A bbiamo chiesto ad alcune persone che gli sono state vicine come amiche, come suoi autori, o anche solo come lettrici e lettori, un ricordo di Gino Giometti, che ci ha lasciato di recente. Rileggendo i testi prima di inviarli per la pubblicazione abbiamo l’impressione che non ci sia alcuna parola di circostanza. Speriamo che basti a farci perdonare da Gino per questo omaggio collettivo in sua memoria. Non amava apparire. Ma proprio non si poteva fare a meno di notarlo. (Daniele Giglioli, Manuel Orazi)
Silvia Ballestra
Ho conosciuto Gino quando era il cugino filiforme di una mia studentessa. Aveva quell’aria vaga, di una vaghezza leopardiana, lui e il suo avvenire, sembrava stare non proprio in piedi, ma solo sfiorare la terra come certi coleotteri che esitano ad alzarsi in volo.
L’ho ritrovato, senza mai averlo del tutto perso, voluminoso e pallido, addossato ai libri che offriva in una fiera fiorentina. Senza averlo perso perché da anni, di quando in quando, mi capitavano fra le mani i suoi libri esigui, pallidissimi, di un’eleganza che sembrava innata. Finché, un anno fa, mi ero abbonata e li ricevevo, inaspettati e bellissimi.
Era diventato, silenziosamente, un grande editore, con il suo socio Danni Antonello. I grandi editori non sono quelli che viaggiano tronfi a vendere e comprare, ma se ne stanno fermi in piccole o medie città, che percorrono a volte in bicicletta, anche quando girano il mondo. Si capisce che sto pensando a Scheiwiller. O al grandissimo Kurt Wolff, di cui la Giometti e Antonello pubblicarono la storia, forse la più avventurosa, tragica, magica storia di un editore, che andò da Lipsia a Mardach passando da un gulag francese, Nizza, Firenze, New York.
La sua città d’elezione, Macerata, Gino invece se la dormiva e i libri uscivano dai suoi sogni.
Ora, ogni tanto, ugualmente inaspettato, si formerà un vuoto, del libro non ricevuto, che non saprò immaginare ma solo rimpiangere.
Come mi è sempre accaduto con Gino. E accadrà a lungo anche a lui, di riapparire, non con un ricordo, ma una nostalgia.
Ginevra Bompiani
Gino Giometti e l’educazione alla bellezza
Gli esordi editoriali di Gino Giometti, prima nella Quodlibet nel 1993, con Bartleby, la formula della creazione di Gilles Deleuze e Giorgio Agamben, e poi con la Giometti-Antonello nel 2015, con Memorie di un editore. Kafka, Walser, Trakl, Kraus e gli altri di Kurt Wolff, collocano questo raro e unico editore, nonché traduttore e filosofo, sin dall’inizio, tra gli epigoni dell’editoria italiana, coloro disposti a scommettere in modo esclusivo, non su cosa il lettore reputi che bisogna leggere, ma su libri che, a prescindere, un buon editore ritenga che “il pubblico debba leggere”, per usare una formula del suo amato Kurt Wolff. Ogni decisione editoriale, spesso controvento, era per Gino un confronto e una necessità che protendeva, con coraggio e dignità, verso “una caparbia educazione alla bellezza”, come l’ha definita Trucillo su Il manifesto nei giorni scorsi; da raffinatissimo e poliedrico intellettuale ha saputo portare nel panorama editoriale italiano un momento di profonda riflessione.
