P er un breve periodo all’inizio del Ventesimo secolo, Mina Loy è stata la bella della festa di gala della Poesia Americana. Tuttavia, oggi quasi nessuno ha memoria della sua esistenza.
La sera del 25 maggio 1917, Mina Loy e Marcel Duchamp si fecero strada verso l’“ultra-bohémien, preistorica, ebbra” Webster Hall a Greenwich Village, dove si stava svolgendo la ventitreesima e ultima “Cuccagna Pagana” della stagione. La decadente comunità incentrata sull’Undicesima Strada Est era conosciuta come “la Sala Giochi del Diavolo” da borghesi e bohémien. Doveva questo soprannome non solo alle pagliacciate dei frequentatori ma anche agli spettacoli che inscenavano gli espatriati durante quelle anarchiche serate. Di loro Webster Hall ricordava le riunioni presso la Left Bank prima della guerra. Era un luogo dove esuli e abitanti del Village potevano confondersi in un’unica tribù, e dove i comportamenti inconsueti erano incoraggiati e non solo tollerati. L’abbigliamento richiesto per l’ammissione rendeva possibile a chiunque lo desiderasse far baldoria fuori dal proprio ruolo o genere senza rivelarsi.
Quella notte in particolare, Marcel Duchamp (alias Rrose Sélavy) era vestito da uomo e Mina Loy indossava un abito di sua creazione. Insieme formavano la tipica coppia di espatriati.
Una piccola rivista per cui Loy scriveva e che Duchamp dirigeva stava celebrando la pubblicazione del suo secondo numero. Di spirito dadaista, «The Blind Man» aveva reclamizzato la serata come una “sincope continua” fino l’alba. L’annuncio interno alla prima di copertina minacciava di relegare alle retrovie chiunque si fosse presentato in abiti convenzionali. Quando la serata fu conclusa, i due, insieme ad altri quattro compagni, fecero colazione con vino e uova strapazzate, prima di cadere nel letto di Duchamp, dove il ménage à cinq passò una casta nottata.
Simili aneddoti erano il tipico modo in cui Mina Loy – prima che la biografia di Carolyn Burke ne rendesse pubblica la vita straordinaria – veniva ricordata. Come parte di un gruppo, come l’amante di qualcuno, come l’ospite di una serata di gala. Il più delle volte quello di Loy compare in un lungo elenco di nomi, nel ruolo dell’avanguardista emblematica, della bohémien esemplare, della frenetica “impuritana” che vagabonda tra i café del Village e i salotti Europei. Compie pittoresche apparizioni in dozzine di biografie: quelle, per esempio, di Djuna Barnes, Constantin Brancusi, Ernest Hemingway, James Joyce, Wyndham Lewis, Marianne Moore, Ezra Pound, Gertrude Stein, Wallace Stevens, Alfred Stieglitz, e William Carlos Williams. Memoir modernista dopo memoir modernista, le sono riconosciute una personalità trainante, un portamento intellettuale, un aspetto perfetto e un corpo seducente. Ma non una voce.
Prima di tutto, questo libro è un tentativo di restituire la voce perduta di una grande poetessa. Uso «grande» con cognizione di causa, ben sapendo che Loy non è mai stata chiamata grande prima d’ora, ma consapevole che «grandi» scrittori moderni – tra i quali Basil Bunting, Eliot, Pound, Stein e Williams – acclamarono il suo lavoro, in certi casi riconoscendo anche il debito che avevano nei suoi confronti.
