L uci basse, mattonato vivo, niente palco, niente applausi. Sabato 18 marzo, nelle sale del Teatro Litta a Milano, in modalità orizzontale e anti-accademica – e in atmosfera quasi carbonara, ha detto qualcuno – si è tenuto Esiste la ricerca. L’incontro – curato da Marco Giovenale, Michele Zaffarano e Antonio Syxty – si è posto come seguito del romano Esiste la ricerca? (giugno 2022) e ha visto discutere autori e critici sulla consistenza e sulle possibilità operative di quelle pratiche testuali che vanno sotto il nome di scrittura di ricerca. E cioè, trasversalmente, sullo spazio occupato dalla sperimentazione all’interno del (o in contrapposizione al) panorama della letteratura, sulle egemonie culturali, sulla tensione tra linguaggio e realtà.
Parlare di scrittura di ricerca significa infatti inserirsi in un dibattito cominciato già a inizio millennio e che negli ultimi decenni ha occupato una posizione grossomodo stabile all’interno del mondo poetico. Dico “all’interno” in senso lato: sulla scorta di autori francesi come Jean-Marie Gleize, gli scrittori di ricerca (comunque per statuto eterogenei, mutanti) si sono collocati obliquamente rispetto a ciò che di solito si intende col termine “poesia”, problematizzandone alcune caratteristiche a volte date come inossidabili (ad esempio il ritmo, l’analogia o il verso stesso) e riconoscendosi invece in ciò che Gleize – appunto – in Oggetti verbali mal identificati chiama “postpoesia […] qualcosa che sta al di fuori della sfera della poesia”.
Parlare di scrittura di ricerca significa inserirsi in un dibattito cominciato già a inizio millennio e che negli ultimi decenni ha occupato una posizione grossomodo stabile all’interno del mondo poetico.
Premessa essenziale per chi non mastica la materia: quando parliamo di scrittura di ricerca intendiamo una serie di esperienze che iniziano consolidarsi tra anni Novanta e Zero e che trovano momenti significativi ad esempio nella costituzione del gruppo GAMMM (2006) e nell’antologia Prosa in prosa (2009). Vista la natura molteplice di queste esperienze, non è facile individuarne delle caratteristiche definitive, oppure descrivere precisamente quale rapporto intessono con le sperimentazioni del Novecento – spunti interessanti in questo senso si trovano in L’ultima poesia di Gilda Policastro (Mimesis, 2021) – ma valga qui uno schema tracciato su slowforward da Marco Giovenale (tra i punti di riferimento della scena): il “cambio di paradigma” sotteso alle scritture di ricerca si può riassumere in perdita dell’assertività (cioè l’autore “non afferma” più, si trova al di sotto di un universo di linguaggio a cui semplicemente si aggancia), opacità del testo, letteralismo, rifiuto dello spettacolo, ironia, negazione di un’idea “forte” di soggettività, ricorso a pratiche di testo recuperato come il googlism o il flarf, oppure a elenchi, installazioni eccetera. Per sprofondare nel mood, poi, metto qui un testo da La gente non sa cosa si perde (Tic, 2021) dello stesso Giovenale:
Per un periodo della mia vita sono stato barista. C’erano dei déjà vu. Ero molto veloce, non mi potevo soffermare, io guardavo. Quando il ritmo rallentava avevo i déjà vu, sapevo che li giudicavo fondati però li volevo ignorare.Per un periodo della mia vita sono stato assente, non mi trovavo da nessuna parte, in realtà stavo bene, poi sono tornato. Li salutavo con energia.
Per un periodo della mia vita sono stato cinese. Avevo precisi tratti somatici, come gli occidentali e tutti. I miei erano cinesi. Parlavo e scrivevo anche, in cinese. Solo amici italiani, però, avevo. Non capivano gli scherzi nemmeno quando erano muti, gli italiani sono un popolo riflessivo.
