L a prima volta che leggi lo Zhuangzi ne esci smagliante, tutto quello che ricordi sono immagini dal significato ignoto, che però non dimenticherai mai: un volatile immenso che sorvola gli oceani, una tartaruga soprannaturale con settantadue fori nel guscio, vecchi saggi che ridono ai funerali, vecchi pazzi che delirano, foreste che cantano, un brigante anarchico che umilia Confucio, un macellaio che taglia la carne seguendo linee invisibili, un uomo che fugge dalla propria ombra e un’ombra che parla con la propria ombra. Ti sembra di aver imparato qualcosa ma non sapresti dire cosa: “Ciò che Vostra Signoria sta leggendo sono solo fantasmi e resti decomposti di persone vissute molto tempo fa.” (Tutte le citazioni sono adattate da Chuang Tzu (Zhuangzi), a cura di Shantena Augusto Sabbadini, Feltrinelli 2017).
La seconda volta che leggi lo Zhuangzi ti annoi, distingui le parti buone dalle cattive, senti il peso della distanza temporale e culturale, ti volano in faccia frasi esasperanti da più di due millenni fa: “vagare nell’illimitato” – “ecco cos’è la fama: umiliare gli altri” – “la via dei santi oscuri, dei sovrani senza trono” – “la somma felicità è la mancanza di felicità” – “sii ineluttabile” – “compiango gli uomini che perdono sé stessi, ma compiango anche chi compiange gli altri uomini, e compiango più di tutti chi compiange quelli che compiangono gli altri”. Non capisci più cosa ci trovavi, ti sembra un guazzabuglio di assurdità.
La terza volta che leggi lo Zhuangzi ti concentri sul secondo capitolo, che si chiama “I flauti del cielo” (sono quelli che fanno cantare le foreste) e ti pare adesso la cosa più perfetta che sia mai stata scritta, una porta verso il regno incantato dove l’immaginazione più sognante e la razionalità più cristallina, spose, regnano nell’armonia, ti metti a prendere appunti, cosicché forse magari chissà, a forza di ripeterli un giorno anche tu avrai spontaneamente quei pensieri, ti senti un albero con la chioma all’ingiù e le radici nelle nuvole. Il giorno dopo rileggi gli appunti: “le passioni linguistiche – ma nessuno governa il corpo nessuno governa le parole nessuno distingue sé dagli altri – Wang Ni non sa nulla – ogni animale ha la sua distinzione tra bene e male eccetto l’essere umano perfetto – sogni nei sogni e le discussioni non servono – Sāmsazǐ sognò di essere una farfalla e quando si svegliò era un gigantesco insetto”.
Adesso Maestro Zhuang continua a ridere di te perché ti ama così tanto da respingerti. Possiedi abbastanza senno da non leggere lo Zhuangzi una quarta volta?
No. La quarta volta che ho letto lo Zhuangzi è perché ho sparlato a giro del fatto che avevo letto lo Zhuangzi tre volte, e qualcuno si è convinto che di conseguenza ne devo avere qualcosa da dire, e perciò mi hanno invitato a scriverne. Niente di che, mica un trattato, un semplice pezzo per l’online che potrebbe tranquillamente apparire senza infamia e scomparire senza lode. Mi pagano cento euro. Che problema c’è?
Nella sua Storia della filosofia occidentale, Bertrand Russell sostenne che un libro andrebbe letto due volte: la prima per comprendere e assorbire, la seconda per giudicare e criticare. Non so quante volte abbia letto lo Zhuangzi, credo almeno mezza, dato che di Zhuangzi, protagonista dello Zhuangzi, fa un accenno in The Problem of China (1922) come di un filosofo “sostenitore della libertà” dotato di un umorismo così sottile che persino un aristocratico inglese lo trova understated. Accenno sbrigativo ma accurato. Io, che di Russell non ho né l’intelligenza né i blasoni, più rileggo il classico cinese, meno lo capisco. Questo è il problema.
L’unico approccio sensato, per questo che non vuole essere altro che un omaggio e un invito alla lettura, è imitare questo libro inimitabile lasciandoci portare alla deriva.
Per fortuna, capisco almeno il motivo per cui non riesco a capirlo: la sua radicale e inaggirabile contraddittorietà rispetto all’universo di valori e pratiche di ciò che nel linguaggio dello Zhuangzi si chiama “riti e musica”, e che noi chiamiamo “cultura”. Così alieno che scriverne mi sembra allo stesso tempo un tradimento del testo (se mi metto nei panni dell’ammiratore di Zhuangzi) e un esercizio fine a sé stesso, futile (se mi metto nei panni di lettore e autore di “pezzi”).
