Abbiamo chiesto ad alcuni amici e collaboratori de Il Tascabile di curare dei percorsi di lettura: romanzi, saggi, memoir, film, documentari che esplorano e approfondiscono un tema a loro scelta. Dato il numero di adesioni, lo abbiamo diviso in quattro “episodi” al cui interno troverete libri che spaziano dall’evoluzione al concetto di tempo, dalle camere di hotel all’autofiction, dalle distopie ai problemi del presente. Questa è la prima. Buone vacanze e buona lettura!
Camere d’albergo
di Sara Marzullo
Scrive Joanna Walsh in Hotel: niente accade mai davvero nelle camere d’albergo, nessuna tragedia, solo tempo che scorre uguale a se stesso. Nel suo saggio racconta di quando recensiva suites, lobby e camere doppie pur di non dormire a casa: il suo matrimonio stava finendo e il suo appartamento non faceva che ricordarglielo. Se il significato originale di hotel è quello di “casa, palazzo privato”, questo termine, col tempo, ha finito per indicare un altro tipo di alloggio, temporaneo, transitorio. Joanna Walsh vuole scrivere di hotel non perché desideri una nuova casa, ma, piuttosto, una forma più alta di oblio.
Alcuni hotel forniscono ancora penne e quaderni dove prendere appunti: che altro fare, se non scrivere, quando si è lontani da tutti? Dispacci dal confino: come quelli di Joan Didion, in The White Album, bloccata, col marito e la figlia, al Royal Hawaiian Hotel di Honolulu da un terremoto che potrebbe provocare un’inondazione dell’isola. Dunne accende la televisione e evita lo sguardo della moglie, Didion scrive: di come stiano cercando di salvare il matrimonio, di come l’hotel provveda a fornirgli una settimana in cui il tempo non sembra scorrere. Quando possono scendono nella spiaggia privata, che non sembra differire dalle altre se non per il fatto che è recintata, a creare un senso di appartenenza tra gli ospiti dell’albergo, e che ogni mattina viene rastrellata, una pratica il cui senso non è del tutto chiaro.
Le persone si chiudono nelle stanze per risolvere i loro problemi o per sfuggire allo sguardo degli altri: Max Frisch e Lynn si spostano da New York all’Overlook Hotel di Montauk perché la loro avventura erotica assomigli a qualcosa di più, come se portarla qui, in un hotel fuori stagione, permettesse loro di sovrapporre la nostalgia al desiderio e trasformare questa storia in materiale da cui attingere per anni. Dice Lynn non ho vissuto con te come materiale letterario, ti proibisco di scrivere di me, ma è una frase troppo bella per non avere il sospetto che l’autore l’abbia romanzata.
Anche Inganno di Philip Roth è un testo che gioca con i limiti stessi dell’invenzione letteraria: è una mise en scene tra uomo e una donna che, a letto, parlano di amore, tradimento, dei rispettivi matrimoni. Letteralmente: niente di più simile a un testo teatrale, ma d’altra parte le camere d’albergo sono come il palcoscenico di un teatro, dove la finzione è palese; bastano un letto e una abat-jour a far dire questa è una stanza. Succede anche in Tre camere a Manhattan, dove, nel Lotus Hotel, Combe e Kay entrano da sconosciuti e, stanza dopo stanza, trasformano una recita in realtà.
Simenon è uno specialista di camere d’albergo: nel Hotel des Voyageurs non descrive viaggiatori, ma un uomo e una donna colti nella calma post-coitale. Non solo tutto era vero, ma era anche reale: lui, la camera, Andrée ancora distesa sul letto, sfatta, nuda: quando Andrée chiede a Tony se vorrebbe passare tutto la vita insieme a lei, lui risponde di sì, ma il suo assenso vale solo entro quelle pareti. Quando la loro relazione lascia La camera azzurra per entrare nel mondo, allora arriva il dramma, il tempo della storia.
(Forse Walsh sbaglia: gli hotel sono luoghi di tragedie. È il caso de Il tuffo di Jonathan Lee. O dei suicidi, degli esili: Cesare Pavese, Syd e Nancy, Luigi Tenco, e ancora, ancora.)
Ci chiudiamo qua dentro per fingere di essere qualcun altro: potremmo conquistare una città una camera alla volta, come Il nuotatore di Cheever, essere Zelda e Francis, giovani e bellissimi al Plaza, Vera e Vladimir Nabokov al Palace Hotel di Montreux, Patti Smith e Robert Mapplethorpe al Chelsea Hotel. O forse sono Leonard Cohen che scrive una canzone per dirti che non ti pensa più così spesso.