Per un periodo della mia vita sono stato accanto alla finestra a guardare fuori che tuttavia non c’era niente. Non c’è niente nemmeno nel caminetto quando è acceso, ma è lo stesso: si guarda, uno guarda dentro. Cambia che è un dentro invece di un fuori. Le cose cambiano e per un periodo della vita non si sa come, poi si sa. Dopo lo sai, ma non sai quando è dopo
Per approfondire ulteriormente la scrittura di ricerca, comunque, rimando ancora a slowforward e alle molte annotazioni che compaiono sul sito. Ciò che mi preme chiarire, è come la scrittura di ricerca si ponga in netta opposizione a ciò che comunemente si intende per poesia, e come quindi possa avere un ruolo importante per problematizzare proprio questa opinione comune, da cui credo dipenda una parte significativa della sorte della poesia italiana contemporanea. E anche, più generalmente, del rapporto tra scrittura, collettività e conoscenza, se si emancipa la poesia dalla zona di comfort autistica e auto-assolutoria in cui per larga parte è caduta e la si ricolloca nella partecipazione alla società. Magari ancora in maniera marginale – ma almeno attiva, dialettica, concreta.
L’incontro di Milano (che ha perso il punto interrogativo di quello romano) ha aperto infatti una serie di questioni che non sono più trascurabili dal mondo della poesia – più o meno strettamente intesa – e che riguardano la sua tenuta storica, il suo (eventuale) ruolo socio-politico, la sua conformazione. Credo di dire l’ovvio sottolineando come la poesia oggi si trovi all’interno di un panorama di possibilità espressive e comunicative enormemente più complicato rispetto al passato, che non riguarda più (solo) la poesia come merce inconsumabile (per dirla con Pasolini), bensì (per dirla con Goldsmith, autore di Scrittura non-creativa) il trovarsi “di fronte a una quantità senza precedenti di testi a nostra disposizione” (nonché – aggiungo – di media più spettacolari, anche più incisivi della scrittura) che non può che intaccare, della poesia, sostanzialmente tutto.
Il ‘cambio di paradigma’ sotteso alle scritture di ricerca si può riassumere in perdita dell’assertività, opacità del testo, letteralismo, rifiuto dello spettacolo, ironia, negazione di un’idea ‘forte’ di soggettività, ricorso a pratiche di testo recuperato oppure a elenchi, installazioni, eccetera…
Perciò, partire dal suo lato più agitato e disomogeneo permette interrogazioni particolarmente profonde su ciò che la scrittura oggi può o non può fare. Interrogazioni che – schematizzando – a Milano si sono aggrovigliate attorno a cinque nodi fondamentali: intermedialità, critica, istituzioni, fruizione e politica.
Il rapporto con gli altri media, come dicevo, è cruciale. All’altezza del 2023 poesia e postpoesia si trovano in una posizione decisamente marginale, tanto in termini di mercato librario quanto – e sono due cose legate – in termini di appeal. Appeal da intendere in relazione all’intrattenimento, a quanto si è in grado di avvicinare nuove fasce della popolazione, ma anche – nel mondo intellettuale – in relazione a ciò che di solito si ha in mente per “conoscenza”: è raro che si parli di capacità gnoseologica dello strumento poetico e, semmai, si tende a relegarlo nello spazio di una pratica tutta emotiva, spesso confessionale e, in conclusione, innocua. È convinzione di chi scrive che questa immagine della poesia si sia costruita anche per auto-sabotaggio: le condizioni storiche ed economiche premiano la cultura scientifica – tecnicizzabile, funzionalizzabile – a danno di quella umanistica, insistono anzi su questa dicotomia impari, e la poesia risponde auto-ghettizzandosi in un’ideologia dell’elezione, del cuore puro, che finisce per ridurla a esercizio privato. Risultato: inabissarsi spesso in una serie di stereotipi francescani che non possono mai renderla efficace agli occhi di generazioni che chiedono tutt’altro.