L’unico approccio sensato, per questo che non vuole essere altro che un omaggio e un invito alla lettura, è allora imitare questo libro inimitabile lasciandomi portare alla deriva dai suoi meandri discorsivi:
“Chi parla senza parole, pur tacendo per tutta la vita parla; chi non tace mai, pur parlando per tutta la vita non dice nulla”.
Un rapido inquadramento dell’opera. È uno dei testi fondanti della tradizione filosofica e religiosa daoista. Zhuangzi ( 莊 子 ) significa “Maestro Zhuang”. A volte lo trovi scritto Zhuang Zhou, o Chuang Tzu o addirittura, in era fascista, Ciuangzè. Il titolo ufficiale nel canone daoista è La Vera Scrittura di Nanhua, ma nessuno lo chiama così, perché nessuno sa cosa fosse Nanhua, che alla lettera significa “fioritura meridionale”, e indica forse una città di cui si è persa memoria.
È un testo totalmente disorganico. Secondo il consenso dei sinologi, fu composto, nelle sue parti più antiche, intorno al 300 a.C., e compilato seicento anni dopo, da fonti eterogenee, per mano di Guo Xiang, bibliotecario di corte nel periodo della dinastia Jin. Una sorta di collettanea, o antologia di microtrattati, sentenze, dialoghi e brevi narrazioni, che si sviluppa attorno a un nucleo abbastanza coeso di sette Capitoli Interni, i quali sono tradizionalmente attribuiti a Maestro Zhuang in persona. Seguono, di qualità mediamente peggiore, quindici Capitoli Esterni, e chiudono gli undici Capitoli Misti.
Lo si pensi come uno scavo archeologico. Nella zona centrale si trovano i reperti più profondi, cioè più antichi, ma allontanandosi dal centro lo scavo è sempre meno sistematico, si ferma a strati più recenti, dove a frammenti ancestrali si mescolano strutture di epoche successive, a loro volta decadute. Fotografa quindi insieme la nascita di una tradizione e il suo perpetuarsi e trasformarsi nel corso dei secoli, fino a giungere, nelle parti finali, alla riflessione su sé stessa: vi si trovano analisi critiche dei capitoli precedenti, e in chiusura il racconto della morte dello stesso Zhuang, cioè del presunto autore della parte iniziale del libro. Il tutto intessuto da vari prestiti e rimandi da altri testi della tradizione, in particolare dal Daodejing e dal Liezi, spesso senza che sia possibile determinare qual è l’originale e quale la citazione.
Si pensi al libro come a uno scavo archeologico: nella zona centrale si trovano i reperti più profondi, cioè più antichi, ma allontanandosi dal centro lo scavo è sempre meno sistematico.
Nei secoli la fortuna dello Zhuangzi ha avuto grandi oscillazioni, da testo sacro a libro proibito, con ogni possibile gradazione intermedia. Il ventesimo secolo è stato uno dei momenti di bassa, dalla feroce parodia di La vera storia di Ah Q (1921) del modernista Lu Xun, dove il non-agire taoista diviene una maschera di ipocrisia e servilismo; fino alla Rivoluzione Culturale, quando il mero sospetto di “zhuangzismo” poteva condurre ai campi di lavoro. A partire dagli anni Ottanta è stato rivalutato e oggi molti autori cinesi gli pagano omaggio, anche se non credo che andrebbero molto lontano se sposassero anche il suo estremismo, in particolare contro la tecnologia (capitolo 12: “Dove ci sono macchine ci sono problemi meccanici; e dove ci sono problemi meccanici ci sono menti meccaniche … Conosco la macchina di cui parli, ma mi vergognerei di servirmene”). Va bene, mi dirai, ma di che parla questo libro? Una prima approssimazione andrebbe così: parla di come vivere nell’ineffabile.