Adrián N. Bravi
Per settimane, l’ho visto passare nella biblioteca del dipartimento di Filosofia dove allora studiavo. Come una antica divinità greca era circondato dall’aura della sua fama: aveva fondato una casa editrice che pubblicava libri che avevano reinventato l’idea di eleganza editoriale e scritto un libro che avevo divorato. Lo conobbi un pomeriggio d’inverno, restammo ore a parlare e da allora diventammo inseparabili per anni. A lui debbo moltissimo: fu lui a suggerirmi di studiare il tedesco, fu lui a farmi scoprire Hölderlin, Trakl o Heidegger, fu lui a spingermi con insistenza a scrivere, fu lui a introdurmi a quelli che diventarono amici comuni, fu lui a rappresentare per anni il mio personale riferimento. La religione greca aveva coniato una parola speciale per quello di cui Gino è stato un inarrivabile maestro: iniziazione. È sempre necessario che qualcuno ci introduca all’oggetto da conoscere: abbiamo bisogno che qualcuno ci prenda per mano, porti il nostro sguardo distratto sui contorni della cosa, e ci permetta infine di vederla, sentirla, assaggiarla. Il mondo non è mai conoscibile per sé: c’è sempre qualcuno che lo apre davanti a noi, lo nomina, lo rende finalmente esperibile. Gino aveva il dono di trasformare la sua amicizia in una iniziazione alle primizie del mondo. E ha fatto dell’esigenza di fare di ogni amicizia uno spazio di iniziazione, il nuovo nome e il nuovo senso di un antichissimo mestiere: l’editore.
Emanuele Coccia
Quando mi è arrivata la notizia del veloce ricovero di Gino era circa un mese che volevo telefonargli perché per una serie di accertamenti partiti per caso era saltato fuori che anni fa, in qualche momento, avevo fatto un infarto e nel giro di pochi giorni mi hanno operato al cuore suggerendo che in qualsiasi momento potevo morire. Mentre a me sembrava di star benissimo. Volevo telefonargli perché avevamo una sensibilità per la vita simile e decisamente non salutista. Avevamo anche quella che credo si possa chiamare la ricerca di una continua piccola euforia fatta di amici, belle idee, aria aperta, tavolini e muretti, e vino e sigarette. Negli ultimi anni ci sentivamo spesso anche perché eravamo entrambi rimasti allibiti dal fatto che una democrazia avesse preso l’iniziativa di lasciare a casa per mesi senza stipendio chi non si allineava, cosa che ci sembrava il possibile inizio di qualcosa di orrendo e decisamente orrendissimo soprattutto perché eravamo pochissimi in Italia a sentirlo così orrendo. E quando dicevi in giro quello che pensavi c’era sempre qualcheduno che ti dava anche le sgridatine da fascistellini di sinistra del cazzo. Anche se queste telefonate di comune inveire poi svirgolavano sempre sulla bellezza di qualche pagina di Buchner o di qualche riga di Deleuze perché non bisogna lasciar affogare la propria testa nei pensierini piccoli dei cretini.
Ugo Cornia
Che Gino abbia fatto un percorso culturale di primissimo livello costruendo un catalogo raffinato, curioso e germogliante in tutte le sue avventure editoriali mi pare del tutto evidente. Penso che siano altri, ben più qualificati di me, a doverlo descrivere nel dettaglio e, detto tra noi, credo che andrebbe proprio fatto, magari superata l’emotività e questa grande tristezza che proviamo tutti ora.
Pur volendomi trattenere lontano da ogni sfumatura polemica che sarebbe fuorviante rispetto ad una figura così spiritosa, di intelligenza vivace, così altro da ogni miseria che queste discussioni spesso ombreggiano, io non riesco a non chiedermi ogni volta come e dove sia finita la nostra cultura, quella che dovrebbe essere con la C maiuscola per tradizione, mezzi, contatti, dove sia finita la nostra imprenditoria culturale in questi anni per non aver voluto vicino a sé una figura così straordinaria. Anche nei risultati se vediamo quanto sia divenuto centrale, prestigioso e imprescindibile il catalogo Quodlibet in diverse discipline. Ripeto, fuggendo da ogni polemica e sapendolo persona anche molto restia a certi riti, centrato nel suo percorso e nella sua Heimat adottiva, ma come non vedere l’abisso di questo tempo proprio nella distanza che separa questi gioielli che Gino ha saputo costruire con la Giometti&Antonello, unendo pietre preziose una in fila all’altra, dal troppo poco che rincorre spesso il nulla perpetuato dei grandi nomi, dalle scelte “ufficiali” che altro non raccontano se non che il nostro Paese sia oramai culturalmente marginale da anni.