Geoff Dyer ci scrive un saggio: ne Il sesso nelle camere d’albergo racconta di come tutto qui sembri garantire l’equivalente morale dell’immunità diplomatica; dalla pulizia, al candore degli asciugamani, al letto che occupa gran parte dello spazio, tutto è un invito alla trasgressione.
Non a caso, nelle mie ricerche sui libri ambientati negli hotel, mi rendo conto che c’è tantissima letteratura erotica su questi luoghi: probabilmente sono gli stessi libri che poi finiscono nelle sale lettura degli hotel, letti distrattamente a bordo piscina o nelle attese. Chissà se invece al Barbizon Hotel di New York tengono una copia de La campana di vetro: oltre a Sylvia Plath, vi hanno soggiornato, in ordine alfabetico, Lauren Bacall, Ann Beattie, Joan Crawford, Joan Didion, Liza Minelli, Eudora Welty.
Ho visto un video girato al numero 12 di Place Vendome: qui è morto Chopin, che, secondo Wayne Koestenbaum, autore di Hotel Theory, impersona, più di tutti, lo spirito di questi luoghi transitori, perché il suo lavoro ha qualcosa di indefinito, di estraneo: d’altra parte, non si abita mai davvero negli hotel, vero Therese? Poi ho messo su i Nocturnes, perché è soprattutto vero che gli hotel si pensano sempre e solo di notte, stanze illuminate e profili che guardano fuori dalle finestre. Inizia così Stanza 411 di Simona Vinci, con una donna avvolta in un accappatoio bianco che, in stanza, fuma una sigaretta, mentre aspetta un uomo che non conosce ancora.
La stanza 411 è quella dell’Albergo Nazionale, Piazza di Montecitorio, Roma. Ci sono passata mille volte di fronte, ma non ho idea di come sia dentro. Leggo che il bagno è bianco e scintillante e che la donna è nella stanza, ancora in attesa.
Evoluzione
di Amedeo Balbi
Due tra i libri più interessanti che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni li ha scritti un giovane professore di storia dell’Università Ebraica di Gerusalemme, Yuval Noah Harari. Entrambi parlano di noi, del nostro passato e di cosa potrebbe riservarci il futuro. Insomma, la vecchia storia del chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo.
Il primo si chiama semplicemente Sapiens (inspiegabilmente tradotto alla prima uscita in italiano Da animali a dei: poi per fortuna ci hanno ripensato). L’idea è semplice: raccontare in circa 400 pagine l’intero cammino dell’umanità, dalla rivoluzione cognitiva che più o meno 70000 anni fa ha dato inizio alla storia culturale della nostra specie, fino a oggi. Un’idea tanto semplice che potrebbe sembrare scontata, e magari perfino superflua: quante volte ci avranno già provato? Eppure uno inizia a leggere il libro e non riesce più a smettere. Un po’ perché le cose che racconta Harari, anche quelle già note, sono organizzate in modo efficace, semplice, leggibile, con una visione d’insieme che ti dà la sensazione di cogliere un movimento complessivo. E un po’ perché ci sono molti dettagli messi a fuoco in modo illuminante al momento giusto, e giusto il tanto che serve. È il tipo di libro in cui ti capita spesso di fermarti e pensare: questo lo sapevo già, ma non lo sapevo così. Per esempio, dice Harari: il successo di Homo sapiens sta tutto nel fatto che è l’unica specie a vedere cose che non esistono né a livello soggettivo (come le sensazioni) né a livello oggettivo (come le cose materiali), ma solo a livello intersoggettivo – cose cioè che esistono solo perché ci crediamo in tanti, come il denaro, o i diritti umani, o Dio. Sembra un’idea ovvia, e ci saranno pure fior di studi accademici che la sviscerano in tutti i dettagli e in profondità: ma il punto è osservarla nel quadro complessivo. E in questo, nell’indicarti dove e cosa guardare, Harari è straordinario. Insomma, alla fine hai la sensazione di aver fatto ordine tra cose che conoscevi un po’ confusamente, di aver imparato molte cose che avevi trascurato o ignorato e, soprattutto, di aver visto emergere collegamenti nuovi e insospettati.