Considerando la reclusione di Loy nei suoi ultimi anni, il fatto che in vita pubblicò solamente due libri e la sua apparente noncuranza – almeno in interviste e conversazioni – per la costruzione di una fama, o di un’oeuvre, non sorprende che i pochi che l’hanno riscoperta abbiano perorato la sua causa con quel tipo particolare di dedizione che di solito si riserva ai poeti che in vita hanno fatto di tutto per essere dimenticati. «Non sono mai stata un poeta» dichiarò una volta. Ma possedeva la propria idea personale su come confezionare bellezza e talento, e nelle lettere agli amici sembrava spesso affamata di un riconoscimento, nonostante corteggiasse l’oscurità: «Non potresti scrivere di me in una forma criptica – l’unica donna abbastanza risoluta da rinunciare a un facile successo – etc. etc. – mai allontanatasi dalla potenza del bello…?» si appellava a Carl Van Vechten nel 1915. Un pettegolezzo che circolava a Parigi negli anni Venti voleva che Mina Loy non fosse una persona reale bensì un personaggio di finzione. Essendone venuta a conoscenza, dice la storia, Mina Loy si presentò al salotto di Natalie Barney in modo da rendere manifesta la propria esistenza. «Vi assicuro che sono effettivamente un essere vivente. Ma è necessario starsene molto defilati… Per rimanere sconosciuta, il rischio che scelsi fu di farmi – poetessa». Concluso il suo romanzo, Insel, dichiarò di non avere un’idea chiara del suo valore, per poi sbrigativamente offrirne un commento contenente allo stesso tempo una perfetta indifferenza e una confidenza al limite della premonizione circa il suo destino letterario: «Lo lascio al giudizio dei posteri». Il romanzo languì non letto per decenni. Infine, nel 1991, venne pubblicato. Mentre proseguiamo nel giudizio postumo da lei predetto, dobbiamo prenderla in parola; ma quale parola, a conti fatti?
Se le dichiarazioni di Loy tendono a cancellarsi da sole, sono allo stesso tempo duchampiane. Come quelle di Duchamp, smascherano la propria nonchalance. Durante tutta la sua carriera, Loy ha camuffato prime persone assertive e istrioniche dietro alias inscrutabili. Ha fatto la ventriloqua. Dissimulato. Omesso. Difficile dire se tutto questo faccia parte di un disegno cosciente volto a eludere un inquadramento critico oppure si tratti di un’involontaria strategia di sopravvivenza; di fatto, potrebbe non sussistere differenza. Nelle sue poesie assume ora toni autodenigratori ora insolenti, esprimendo a volte una crudeltà talmente precisa da sembrare una forma di compassione. Metaforicamente, allora, il pettegolezzo di Parigi era vero: Loy si è inventata come personaggio di finzione. Compariva nei momenti in cui era più inaspettata. Era dirompente. Questo libro vuole presentarsi fedele a questo spirito. Per smentire la nostra convinzione di aver ricevuto ogni testimonianza possibile sulla poesia del Ventesimo secolo, questa guida perduta torna alla luce.
Femminista e futurista, moglie e amante, militante e pacifista, attrice e modella, cristiana scientista e infermiera, fu l’incubo dei pensatori binari.
L’obiettivo di Mina Loy fu semplicemente quello di diventare la donna più originale della propria generazione. A questo scopo, a volte per nostra confusione, rifiutò l’identificazione con molti gruppi e cause che sembrava naturale dovesse adottare. Si affiliò, invece, a quelli considerati il “nemico” dagli “ideologicamente corretti”. Anziché permettere di essere rinchiusa in un’identità, sì infiltrò, sfruttando le sue varie identità per trasformare le culture e i contesti sociali in cui abitava. Femminista e futurista, moglie e amante, militante e pacifista, attrice e modella, cristiana scientista e infermiera, fu l’incubo dei pensatori binari. Fu futurista, dadaista, surrealista, femminista, artista concettuale, modernista, postmoderna, e nulla di tutto ciò. La sua anti-carriera, se vogliamo, fu segnata da così tante contraddizioni apparenti, controalleanze, e inconsistenze da essere spesso considerata squilibrata. Ideò personali piattaforme politiche e vergò manifesti didattici. Scrisse teorie pseudoscientifiche sul destino facciale e compose una discussione sul femminismo tra le più radicali. Indossava la femminilità come una maschera, a volte per celare quella che chiamava la sua «parte mascolina», altre per tirare dalla sua parte il mascolino e altre ancora per rendere meno minacciosa la sua femminilità. Loy indossava maschere su maschere; era una poetessa sofisticata, nel senso letterale del termine. Sapeva una cosa o due sulla costruzione del mito, e sapeva qualcosa riguardo il violare le regole del discorso eterosessuale. Come Duchamp, fu un lotto confusionario per l’America, terra di divisione sessuale e priva di mito.