Giovanni Damiani
Distopia dell’infermità
Tra-secolo nei secoli all’indietro
e nel presente ri-vivo in cuore tetro
ogni atto che tra-suda tutto in sangue
colposa-mente in corpore che langue
avanti-indietro fino a vile noia
mentre è disteso il sonno del gran boia
(e nel tritume temporale spare
il cercatore di verbarie rare
ma luccica il setaccio in riva al mare)
(il testo è stato scritto a ridosso della scomparsa di Gino.
Parte da lontano il dolore: dall’orrore della scena del mondo.
La figura dell’amico si manifesta esplicitamente nella parte
conclusiva, tra parentesi, come a difenderlo dal tritume in atto.
“verbarie”, vorrebbe contenere l’insieme della sua ricerca editoriale,
accurata e selettiva. Il riferimento “al mare” è il ricordo dell’incontro
con lui, con tanti fogli in mano da addomesticare, a pochi metri
dalla riva, dove il figlioletto si bagnava sotto gli occhi di Milena.
A scanso di equivoci, in quel tempo l’infermo ero io, mentre sentivo lui come una roccia).
Eugenio De Signoribus
Gino Giometti era prima di tutto un libraio-editore. Forse perfino l’ultimo di quelli che mantenevano intatta una lunga tradizione nata con l’invenzione della stampa: la tradizione di colui che edita e stampa i libri ma nello stesso tempo li vende o li fa circolare. Perché il libro, per lui, non era un semplice oggetto; era un talismano, un tesoro, una formula il cui potere magico doveva essere in grado di resistere a tutte le distruzioni del presente. Era di quelli, in altre parole, che consideravano il libro come una cosa sacra. A questa sacralità aveva votato il più elegante e il più discreto dei culti: quello che non si preoccupa di altra usanza o cerimonia che non sia il lavoro, il gusto, e una certa idea, generosa ed esigente, dell’amicizia. Il suo culto del libro era un culto senza chiesa, ma i cui santi, spesso moderni, spesso attraversati dagli scossoni del Ventesimo Secolo, si riconoscevano per la sobrietà del loro atteggiamento e per l’altezza della loro prosa. Sono onorato di esservi un giorno stato ammesso.
Laurent de Sutter
Succedeva alla fine d’una frase, pronunciata con leggerezza a dispetto del rigore di ciò che era detto: solo un baleno muto e poi una risata schietta, baldanzosa. Quella fragorosa vitalità mi sorprendeva sempre: come fosse una rete lanciata a raccogliere il resto, ciò che nella conversazione si stava tralasciando. Gino affidava il significato degli incontri al tono della voce, alla timidezza del sorriso, a quella risata. Sebbene abbia l’impressione che si avvicinasse alle cose e alle persone misurandone la distanza, sapeva poi dare alloggio da lontano, come un albergare nella lontananza (che ci ha insegnato senza dare lezioni).
Le sue pagine eleganti, un ottemperare al pensiero di un’epoca senza curarsi dei canti civettuoli delle sirene, rimandano alla parola, ai suoi significati e al loro traghettamento da una lingua all’altra – e sarà un ardito dimenticare farne a meno. Ma a voler essere lettori della sua opera dobbiamo volgere lo sguardo ai titoli, a quella costruzione che sono i libri che Gino ha pubblicato: un corpus importante, uno dei maggiori lavori editoriali degli ultimi anni, che è anche la realizzazione di quel che Gino stesso scriveva licenziando Kurt Wolff, il primo titolo della Giometti&Antonello: l’editore deve trovare il coraggio di riproporsi come guida. Avis rarissima, ai nostri tempi. L’ultimo suo libro è una raccolta di Dylan Thomas, dove fra parole di rovine e macerie e tempi oscuri fanno capolino versi luminosi: Sono venuto a prendere la vostra voce… mi piace pensare che con il suo lavoro, una dura fatica riscattata dalla leggerezza, Gino è venuto a darci la nostra voce.