Ma arriviamoci per gradi, iniziando dalle basi: a cosa serve parlare? Secondo Zhuang, a nulla. Anzi, parlare è dannoso, non solo per la mente, ma anche per il corpo. Il motivo per cui le persone muoiono è che parlano:
[Gli uomini] restano appiccicati a tutto ciò che incontrano. Giorno dopo giorno il loro spirito si riempie di conflitti, negligenze, segreti. I piccoli timori creano ansia; i grandi timori inebetiscono. Si lanciano come frecce a stabilire il giusto e lo sbagliato. Si attaccano alle proprie opinioni come se fossero vincolati da un giuramento. Difendono accanitamente le loro vittorie verbali. E come l’autunno si volge nell’inverno, così si indeboliscono e giorno per giorno si consumano. Sprofondano nelle loro abitudini senza ritorno. I loro rancori sono sigillati. Le loro parole scavano fossati. Il loro cuore si incammina verso la morte e non c’è modo di farli tornare verso la luce.
In questo sintetico romanzo di autodistruzione intellettuale (la traduzione di Sabbadini lo fa quasi somigliare a uno dei “piccoli romanzi fiume” di Giorgio Manganelli), la condizione dell’essere umano smarrito nei concetti è raccontata come una spirale degenerativa. Se uno si gratta la zona punta da una zanzara, poi deve continuare a grattarsi. Allo stesso modo, le emozioni innescano opinioni e reazioni, che una volta fuoriuscite dalla bocca assumono un’esistenza autonoma e un peso. È come se morissimo schiacciati sotto il cumulo di tutte le cose inutili che abbiamo detto.
Letto oggi, può sembrare che parli delle persone che “giorno dopo giorno” si dibattono nelle piattaforme auto-tumulandosi sotto il tonnellaggio delle loro personalità digitali. In realtà, i discorsi a cui fa riferimento Zhuang sono i dibattiti filosofici della sua epoca, caratterizzata politicamente da frammentazione e guerre continue (Periodo degli Stati Combattenti) e intellettualmente dall’intenso fervore e molteplicità di approcci delle cosiddette Cento scuole di pensiero (che non erano scuole e non erano cento, ma tradizionalmente si chiamano così), che gettarono le fondamenta della cultura cinese classica. Il problema principale degli intellettuali cinesi era come ristabilire l’ordine, ma non c’era accordo sui mezzi. La proposta più radicale fu quella daoista, così estrema che forse suonò già ai contemporanei come uno scherzo beffardo: la causa del disordine nel mondo sono gli stessi tentativi di portare ordine.
La prima cosa da fare è dunque, per dirla con Italo Calvino, smettere di dare fiato alle trombe. Ma non basta sottrarsi ai dibattiti e ammutolire per liberarsi dai “timori”. Prima di tutto perché gli altri ti vengono a cercare. Vari episodi sono dedicati a chiarire che la posta in gioco è la propria testa o quando va bene i piedi e le mani (tipica condanna politica di quell’era): “Longfeng fu decapitato, Bigan fu sventrato, Changhong fu smembrato e Zixu fu costretto a suicidarsi. Tutti e quattro erano uomini di virtù, ma non poterono evitare di farsi ammazzare.”
Il saggio deve scappare, nascondersi, scomparire:
Zhuangzi stava pescando nel fiume Pu, quando il re di Chu gli inviò due ministri con questo messaggio: ‘Il nostro re vorrebbe coinvolgerti nell’amministrazione dello Stato’.Zhuangzi continuò a pescare senza degnarli di uno sguardo. Poi disse: ‘Ho udito che in Chu c’è una tartaruga magica, morta da tremila anni. Il re la tiene in uno scrigno collocato in un luogo elevato nel tempio dei suoi antenati, avvolta in un panno ricamato. Pensate che questa tartaruga preferisca essere venerata come una preziosa reliquia o che preferirebbe essere viva e trascinare la sua coda nel fango?’.
I due ministri risposero: ‘Preferirebbe essere viva e trascinare la sua coda nel fango’.
‘Andatevene,’ disse Zhuangzi. ‘lasciatemi qui a trascinare la mia coda nel fango’.
Ma nemmeno trascinare la coda nel fango o andare a vivere in una grotta è sufficiente. Ci si perde e si muore anche dialogando solo con sé stessi, come capita al taciturno ma internamente furioso ingegner Ivo Brandani in La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro, il cervello divorato da un’ameba.
Ampliare la conoscenza dell’universo e aggiungere protesi tecnologiche non può alterare il posto che la natura ha assegnato a un essere vivente.
Ma nemmeno smettere completamente di pensare, se fosse possibile, ci porterebbe la salvezza, perché la radice più profonda del problema non risiede nel pensiero in sé, quanto nella limitatezza di punto di vista che in quanto umani, condividiamo con tutti gli esseri viventi. Il primo capitolo, “Vagabondaggi liberi e senza meta”, è un percorso immaginifico, attraverso rappresentazioni fiabesche e mitologiche, verso la comprensione di tale condizione.