Che durante l’incontro la questione dell’intermedialità sia emersa subito (sollevata soprattutto da Mariangela Guatteri, artista che da tempo sperimenta forme ibride di testualità) è quindi significativo: si è sostenuta la necessità di seguire un approccio pluralistico, innanzitutto, poi di mantenere saldo il legame con altri strumenti espressivi, come l’immagine o il suono, sulla scorta di quanto sempre avvenuto nelle sperimentazioni del Novecento (un esempio per tutti: Adriano Spatola) e che è del resto proseguito con gli autori di ricerca. Recente, per dire, è Periodo ipotetico di Michele Zaffarano, installazione che coinvolge registrazioni audio, video e testi ipnotici, mai chiaramente seri o chiaramente ironici, del tipo:
se non ti piace la necessità, cambia la necessità
se non ti piace il malessere, cambia malessere
se non ti piace il lavoro, cambia lavoro
E di seguito, in loop. Ma è chiaro che l’intermedialità, nell’epoca del Metaverso e delle mucche con il VR, si trova di fronte a sfide del tutto inedite. E infatti, durante l’incontro, anche il discussissimo caso ChatGPT non poteva che venire fuori: nuovo campo di indagine testuale o definitiva feticizzazione dell’objet trouvé?
La difficoltà di cui le scritture di ricerca vengono talvolta accusate – come tutte le avanguardie e le sperimentazioni passate – non è che lo stridore tra l’orizzonte d’attesa costruito culturalmente e un testo alieno.
Al di là degli episodi specifici, comunque, da questo passaggio emerge una tripla posizione significativa: 1) che la scrittura è linguaggio fra linguaggi; 2) che scrittura non significa automaticamente libro (come espresso da Pasquale Polidori, curatore proprio di Periodo ipotetico, tra le altre cose); 3) che le possibilità concrete della scrittura si misurano in dialogo con la storia, e cioè con la tecnica. Posizioni entusiasmanti ma tutt’altro che pacificate, però, perché riportano nel dibattito la questione dei confini, di quali pratiche possono essere definite scrittura di ricerca e quali no. Altre polarità si sono quindi create attorno a questo nodo, tra chi spingeva per la definizione di uno specifico “territorio” (di cui parla anche il critico Francesco Muzzioli qui) e chi sosteneva invece essere nella natura stessa della ricerca il suo carattere nomade e selvatico.
Un problema di critica letteraria, allora, con la critica che, in quanto testo derivato, risulta essere forse in questo caso l’oggetto più difficile da definire: Chiara Portesine – che a livello accademico si è occupata proprio di outsider della poesia come Emilio Villa e Corrado Costa – ha evidenziato la difficoltà di leggere gli autori di ricerca con gli strumenti critici tradizionali, anche quelli della tradizione avanguardistica, e cioè, in filigrana, la riluttanza del mondo accademico a interessarsi in maniera specifica a una sfera della scrittura che, nonostante la complessità, risulta consolidata in Italia già da quindici anni. Almeno per una sua parte, infatti, critica significa università, istituzione, e un altro tasto dolente si trova qui: ad esempio Andrea Inglese (che ha avuto un percorso singolarissimo, da Prosa in prosa ai romanzi per Ponte alle Grazie) ha rimarcato la differenza tra situazione italiana e situazione francese, dove le scritture sperimentali sono supportate dalle università e addirittura finanziate.
La distanza tra mondo accademico e mondo militante è paradigmatica. Non tanto perché aggiunge alla collezione un altro tassello di provincialismo nostrano, ma soprattutto perché mostra che una frizione centrale del mondo poetico italiano si dia lì, nella dialettica tra un canone normalizzante, disinnescante (confermato – almeno tendenzialmente – da università, scuola e grande editoria) e una realtà della scrittura più composita, felicemente disorganica, eversiva anche. Alcuni interventi hanno infatti individuato pure nella scuola un contesto in cui l’immagine stereotipata e inservibile della poesia (naturalistica, romantica, patetica) viene spesso ribadita, o costruita tout court. Motivo per cui non solo la poesia in generale non riesce a toccare le sensibilità delle nuove generazioni, ma forme “eterodosse” come quelle della scrittura di ricerca faticano a trovare eco in lettori potenziali che non vengono educati a possibilità diverse da quelle tradizionali. Non c’è dubbio: la difficoltà di cui le scritture di ricerca vengono talvolta accusate – come tutte le avanguardie e le sperimentazioni passate – non è che lo stridore tra l’orizzonte d’attesa (culturalmente costruito) e un testo alieno.