Marco Filoni
Ho conosciuto Gino Giometti 20 anni fa, quando era il socio di Stefano Verdicchio in Quodlibet.
Fin dai primi momenti ho avuto l’impressione di essere di fronte a uno dei migliori editori della mia generazione: intelligente, attento, con grande senso dell’umorismo; un’eleganza di pensiero che traspariva abbastanza facilmente a chi aveva la fortuna di fare la sua conoscenza. Dico fortuna perché Gino non anelava alla notorietà, preferiva le situazioni raccolte, l’intimità delle parole e delle frequentazioni.
Per una decina di anni ci siamo visti spesso, soprattutto alle fiere editoriali di provincia (a Trieste, Modena, Piacenza, Belgioioso), incontri d’élite ai quali venivamo trascinati dalla verve di Manuel Orazi.
Metteva attenzione a ogni cosa che veniva detta e non aveva remore a dire quando una frase gli sembrava fuori tema, o fallace, e si capiva che applicava lo stesso metro e rispetto anche al lavoro editoriale, con scelte sempre raffinate e di grande visione letteraria.
Una sua frase poteva dare nuova luce a come guardare un problema, a come risolverlo, e la sensazione di vuoto dopo la sua scomparsa non mi lascia.
Andrea Gessner
Se Gino Giometti mi avesse parlato di un suo progetto di aprire insieme a Stefano Verdicchio una casa editrice di nome Quodlibet a Macerata, o, anni dopo, di volerne aprire un’altra, sempre a Macerata, insieme a Danni Antonello, avrei risposto in entrambi i casi: impossibile. Nichilismo giovanile, scetticismo senile, pessimismo cosmico, poco importa. Invece erano entrambi possibili, e anzi tra quanto di più reale l’editoria italiana abbia prodotto in questo paese, che sguazza come i suoi cosiddetti grandi editori in mezzo a un’irrealtà, a un’usurpazione di esistenza di cui nella migliore delle ipotesi non è consapevole. Se siamo qui per ricordare Gino è anche perché tra le tante cose che gli dobbiamo c’è anche l’insegnamento che, se non tutto è possibile, l’asticella tra ciò che si può e ciò che non si può immaginare e praticare ce la poniamo sempre troppo in basso, da soli, come avrei fatto io che per fortuna non fui interpellato e quando ripenso a Gino mi propongo sempre di far meglio un’altra volta.
Daniele Giglioli
Ho pubblicato con Gino il mio primo libro. Inizialmente era un quaderno di immagini, stentati disegni che si aggrappavano a un vuoto lontano. La struttura del pensiero l’ha vista lui, mi ha insegnato una forma di aderenza alle parole che non ho più lasciato, e che non ho finito di capire, come una pratica della vita, lezione di Gino sulla letteralità. Rideva in corrispondenza di cose molto sottili. L’ho visto quasi sempre a Macerata, tranne alcune volte a Venezia. Quando l’ho conosciuto abitava all’ultimo piano del teatro nella sala di prova delle ballerine classiche, con specchio su tutta la parete e sbarra, poi dopo un breve periodo nella casa greca, nel giardino pensile con Milena e Milo. Ho passato molto tempo alla libreria di Danni, che mi teneva da parte la poesia visiva, prima sede della Giometti & Antonello, Gino lavorava sopra, nella piazza c’erano Milo piccolo, Agata e i cani. Nella nuova libreria sotto ai portici di Corso Matteotti, le vetrine composte di libri ritrovati, accostati con visionaria precisione a quelli pubblicati da lui, sono specchi del tempo ad ampio orizzonte. Da quelle vetrine ha dato un contributo essenziale all’intelligenza del paese in una delle sue fasi più ottuse, quella della propaganda pandemica, operando per la “salvezza del senso delle parole” (Armand Robin, L’indesiderabile, 2018), a qualunque costo.