“Nel nord nudo e desolato c’è un oceano profondo, detto il Lago del Cielo. In esso c’è un pesce che misura nessuno sa quante migliaia di miglia. Il suo nome è Kun”. Gli animaletti (quaglie, cicale, faine), non credono all’esistenza di simili esseri portentosi. Ciascun animale, e l’uomo tra questi, ha la propria dimensione, pertanto vede e tocca certe cose e non altre, e costruisce le sue gerarchie in base alla sua posizione. Ampliare la conoscenza dell’universo e aggiungere protesi tecnologiche non può alterare il posto che la natura ha assegnato a un essere, perché quel posto dipende da quanto è grande il suo corpo, da quanto a lungo può vivere, e dai modi di respirare, mangiare e muoversi che il suo corpo gli consente. Non solo: quella posizione, che sia di un albero, di un insetto o di un umano, muta continuamente. Se anche fosse possibile gettare lo sguardo sull’insieme di tutti i rapporti, ciò che si fissa in un istante può non valere in quello successivo, e dando tempo al tempo sicuramente non varrà più:
Il germe della vita opera secondo un meccanismo misterioso. Quando i semi cadono nell’acqua diventano il cavolaccio. Quando cadono al confine fra acqua e terra diventano il ‘mantello di rana’. Quando nascono sul pendio diventano plantano. Quando il plantano cresce su un terreno ricco diventa il ‘piede di corvo’. Le radici del ‘piede di corvo’ diventano larve di Mimela lucidula, mentre le foglie diventano farfalle. Le farfalle a loro volta si trasformano in quegli insetti che nascono sotto la stufa della cucina e che sembrano aver appena deposto il loro guscio, detti quduo. Dopo mille giorni il quduo diventa un uccello di nome ganyugu. La saliva del ganyugu genera lo simi, il quale diviene la madre dell’aceto, yilu. L’insetto yilu nasce dall’insetto huangguang, che a sua volta nasce dal jiyou, che nasce dalla zanzara, che nasce dalla lucciola, che è generata dal yangxi. Se lo yangxi sta vicino a un germoglio di bambù, a lungo andare il germoglio di bambù si trasforma nel qingning, il quale genera il leopardo, che genera il cavallo, il quale a sua volta genera gli esseri umani. L’essere umano alla fine ritorna al meccanismo misterioso.
Tutto è fissato in sé stesso – una larva di Mimela lucidula è una larva di Mimela lucidula –, e allo stesso tempo tutto si trasforma incessantemente in altro. Le parole sono come fotogrammi: fissano uno scorcio, lasciando fuori tutto ciò che resta fuori dal quadro, e comunque tra poco sarà cambiato anche l’oggetto inquadrato. Come se non bastasse, se l’immagine vale quel che vale, non è al sicuro nemmeno chi regge la videocamera:
Una volta Zhuang sognò di essere una farfalla. La farfalla svolazzava lieta e spensierata e non sapeva di essere Zhuang. Improvvisamente si svegliò e si accorse con stupore di essere Zhuang. Ora non sapeva più se era Zhuang che aveva sognato di essere una farfalla o se era una farfalla che stava sognando di essere Zhuang. Eppure Zhuang e una farfalla dovrebbero essere due cose diverse! Questa si chiama la trasformazione degli esseri.
Questo passo è il più famoso del testo, probabilmente lo hai già incontrato anche se non hai letto il libro. (Io per dire ci arrivai attraverso il frammento 74 del Libro dei sogni di Borges). Citato ovunque, se letto fuori contesto si tende a sovrapporvi un’inquietudine tipicamente occidentale: il dubbio se la realtà sia davvero reale oppure una menzogna. Non è affatto questo il punto. Intanto perché dalla possibilità che questa realtà non sia che il sogno di un sogno non deriva alcuna inquietudine, ma anzi un sereno svolazzare che si riverbera al risveglio; ma soprattutto perché quello che vi si afferma, se non tralasciamo l’ultima frase, è che tra Zhuang e la farfalla c’è in ogni caso, per quanto inverosimile o addirittura inconcepibile, unità nella differenza. In termini odierni: la differenza tra due coscienze non è più grande di quella che separa la veglia dal sonno.
Citato ovunque, se letto fuori contesto si tende a sovrapporvi un’inquietudine tipicamente occidentale: il dubbio se la realtà sia davvero reale oppure una menzogna.