Non solo la poesia in generale non riesce a toccare le sensibilità delle nuove generazioni, ma forme “eterodosse” come quelle della scrittura di ricerca faticano a trovare eco in lettori potenziali che non vengono educati a possibilità diverse da quelle tradizionali.
Ma la diseducazione alla scrittura contemporanea è collaterale alla diseducazione alla contestazione, nel senso di una difficoltà – diremmo con Fisher – di immaginare l’alternativa, un mondo diverso da questo. Ecco: istituzioni, sperimentazione, pubblico. Da questo quadro si arriva al punto che forse è stato il più rilevante dell’intera discussione: quello della politica, sottolineato soprattutto da Vincenzo Ostuni. La questione politica è del resto sempre stata presente nella scrittura di Ostuni (traduttore di Žižek, tra l’altro), e lo vediamo ad esempio in Faldone zero-otto (Oèdipus, 2004):
Ma quello che ci spinge ad essere chi siamo
non è un sopramondo inattingibile, né una vena infera,
invista e inesauribile;
è una griglia di concause fra i cui nodi
siamo anche noi stessi;
possiamo sciogliere i nodi più vicini; far vibrare o scuotere i lontani;
erodere i lontanissimi.
Un movimento di sufficiente intensità, un’oscillazione del giusto periodo,
può modificare la disposizione
dei fattori,
e rendere liberi non noi: ma una parte di quel che ci determina.
Abbiamo capito che non possiamo intendere la scrittura di ricerca come qualcosa che “afferma”, nel senso più stretto e terreno del termine. Semmai, seguendo La cornice e il testo di Gian Luca Picconi (Tic, 2020), dobbiamo tenere sempre presente l’esercizio che quella fa di convocare contemporaneamente “più cornici pragmatiche, [che] negandosi a vicenda” rendono “non-assertivo ciò che in altra cornice è realmente assertivo”. Ma, anche se virgolettato, il discorso politico è all’interno la scrittura di Ostuni, e il suo intervento a Milano ha così aperto un filone importante della discussione.
Quello della politica è infatti un nodo che ingloba gli altri nodi e mette la questione della scrittura in un piano materialmente conflittuale, in uno spazio in cui si relazionano intervento sulla lingua e intervento sulla realtà. Tra le divergenze tra poesia lirica e scrittura di ricerca c’è infatti anche il rapporto con la società: in linea di massima, la prima tende a porsi su un piano diverso rispetto a quello dei meccanismi economici e dei rapporti di forza, comunicando più facilmente con la sfera dell’etica (perché – apparentemente – più individuale e meno compromessa con l’ideologia), mentre la ricerca, ereditando (qui sì) la lezione delle avanguardie, si riconosce all’interno delle condizioni materiali, ed eventualmente anche in sfida con loro. È a quest’altezza, però, che si registra la parte più magmatica del dibattito: rimangono saldi alcuni riferimenti filosofici (Marx, naturalmente, ma anche Adorno, Brecht, Benjamin), e però si fa urgente la revisione dei mezzi della contestazione, che sono intrecciati a quelli della scrittura e che, a maggior ragione, non sono più recuperabili da quelle avanguardie da cui la ricerca per molti aspetti (assenza di manifesti, indeterminatezza, non-assertività) divorzia.
Quello della poesia italiana è un problema di prossemica: un corpo che fatica a disporsi in modo diverso, a occupare angoli nuovi nella stanza.
Esiste la ricerca si è chiuso con l’unico applauso della giornata, dopo otto ore di interventi estemporanei, non preparati, pronunciati da sedie disposte una di fronte all’altra. Rimane ancora molto da discutere, misurare la scrittura di ricerca anche con le sue implosioni, e chissà se non ricomparirà il punto interrogativo, più in là. Ma, sì, quello della poesia italiana è del resto un problema di prossemica: un corpo che fatica a disporsi in modo diverso, a occupare angoli nuovi nella stanza. Ora per la ricerca c’è la prospettiva di proseguire fattualmente il discorso (creare degli incontri, mantenere una costanza), ma anche quella – altrettanto pragmatica – di pensarsi come una zona di reale discussione su come si guardano – durante la tensione tra Cina e Stati Uniti, ad esempio, alla fine di quest’inverno mancato – la scrittura e il mondo.