Margherita Morgantin
Ho incontrato poche volte Gino Giometti ma ho presente da decenni la sua attività di studioso e di editore. Della prima posso solo ribadire quanto insigni specialisti hanno già detto circa l’intelligenza e il rigore intellettuale, della seconda ho invece esperienza diretta quale lettore e collaboratore della sua casa editrice. Se penso infatti ai libri stampati con il marchio di Giometti & Antonello mi viene in mente una celebre “degnità” del Vico secondo cui verum et factum reciprocantur seu convertuntur: è l’incontro o anzi la reciprocità di filologia e filosofia che nel caso di Gino costituivano un tratto nativo, il quale orientava e disciplinava le sue scelte, quei libri bianchi senza essere gelidi (l’impronta, la partenogenesi da Quodlibet qui era ben visibile), quelle curatele precise, essenziali (nemiche tanto delle glossolalie accademiche quanto di apparati reticenti à la Adelphi), infine quelle scelte editoriali versatili senza mai essere eclettiche dove, per rimanere ad alcuni titoli maggiori, Kn di Carlo Belli può convivere con i Quaderni della Kolyma di Varlam Salamov o con le poesie disperatamente beat che compongono Allergia di Massimo Ferretti. Tale è il segno non soltanto della sua personale libertà di intelletto ma di una vera e propria civiltà editoriale.
Massimo Raffaeli
La traduzione era per Gino Giometti la «risposta a un’urgenza essenziale», e forse la cifra della sua persona. Nel modo di pensare e praticare la traduzione, nel modo in cui le due cose, spesso così distanti, con lui andavano assieme, c’era una forma di etica e una fonte di indefettibile eleganza. Gino ha saputo offrire cura e dimora alle parole degli altri, accompagnandole nel cammino tra epoche e pagine lontane, nella metamorfosi da una all’altra lingua. Nei testi che aveva scritto o meditato, nei libri pubblicati quelle ampliavano la loro esistenza, non più esauste o esaurite sollevavano il capo, spesso rivelavano tratti nuovi, senza mai lasciarsi addomesticare. E a volte si dava un’aria di famiglia tra lui e le pagine delle sue versioni: nei silenzi, negli stupori e nelle risate di Gino c’era a tratti l’incanto dei personaggi di Robert Walser, come quel giovane che «non ha nulla» e si spaura per l’indecifrabile bellezza delle creature. Ma Gino, anziché abbandonarsi al pianto come quel giovane, ha saputo portarci ad ascoltare le voci del mondo.
Marco Rispoli
“Quando la filosofia dipinge il suo grigio su grigio,” scrisse Hegel, non potendo sapere che i volumi dell’edizione tedesca delle opere di Heidegger avrebbero avuto un bel grigio chiaro. Di quel “grigio su grigio” si è preso carico con passione e ostinazione anche lo studioso heideggeriano (e non solo), editore e traduttore Gino Giometti. E se “la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo”, Gino di solito arrivava a piedi verso sera, al calar del sole, nella sua libreria, le cui pareti sono dipinte di un bellissimo grigio più scuro, ispirato dalla copertina, nascosta sotto la sopraccoperta, de L’opera in versi di Osip Mandel’štam, edita della sua casa editrice (2018). Arrivava tardi, sì, per chiacchierare con gli amici, per ridere, o forse meglio, per sghignazzare? A questo proposito, si potrebbero fare sue le parole di Georg Büchner: “Mi chiamano un derisore. È vero, io rido spesso; ma non rido di come è un determinato uomo bensì soltanto del fatto che egli è un uomo, cosa alla quale già a priori egli non può rimediare, e quindi rido di me stesso perché anch’io condivido il suo destino.” (Lettere, 1831-1837, Giometti & Antonello, 2021). E veniva per lavorare, ma anche per discutere e perfino quasi litigare a lungo alfine di trovare la parola più adatta in italiano per qualche termine tedesco, oppure meglio, per pescarla, perché Gino si dilettava nella pesca e era amante del mare. Infatti, non l’ho mai visto più sereno che nelle serate passate con lui al mare! Come racconta un dirimpettaio della libreria, quel lavoratore solitario e notturno aveva “qualcosa di confortante, quando verso le undici mi affacciavo alla finestra e vedevo quell’uomo con il cappello che stava lì”.