Cosa importante: rispetto ad altri tentativi simili, Harari dà il giusto peso alla scienza e alla tecnologia, i veri motori del cambiamento e del successo della nostra specie da qualche secolo a questa parte. Questo tema, che attraversa la parte finale di ‘Sapiens’, diventa cruciale nel secondo libro di Harari, Homo Deus, uscito da poco. Qui l’impresa è più complicata e incerta: provare a immaginare dove ci porterà il movimento intuito osservando la nostra storia passata. Tutto sembrerebbe andare nella direzione del superamento della nostra specie: o perché diventeremo qualcos’altro – ibridi uomo-macchina con facoltà e poteri assimilabili a quelli di divinità – o perché verremo cancellati dalle stesse super-intelligenze artificiali che avremo creato per migliorarci la vita. Un quadro cupo, dal nostro punto di vista: ma l’esercizio che Harari implicitamente ci invita a fare è esattamente quello di relativizzare, di vedere la nostra epoca come una delle molte fasi di una storia più lunga, governata da meccanismi impersonali. E di considerare il paradigma dell’umanesimo liberale che orienta oggi le nostre azioni come uno dei tanti utili miti su cui abbiamo fondato un momentaneo ordine condiviso. Una religione, insomma, che potrebbe lasciare il posto ad altre così come è già accaduto molte volte in passato. E poi, c’è il fatto che fare previsioni, di per sé, altera il corso delle cose. Il che spiega il finale aperto, le domande che Harari ci lascia alla fine, come se volesse dirci: quello che vi ho raccontato è un futuro possibile, ma c’è ancora qualcosa di essenziale da capire, un ingrediente che ci sfugge e che rimetterebbe in gioco tutto quanto. Forse dobbiamo aspettarci una terza puntata.
Esplorazioni
di Alessandra Castellazzi
Secondo una credenza nepalese, al centro del mondo si trova un monte altissimo, di nome Sumeru, circondato da otto mari e otto montagne, sparsi in modo uniforme intorno al globo. “Impara di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?”, è la morale che accompagna la leggenda. Attorno a questa domanda ruota Le otto montagne (Einaudi, 2017), il romanzo di Paolo Cognetti vincitore del Premio Strega di quest’anno. I protagonisti sono due amici d’infanzia: Pietro vive a Milano e trascorre tutte le estati in un paesino ai piedi del Monte Rosa, complice la passione dei genitori per la montagna; lì incontra Bruno, un coetaneo che fa una vita molto diversa dalla sua, divisa tra la cura degli animali e le estati in alpeggio. I due stringono un’amicizia che durerà tutta la vita: fatta inizialmente di esplorazioni dei sentieri intorno al villaggio, del torrente, delle baite abbandonate per poi spingersi fino ai ghiacciai e ai loro crepacci che non si sa dove portano. Con gli anni le loro esplorazioni si allargano sempre di più. Quelle di Pietro si estendono in modo orizzontale – cambia città, poi sogna l’Himalaya – mentre Bruno si butta in un’esplorazione verticale, d’intensità, della sua montagna. “Impara di più chi fa il giro delle montagne o chi arriva in cima al monte Sumeru?”
Al giro delle montagne c’è chi preferisce quello degli oceani, in cerca dell’onda perfetta. Giorni Selvaggi di William Finnegan (66th and 22nd, 2016), vincitore del Premio Pulitzer per la biografia, è un memoir che fa sognare di mari lontani, avventure di gioventù, amicizie simbiotiche e una passione totale come quella dell’autore per la tavola da surf. Cresciuto tra la California e le Hawaii, Finnegan racconta la sua infanzia da apprendista delle onde, divisa tra lo studio ossessivo delle correnti d’acqua del suo surf spot preferito e la dolorosa cura della propria tavola, del proprio corpo, del proprio orgoglio dopo ogni sessione. Nella parte centrale del libro, Finnegan parte con l’amico Bryan di Salvatore (entrambi futuri scrittori al New Yorker) in cerca dell’onda perfetta. Un pellegrinaggio che inizia nei mari del Sud – dove fanno la prima grande scoperta: Tavarua, ai tempi un’isoletta disabitata delle Fiji, oggi un resort che accoglie surfisti professionisti – per poi proseguire in Australia, Indonesia, Giava e infine il Sud Africa. Oltre a un talento per il surf, Finnegan sembra avere quello di trovarsi nel posto giusto al momento giusto: è in California nella summer of love, in Sud Africa quando iniziano i moti di protesta contro l’Apartheid, a San Francisco quando scoppia l’epidemia di AIDS. E soprattutto ha il talento d’intrecciare ricordi, racconti, tecnicismi, riflessioni, paure ed estasi con la sinuosità di un’onda e l’equilibrio di chi la cavalca.