Loy giunse negli Stati Uniti nel 1916 dopo aver attraversato l’Inghilterra, Parigi e Firenze, preceduta dalla sua reputazione. Non più tardi del suo arrivo fu accolta come l’incarnazione della Donna Nuova e l’ultima moda nella versificazione nuova. Allo stesso modo di Duchamp, l’habillement intellettuale e artistico di Loy fu recepito come impeccabilmente avanguardista e internazionale. Pound vedeva Marianne Moore e Loy come eguali, ma quando Moore si trovava in compagnia di Loy era decisamente a disagio. Amy Lowell fu tanto esasperata dalla pubblicazione di Alfred Kreymborg del trattato poetico di Loy sulla scontentezza sessuale (Love Songs) che si rifiutò di consegnare ulteriori lavori alla rivista «Other». Loy veniva considerata la più pericolosa dei radicali “otheristi”. Se non le piaceva quanto i critici dicevano di lei, rispondeva usando le loro stesse parole, mettendoli alla berlina con arguzia. Molte delle sue prime poesie sono ritratti satirici dei suoi amanti passati, o canzoni disilluse nei confronti del sesso, del parto, delle relazioni amorose. Era ugualmente pronta a scagliarsi contro quelli che l’apprezzavano quanto su chi faceva eccezione. In certi momenti sembrava pronta alla scomunica, in altri ansiosa di comunicare. Mise in ridicolo Pound ed Eliot, anche dopo che avevano favorevolmente commentato la sua poesia. Non si genufletteva di fronte a nessuno.
Fu probabilmente sulla base di simili impressioni che Moore scrisse Those Various Scalpels, poesia che Patricia Willis ha identificato – secondo me a ragione – come un ritratto di Loy. Moore questiona l’obiettivo implacabile cui si piegano i talenti di Loy: «Sono armi o scalpelli?». Come ogni contemporaneo che scrisse di Loy, Moore prende nota della sua intelligenza, della sua bellezza e stile, solo per mettere tali qualità in questione e trasformare le proprie osservazioni in accuse. Come può una persona così bella, si meravigliava Harriet Monroe – e Monroe aveva in gran conto la bellezza di Loy, «bellezza eternamente giovane che è sopravvissuta a quattro figli», ne disse dopo il primo incontro – come può una persona così bella essere tanto spietata nel rivelare le proprie brutture, essere tanto sarcastica nei confronti dell’amore?
Molti tra i primi critici di Loy disapprovarono l’utilizzo di formulazioni intellettuali e il vocabolario arcaico tipici della sua scrittura. Reputavano lo stile artificioso, decorativo. Non capivano che Loy stava costruendo un cavallo di Troia – derubando intenzionalmente il vocabolario vittoriano e le posture concettuali per sovvertirne i valori e mostrare i meccanismi che tali costruzioni tenevano in ombra. La sua poesia suscitò dibattiti persino all’interno del gruppo di «Others», che era solito serrare i ranghi attorno ai suoi. In una recensione di «Others» del 1919, Conrad Aiken incoraggiava i lettori a «sorvolare… i tremolii tentacolari di Mina Loy» per concentrarsi sulle «metriche virili» di Eliot e Stevens. La recensione di John Collier era altrettanto emblematica. Citava il verso di Loy come esempio della «necessità di uno standard oggettivo… sulla tradizione» e l’accusava di produrre un’opera «dalla terminologia così pomposa, così consapevolmente artificiosa» e talmente piena di «ampollosità pseudoscientifiche » che «solo attraverso un mostruoso atto di fede, o l’autoipnosi, qualcuno potrebbe definire poesia».
Quando Pound introdusse per primo Mina Loy ai lettori americani, descrisse il suo verso come autenticamente americano.