Reinhard Sauer
So che dovrei scrivere questo ricordo di Gino in inglese, ma non mi viene naturale scriverlo inglese, visto che lui rideva in quei rari momenti quando per caso ero costretto a parlare inglese nella sua presenza. Però parlare italiano nella sua presenza era una sfida perché con una coscienza così lucida e poetica come quella di Gino, ogni frase diventava un pensiero ben pensato e raffinatissimo, misurato. Gino si esprimeva con estrema cautela, portando l’interlocutore in un lungo e delizioso viaggio per la selva, verso la casa di pan di zenzero. (pazienza Beatrice…). Chi se ne fregava se magari ci fosse stata una lupa selvaggia sotto le coperte con una papalina in testa.
La prima volta quando incontrai Gino eravamo ambedue studenti a Siena. L’incontro ebbe luogo al canto dell’abside di San Biagio a Montepulciano. C’era un oratorio credo di Benjamin Britten in corso. Gino portava dei pantaloni, una specie di “dungarees”… ma erano turchesi di colore e una camicia con quadri rossi e neri. Se non avessi io il minimo di ritegno, l’amicizia sarebbe stata rovinata in poco tempo, persino quella notte stessa.
Ma invece sfioriva una relazione che ben presto diventò fondamentale per la mia vita. Mi ricordo quando gli feci ascoltare un concerto per pianoforte di Mozart, numero 21, credo. L’espressione sul suo viso, l’incanto per il miracolo di quella musica e ascoltandola con Gino poi fece parte della mia DNA. “L’amante platonico” ci chiamavamo all’epoca dolcemente accompagnati da quella canzone di Bruno Martino, Estate mentre passavamo per le viuzze di Siena di notte. Entro poco tempo Gino conosceva già tutte le parole, assurde che siano. Per lui l’assurdo andava vissuto, forse per questo era così tollerante ed aperto alle idee non sue. Lui ne aveva a sufficienza
Che privilegio è, averlo conosciuto, Gino. Rimarrà con tutti coloro che lo conoscevano e lo amavano. Non è andato via.
Wilhelm Snyman
Sul bordo di una finestra, in controluce, appariva come accartocciato, tanto che non riuscivo a distinguerne i lineamenti. Stavo entrando nell’aula dove si sarebbe svolta la lezione che avremmo seguito insieme. Fu un attimo ed era in piedi con la sua figura area. Mi ha chiesto il nome. Elettra, ho risposto, e una risata è esplosa. Oggi non riesco a trattenermi dal ridere insieme a lui a ripensarci. Le sue risate non erano provocazioni o modi per schermirsi, come spesso, ho notato in seguito, pensavano alcuni. Direi piuttosto che l’indicibile degli incontri trovava così un suono. Il nucleo di estraneità che è al cuore delle lingue si apriva un varco in quel riso. Forse solo la traduzione, così come Gino l’ha praticata e pensata, gli ha reso possibile fare esperienza di questo passaggio. Una pratica quasi gnostica, di chi non si sente mai veramente a casa. Come editore ha saputo coltivare al meglio questo esercizio, con un tipo di costanza che non conosce il ritmo del giorno e della notte, una caparbietà a volte smisurata, fino a trovare tregua per testi inquieti nella sobria eleganza dei suoi libri.
Elettra Stimilli