Infine, una guida di viaggio che guida di viaggio non è, ma piuttosto una raccolta dei luoghi più strani sulla Terra. Atlas Obscura. Guida alle meraviglie nascoste del mondo di Joshua Foer, Dylan Thuras e Ella Morton (Mondadori, 2017) è un librone pieno di mappe, fotografie e illustrazioni che raccoglie su carta quei luoghi eccentrici e sconosciuti che dal 2008 hanno fatto il successo della rivista online. Qualche esempio: una cittadina fantasma in Namibia, un tempo abitata da minatori e ora invasa dalle sabbie del deserto, la Grotta delle Lucciole in Nuova Zelanda, che con il suo soffitto illuminato dagli insetti fa invidia a un’attrazione di Gardaland. Poi ancora un tempio che sembra progettato da Escher in India e una collezione di nasi in Svezia. Basta sfogliarlo per aver l’impressione che non tutte le esplorazioni appartengono al passato; e soprattutto, che siano incredibilmente a portata di mano.
Letteratura e vita
di Andrea Zanni
Guardando ai libri letti negli ultimi mesi, non posso ignorare che molti potrebbero ascriversi all’etichetta “Letteratura e vita”, o quella che molte librerie, orribilmente, chiamano autofiction.
A volte sono libri che nascono da una sola esperienza, che l’autore ripercorre e riprende, intrecciandola in un’unica storia che unisce letteratura e biografia. Altre volte le esperienze e le storie sono multiple, la narrazione è sfaccettata, il ritratto che ne viene fuori più complesso, plurale. Le storie partono dal vissuto o vi giungono alla fine, e nuove storie e racconti nascono per gemmazione.
In ordine casuale, ne consiglio un po’ (tre Einaudi, due Adelphi, un Quodlibet/Humboldt):
Emmanuel Carrère, Propizio è avere dove recarsi (Adelphi, 2017): Carrère fa Carrère, ma è un Carrère prima di Carrère, un ritratto dell’artista da giovane, meno famoso. Un mosaico di interviste, reportage, articoli, che illustrano spezzato il volto dell’autore più auto-affezionato degli ultimi anni.
T.H. White, L’astore (Adelphi, 2016): il futuro scrittore de La spada nella roccia si ritira a vita privata, in campagna, per addestrare un falco. Fuori imperversa la seconda guerra mondiale, dentro imperversa la guerra fra uomo e animale, fra due orgogli e sguardi inflessibili e nobilissimi. Lingua rapace e fulminante, ne avete facilmente letto un po’ dappertutto, le recensioni entusiaste avevano tutte ragione.
Giorgio Vasta, Ramak Fazel, Absolutely nothing, (Humboldt/Quodlibet, 2016): Vasta è nomen omen, scrive di deserti americani come se fosse nato per quello. Libro certamente non facile, illustrato e puntellato dalle fotografie di Ramak Fazel, che ne arginano un poco lo spaesamento e il senso di vertigine. La scrittura di Vasta spesso deraglia, vaga raminga ma poi torna sempre, ritrova il suo baricentro, la strada che aveva momentaneamente perso. A suo modo, un libro da mare e da montagna, di interminati spazi e sovrumani silenzi.
Chiara Valerio, Storia umana della matematica, (Einaudi, 2016): cronologicamente Chiara Valerio, prima di diventare organizzatrice della Fiera del libro di Milano, era una bravissima scrittrice, e prima ancora era una talentuosa matematica. Il libro intreccia diverse biografie di matematici, poco conosciuti ma non per questo meno importanti, con la vita di Valerio stessa, ed è un libro bello e leggero, che parla poco di matematica (ahimè) ma un sacco di matematici, degli uomini dietro i numeri.
Michele Mari, Leggenda privata, (Einaudi, 2017): Michele Mari, o dell’usare la letteratura per lottare contro i propri demoni. Libro spaventoso per lingua e per immagini, il gusto dell’horror di Mari è qui sguinzagliato e liberissimo, a iscrivere con gli artigli un lessico familiare fatto soprattutto di silenzi e grugniti. L’infanzia di Michele è stata certamente sanguinosa, e credo che Enzo Mari (leggendario designer e nemesi dell’eroe) potrebbe tranquillamente ambire ad un premio come “Miglior Cattivo” nella classifica libraria del 2017.
Primo Levi, Il sistema periodico, (Einaudi, 1976): ecco, Primo Levi è un autore che io avevo ingiustamente dimenticato, relegato a lettura da scuole medie (che poi, alle medie Se questo è un uomo mi aveva molto impressionato ed era diventato il mio libro preferito, per cui questo oblio è davvero ingiustificato). Ogni capitolo prende il nome da un elemento chimico, e racconta una storia: a volte il giro è piuttosto largo, ma tutto torna sempre, come in un esperimento ben condotto. La prosa pacata di Levi (chiarissima, semplice, di un nitore abbagliante, ma non troppo) è una benedizione e un balsamo per questi tempi complicati.