

“S tudierai russo perché è la lingua di Lenin”, scriveva Majakovskij: anni fa mi sono trovato a studiarlo all’università, senza mai chiedermi perché – almeno all’inizio. I progressi nella lingua erano lentissimi, e sofferti; al contrario, l’eredità storica e letteraria di una terra che sfuggirà sempre alla nostra comprensione, velata da un principio di indeterminazione, ha contribuito a ri-cablarmi il cervello, ri-sintonizzarmi il cuore, e mi accompagnerà sempre. Non è scontato spiegare cosa significa studiare la letteratura russa, e soprattutto sovietica, a vent’anni compiuti. È un’immersione da cui si risale lentamente, cercando di apprezzare un paesaggio sempre meno cupo.
C’è però qualcuno che lo capisce bene, anzi, che ha vissuto per questo. In occasione del centenario della rivoluzione infatti, ho avuto la fortuna di intervistare Serena Vitale, una scrittrice (e insigne slavista) che questa immersione l’ha portata fino in fondo, sacrificandosi alla Letteratura già negli anni Settanta, quando da Mosca trafugava in Italia libri proibiti, intervistava Classici del Novecento come Šklovskij, il padre del formalismo: queste e altre storie vengono raccontate nel suo A Mosca, a Mosca!, un libro da leggere.
Riascoltando la nostra conversazione mi stupisco di quanto Vitale abbia ripetuto quell’intercalare, “come lei saprà benissimo”, un inciso che mi intimorisce, mi onora – anche se non corrisponde al vero, e mi fa pensare che avrei voluto dirle quanto poco in realtà ne sappia, soprattutto di fronte alla sua erudizione, alla sua chiarezza e al suo coraggio.
Il simbolismo in Russia assume delle connotazioni mistico-religioso-filosofiche che sono quelle che fanno anche nascere il pensiero filosofico russo di quegli anni. Si dice infatti che non esiste una filosofia in Russia, ma altroché se esiste. Se si prendono i grandi pensatori di inizio Novecento, se si considera quella specie di koiné in cui i filosofi, i poeti e gli scrittori agivano insieme, si scambiavano le proprie impressioni: penso ai discepoli del simbolismo, che tra l’altro riconoscevano l’autorità di maestri come Blok, o gli studiosi geniali dei meccanismi della lingua e della poesia come Belyj – su cui ho fatto la tesi di laurea… Di Belyj poi non è solo la poesia a svettare, è il suo pensiero che è grandissimo.
Quello che bisogna capire è che non fu l’oligarchia bolscevica al potere a perseguitare le avanguardie che ci affascinano tanto, il cubo-futurismo, l’acmeismo, e tutta quella fioritura straordinaria che la poesia europea forse non ha mai conosciuto, futurismo e surrealismo compresi; furono soprattutto i rappresentanti delle Associazioni Proletarie che si ergevano a comandanti e persecutori di questi intellettuali. Tentavano di insegnare a scrivere a Majakovskij, a Chlebnikov. Dobbiamo meravigliarci che siano sopravvissuti fino al Trenta. Considero la data della morte di Majakovskij come la fine simbolica dell’Avanguardia, una fine violenta. Non conosco nessuna grande letteratura che in dieci anni – questi favolosi anni Venti che sono figli degli anni Dieci – abbia prodotto questa dozzina di geni, e di questi geni quasi nessuno è morto nel proprio letto. In Russia allo scrittore viene delegato un ruolo di guida, di maestro del pensiero, di espressione popolare che non ha pari nel mondo.
Lo segue poi in Unione Sovietica dove morirà, non sappiamo come, probabilmente suicida. Appena era tornata in patria le avevano portato via la figlia, il marito. Ho una certezza che mi deriva da una lunga conoscenza di Marina Cvetaeva, che lei si sia uccisa il giorno in cui ha saputo che anche il marito non c’era più. Quando si trovava in condizioni terribili, durante l’evacuazione bellica, sono quasi sicura che venne a sapere della morte del marito; il rapporto di Cvetaeva con il regime bolscevico insomma è attraversato da questo amore enorme per il marito, un amore difficile da comprendere per noi, sapendo delle sue avventure amorose – Pasternak incluso. La persecuzione che ha subito è ormai di dominio pubblico. A quanti siamo?