Eppure Ezra Pound, nel 1921, pensava che Loy, Moore e Williams fossero gli unici poeti in America a produrre qualcosa di interessante. Cinque anni dopo, Yvor Winters evocava Emily Dickinson quale unica antesignana di Loy. Come Dickinson, Loy scriveva in un tempo in cui i lettori prestavano attenzione ai piaceri loro negati. Loy rifiutava la metrica tradizionale, la rima, la sintassi, e presentava il sesso come un calcolo utilitaristico. Ruppe ogni regola di impaginazione, fabbricò la propria grammatica, inventò le proprie parole – improvvisò perfino sulla punteggiatura. Traeva il suo vocabolario da uno stipo tra i più pieni di bizzarrie lessicali di tutto il Ventesimo secolo, e rimaneva tuttavia indifferente alle melodie della conversazione e non ricettiva delle convenzioni della versificazione. I suoi lettori, come quelli di Dickinson, erano diffidenti al suono di una voce aliena. Fu l’“alterità” di Loy la prima e principale caratteristica notata dai suoi contemporanei. «Le sue poesie farebbero impallidire nonna» recitava la didascalia sotto la sua fotografia sul «New York Evening Sun» a quattro mesi dal suo arrivo a New York, accompagnata da un profilo biografico che la dipingeva come una specie rara ed esotica, la nouvelle femme. «Nessuna Storia Naturale contiene il suo habitat… Se non è la donna moderna, allora chi è, ditemi?» minimizzava il reporter. Quando le sue poesie apparvero cent’anni fa, Dickinson fu accolta come la zia stramba della scrittura poetica; in seguito all’apparizione di Love Songs, vent’anni più tardi, a Loy toccò l’etichetta della figlia sbandata. La critica fin-de-siècle dimenticò per quasi un quarto di secolo l’opera di Dickinson. Nel caso di Loy, l’oblio calò ancora prima e più velocemente.
A un certo punto sembrò che il mondo della poesia americana potesse aprirle le sue porte, e a ben vedere lo fece già prima del suo arrivo negli Stati Uniti. Ma quelle porte si richiusero poco dopo che Loy mise piede sul suolo americano. I critici che la conoscevano trovarono che il suo comportamento fosse in contrasto con la sua versificazione. Carl Van Vechten, fotografo e critico musicale, fu il suo primo agente informale. Considerava Loy il più bel poeta in una bella generazione di poeti. Aveva grandi speranze in quanto poetessa, pensava, se solo avesse smesso di scrivere di sesso. Il suo primo marito, Stephen Haweis, la ammonì: «Continua a scrivere così, Mina Haweis, e perderai il tuo buon nome». Alfred Kreymborg, uno dei suoi primi editori, riassunse così le principali diffidenze del pubblico: «Se poteva vestirsi come una signora, perché non poteva scrivere allo stesso modo?». Ma c’erano anche altri problemi. Quando Loy giunse in America, rese noto di averlo fatto al fine di usare i propri talenti. Scrisse poesia, ma anche drammi e racconti. E non solo: recitò, dipinse, costruì paralumi, scolpì, fece la modella, disegnò abiti, e brevettò invenzioni. Tutto questo era inaccettabile. In un paese provinciale, era accettabile che una donna si esprimesse come un genio solitario, o che fosse una bellezza, ma non che fosse una bella intellettuale e una persona creativa a tutto tondo. Gli abitanti del Village rispettavano l’esclusività artistica. Loy non rispettava tali confini e dedicò la sua sarcastica Apologia del genio a quelli che
ci voltano addosso le glabre facce da idioticome un culo denudato in sberleffi aborigeni…
A ben guardare, quella che aveva chiamato “apologia” non lo era affatto. Reclamava che i geni fossero esentati dal giudizio:
Le nostre volontà si modellanosopra bizzarre discipline
al di là delle vostre leggi…
Subito dopo il suo arrivo negli Stati Uniti, Loy tenne la sua prima lettura pubblica. William Rose Benét, Maxwell Bodenheim, Padraic Colum e William Carlos Williams si unirono a lei sull’ammezzato del Grand Central Palace in occasione della Giornata della poesia indipendente. Molti del pubblico si presentarono per curiosità, non solo per ascoltare ma per osservare. Chi era questa Mina Loy? Era davvero la grande bellezza descritta dai pettegolezzi? Le sue poesie erano veramente strane quanto sostenevano le persone che facevano circolare riviste dagli improbabili nomi come «Trend», «Rogue», e «The Blind Man» prima della sua esibizione?
