcata di quella atmosferica. I disegni di Giosetta Fioroni, che accompagnano le poesie, sono le tracce, i relitti di sopravvivenza, segni-residui di un paesaggio infetto che si lascia dissipare da una natura “follemente invasiva”. Il paesaggio che ne deriva risulta connotato dall’inquinamento, da acidi, spray, zanzare tigri, ticchettii radioattivi, esantemi, sangue e pus che trovano un corrispettivo linguistico in una lingua che si dà in diretta, in un vocabolario teso sempre più verso l’omologazione e il collasso. Ne risulta un panorama poetico astratto, quasi mentale pieno di punti di fuga, dove il tono dominante è il grigio che colora un’atmosfera indistinta. È il riflesso di una mente del tutto appiattita dalla passività dell’essere che rende nebuloso e privo di contorni ogni forma del reale. La natura ha subito un processo di trasformazione incorporando gli orrori della storia, dal disastro di Chernobyl alle stragi della ex Jugoslavia.
Il paesaggio qui descritto è costretto a essere e a evocarsi autonomamente, anche se in realtà non è il paesaggio in senso astratto a parlare: la voce però, in questa raccolta, sarà quella degli elementi specifici della flora locale, come le vitalbe (una pianta rampicante che mette radici su alberi e tralicci). Il riflusso del linguaggio nel paesaggio finisce per prevalere a sostegno della tematica ambientale, dove anche la parola poetica subisce la dismisura, in quanto segno di una disgregazione totale che coinvolge l’io e il paesaggio traumatizzati e dettati da fonosimbolismi, vibrazioni foniche, echi sillabici e grafie deformate. In questo clima di ferocia e di aggressività insensata come in “fieri di una fierezza e foia barbara” o nei “stragiferi papaveri” e nelle estreme variazioni foniche e semantiche del lessema “strage” imposto dalle guerre micidiali e dai poteri economici brutali, la poesia non può che collassare e infettarsi a sua volta.
Ed è qui che si verifica la sublimazione del paesaggio. Il paesaggio diventa un accumulo di possibilità suscettibili di sensi diversi che si sfiorano, senza però fondersi mai completamente, al punto da rendersi indipendenti resistendo alla distruzione ambientale. La possibilità di re-esistenza è confermata dal fatto che in Meteo le piante infestanti rendono ancora possibile la poesia, che con queste si identifica, adeguandosi al mutamento planetario.
Questo è uno tra i tanti esempi che si potrebbero proporre della scrittura zanzottiana. La pianta del papavero viene qui caratterizzata da una certa precarietà e aleatorietà e, se un tempo si distribuiva in maniera furtiva tra i campi di frumento, oggi risulta “follemente invasiva” a causa dei diserbanti, trovandosi nella condizione di precipitare, senza alcuna ragione, ai margini delle strade. Il valore cromatico dei papaveri è, tuttavia, simbolo delle stragi avvenute nella ex Jugoslavia. Questi tristi avvenimenti storici degli anni Novanta sono accompagnati dal ricordo straziante della corsa del compagno partigiano falciato tra i campi di papaveri durante il rastrellamento dell’agosto del 1944. In questa estenuante corsa, corrono anche i cecchini cetnici nelle immagini che come sovrimpressioni lontane scorrono sugli schermi televisivi e con loro anche l’umanità intera tesa a rincorrere un tempo aleatorio e sempre più impalpabile in un universo reso sempre più sfuggente dall’impeto mediatico. Il rumore delle mitragliatrici, CRABRO CRABRO, “che per un breve periodo si udirono anche al di qua dei confini con la Slovenia”, come ha annotato il poeta, è anche il nome latino del calabrone che sterminò milioni di vittime.
Dieci anni fa usciva l’ultima raccolta poetica di Zanzotto, Conglomerati (2009), un lavoro sui termini di aggregazione e di sedimentazione. Zanzotto vorrebbe percorrere e sondare questa forza di intensificazione della realtà come si fa con il terreno. In Conglomerati prevale la dimensione geologica del paesaggio: ammassi geologici di elementi eterogenei che si tengono insieme senza fondersi, strati separati che nonostante tutto stanno insieme. La dimensione stratificata della materia ci suggerisce due cose: non solo il paesaggio è fragile, dal momento che anche l’uomo può regredire verso uno stato primordiale, ma è anche enormemente potente, poiché a sua volta può distruggere l’uomo e forse sopravvivergli in una nuova natura che non lo contempla più.
Zanzotto “nell’inquietante labirinto di massi” delle “Crode del Pedrè” manifesta l’estraneità di un paesaggio esistito prima del soggetto e che esiste tuttora al tempo presente della storia, teatro di trasformazioni geologiche che minacciano continuamente il soggetto. È come se il soggetto, immerso nel paesaggio, fosse osservato dal paesaggio stesso e gli comunicasse qualcosa senza voler essere inteso necessariamente. Forse è il soggetto ad essere capitato in un colloquio già in atto che non è detto che riguardi necessariamente più lui e di conseguenza l’intero genere umano.
Attraverso la sua parola poetica, Zanzotto intende creare un senso, colmando il vuoto che si avverte stando al mondo e soprattutto: “rilanciare negli spazi disincantati del moderno il sogno di un luogo che non è ancora, ma è sempre potenzialmente in atto”. In tutta la sua opera, dunque, è avvertibile questo inscindibile legame tra poesia e utopia, in quanto “‘missione’ di una letteratura che torna a presentarsi come polo e generatore di libertà, orizzonte di fuga che accosta il possibile all’impossibile”. Il marcato antropocentrismo contemporaneo ha eroso le aspettative utopistiche del poeta, attraverso un movimento dello spazio che inizia ad intaccare anche uno spostamento nella storia, dove quest’ultima tende sempre più a travolgere il territorio: per Zanzotto l’unico luogo autentico di insediamento autenticamente umano risiede nella poesia.