Quando Pound introdusse per primo Mina Loy ai lettori americani, descrisse il suo verso come autenticamente americano. «Queste giovani» disse di Loy e Moore hanno scritto «qualcosa che non sarebbe potuto arrivare da nessun’altra nazione». Pound era insincero sulla nazionalità di Loy. Sicuramente sapeva della sua origine inglese. Ma aveva un punto. Loy non era mai appartenuta all’Inghilterra, e il suo lavoro non vi era mai stato pubblicato. Quello che Pound non poteva sapere era che l’America, il paese adottato da Loy, non l’avrebbe mai adottata a sua volta.
Ottant’anni dopo, un editore si trova a dover nuovamente introdurre Loy ai lettori americani per la prima volta, e trova che molte delle stesse domande di allora continuano a essere poste. Da un punto di vista metrico, quale effetto stava ricercando, ammesso ve ne fosse uno? Quanto consapevolmente stava sbeffeggiando la tradizione lirica? Quanto intenzionalmente ne distorceva il dettato? Stava volontariamente tracciando una sottile linea di disastro prosodico, solo per salvarsene volta dopo volta all’ultimo momento, come una ballerina dotata di un talento naturale e tendenze dionisiache, per farci comprendere che il disagio può essere un effetto desiderato, poiché nella sua risoluzione – la ripresa – è in grado di fornire maggiori tensione e sollievo, e richiede più attenzione di una grazia eseguita in maniera prevedibile?
Oggi affiorano anche nuove domande. Della lettura di quali poeti di preciso fece profitto? Cos’è che la rende indigesta ai compilatori del canone? Sapeva con quanto anticipo il suo linguaggio stava assaltando la fortezza della divisione sessuale? Come distinguiamo un tentativo di seduzione da un’affermazione di autorità? Fu lei a condurre l’avanguardia all’adozione di una parvenza di femminilità trasgressiva come principale mascheramento? E quella che penso sia la vera domanda: si trovò mai davvero a casa nella lingua inglese? Fu una poetessa americana? E quanto controllo ebbe sulla pubblicazione di Lunar Baedeker? Altre domande sono affrontate da Loy stessa in un testo da poco riscoperto Sulla poesia moderna.
La pubblicazione di questo libro significa che Loy ha una possibilità di emergere dall’oblio.
La pubblicazione di questo libro significa che Loy ha una possibilità di emergere dall’oblio. Ma per poterla leggere con cognizione di causa, dobbiamo non solo superarne l’abbandono ma anche la leggenda. Potrebbe risultare più difficile, perché la leggenda ha il suo modo di insinuarsi sopra l’oblio. Editai l’opera di Loy per la prima volta nel 1982. In quel momento la sua pubblicazione sembrava più una missione che un’occasione editoriale. Lunar Baedeker circolava già al modo di una stretta di mano iniziatica, faceva già da tempo parte del mito Loy. Mito che prende forma da numerose fonti, alcune messe in circolazione da lei stessa: i diari di una giovane ribelle cresciuta in una casa vittoriana, che disertò per unirsi alla vita intellettuale della bohéme francese e al Futurismo italiano; le memorie dei contemporanei che la descrivono come una seduttrice caparbia, intransigente e arguta che abbandonò due bambini con una tutrice a Firenze per recarsi a New York, e che tornò, due anni dopo, incinta di un marito scomparso, solo per sparirsene nuovamente; la morte di due bambini, le immagini della sua passione con un poeta-boxeur che sarebbe in seguito diventato santo patrono per i dadaisti, e la sua successiva ricerca tra camere mortuarie e prigioni messicane; le storie di una vedova solitaria che seguiva il Cristianesimo scientista e presiedeva sedute spiritiche in un affittacamere sulla Bowery; la mostra organizzata dal suo vecchio amico Marcel Duchamp nel 1959, che esponeva beatifiche visioni di oziosi vagabondi ricavate dalla spazzatura. Tutte queste storie non dovrebbero elevare né diminuire l’opinione che abbiamo della statura di Loy in quanto poeta. Innanzitutto, però, è necessario che la sua poesia venga esaminata a livello testuale.
Mina Loy non è per tutti. Non è un caso che il suo lavoro sia stato malconsiderato. «Difficile» è la parola che è stata più spesso usata per descriverla. Difficile come poeta e come persona. Sicuramente difficile da collocare. La sua opera non ha mai attratto lettori casuali, è più semplice ignorarla. Fino a oggi, la determinazione necessaria a «trovare» le sue poesie, tralasciando la perspicacia necessaria a «leggerle», hanno assunto il ruolo di un’esperienza distintiva. Ma i suoi lettori, anche se numericamente scarsi, hanno supplito in impegno e fedeltà. Una volta scoperte, se non provocano immediato rigetto, le sue poesie operano una possessione. Molto più facile che il suo lavoro diventi un farmaco o un veleno – presto rigettato o gradualmente acquisito come un’abitudine per la vita – che un interesse passeggero.
Nella mia esperienza personale, e in quella di molte persone con cui ho condiviso la sua opera nel corso degli ultimi vent’anni, le sue poesie o si inscrivono a fondo nell’immaginazione, oppure alienano. Con Loy non esistono vie di mezzo. Non è una poetessa intellettuale, ma le sue poesie appartengono all’intelletto. Per leggerla con profitto, occorrono almeno quattro cose: pazienza, intelligenza, esperienza e un dizionario.
Si accetta Loy – o non lo si fa – come si prende un voto. Tende a essere presa a cuore o evitata. Nessuno la considera «decente». È oppositiva, è antimetrica, e di certo «indecente». I suoi primi lettori la reputarono tale, e molti lettori odierni fanno altrettanto. Ne diventi un fedele o un immediato nemico. La poesia di Loy ha gradualmente allevato una comunità di studiosi, ma è anche stata d’aiuto a definire le fazioni di una guerra poetica piuttosto reale. In anni recenti la sua poesia ha cominciato a registrare una positiva accoglienza critica come non succedeva dagli anni Venti; è una novità. Ma rimarrà sempre un gruppo che non la riceverà. Ci obbliga a schierarci, e lo schieramento più semplice è ignorarla. Va bene così, perché penso che, infine, sarà la sua opera a stabilire la reputazione dei critici più che il contrario, e che un’onesta discussione su Mina Loy sia incominciata. Questa discussione è necessaria. Non c’è versione del canone del Ventesimo secolo che includa il lavoro di Mina Loy, tuttavia è in qualche modo sopravvissuta. Forse la sua assenza da simili compilazioni è una forma di status. Forse fu suo stesso desiderio rimanerne emarginata.
Non è concesso a tutti
Essere desiderati.
Come scrisse una volta su «The Blind Man»: «L’arte è la beffa divina, e qualsiasi pubblico… può capire uno scherzo semplice come il sole». Dedicò il suo Lunar Baedeker non al sole ma al suo fantasma. È proprio oggi, mentre il sole sta sorgendo sul secolo, che la sua guida alla luna appare più indispensabile. Quanto ancora suona strana la sua voce. E quanto disturbante.
Penso esistano delle guide che dovremmo portare con noi, e il libro di Mina Loy sia una di queste. Penso che le sue poesie siano rilevanti nella formazione di una nuova modernità, e che lei debba ancora provare di essere stata il poeta del proprio secolo, come Duchamp dimostrò di esserne l’artista. Per alcuni di noi lo è già.
New York, 1996
Un estratto da The Lost Lunar Baedeker (Rina edizioni, 2022).