Approfondiamo questa distanza concettuale ed emotiva. Il confronto più immediato è con l’esperimento mentale di Cartesio del demone che altera tutte le percezioni facendomi credere di vivere in questo mondo quando invece esisto in un altro. La risposta di Cartesio è che il fatto stesso di pensare riconduce le esperienze di tutti i mondi possibili a un identico pensiero. Dentro il pensiero, qualsiasi cosa succeda al livello dei sensi, la costruzione razionale troverà un concetto coerente e completo di Dio, e da questo la propria tranquillità. Senza andare a verificare la solidità filosofica della proposta, questo punto di vista segna la fine di ogni possibilità di trascendenza. Che sia Dio o un demone dispettoso, il contatto con lui è sempre e solo indiretto: la pellicola dei sensi mostra solo i riflessi della paranoia che sia tutto una menzogna.
Ma Cartesio è un termine di confronto ancora troppo distante. Prendiamo una concettualizzazione più vicina alla nostra sensibilità: La metamorfosi di Kafka. Della quale Cartesio avrebbe forse detto che è un esempio di demone dispettoso. Personalmente, ho una teoria che non è possibile giustificare in poco spazio, altro che segnalando la documentata dimestichezza di Kafka con la letteratura cinese antica. Quindi la metto qui come una chiacchiera da bar: secondo me La metamorfosi fu ispirato al racconto di Zhuang e della farfalla. C’è una corrispondenza invertita tra il caso di Zhuang e quello di Gregor Samsa: il saggio cinese sogna di essere un insetto e si sveglia uomo, l’impiegato praghese sogna chissà cosa e si sveglia insetto. In entrambi i casi la trasformazione è perfettamente reale e ciò che chiamiamo sogno non è altro che il ricordo di una realtà precedente: “non è un sogno” è il primo paletto che Gregor mette alla sua nuova vita di insetto.
L’esito è di segno opposto – la farfalla svolazza spensierata, lo scarabeus sacer che è Gregor crepa nella sua stanza – per un motivo lineare: Kafka, da moderno, pur lontanissimo dal razionalismo cartesiano, non crede in quella porosità tra mondi – che pure intimamente sente – che invece rallegra il vecchio Zhuang. Perciò Gregor a lungo non cessa di preoccuparsi per i doveri umani a cui non può più ottemperare; mentre Zhuangzi esalta l’irresponsabilità. Perciò la colpa degli umani di Kafka è intrinseca nell’essere uomo, mentre per i daoisti la colpa risiede nel cercare di stabilire una legge non prevista dallo stato di natura, e comunque impossibile. L’ascesi kafkiana si pratica attraverso lo studio, il recupero di ciò che è dimenticato, la veglia vigile (Walter Benjamin nel saggio su Kafka in Angelus novus: “[i suoi studi] sono molto vicini a quel nulla che solo rende servibile il qualcosa, e cioè al tao. È esso che Kafka perseguiva”. Quella daoista dimenticando ciò che si sa perfino sul significato delle parole, e sognando allegramente.
Osservando le scimmie nei documentari, e la vita perlopiù placida che conducono, mi sono chiesto spesso come mai, noi che siamo i loro parenti genetici più prossimi, siamo invece così soggetti alla frenesia e alla violenza. C’è chi le imputa al senso di colpa per aver iniziato iniziato a mangiare carne (cfr. la discussione sul mito di Orione in L’ardore di Roberto Calasso). Ma è una spiegazione che non mi convince, perché quella dubbia impresa già implicava un animo decisamente inquieto, che già si era industriato per affinare metodi e armi di caccia, e per rendere digeribile la carne, cuocendola. No, il peccato originale dev’essere stato l’espansione delle capacità cognitive (memoria, immaginazione, astrazione) che segna la nascita della nostra specie, seguita a stretto giro dall’apparizione del pensiero simbolico, e poi dal linguaggio.
Se bisogna sedersi in silenzio e solitudine, è per arrivare a percepire e comprendere che nessuno dei modi con cui conduciamo la nostra vita è necessario, e tantomeno è così solido e inamovibile come avevamo creduto.
È la consapevolezza delle possibilità a gettarci nel rovello continuo: possibilità rispetto alla determinazione di ciò che è reale tra le molte opzioni compatibili con l’esperienza; possibilità rispetto alla scelta di come agire. Il frutto del linguaggio è ambiguo: da un lato la parola amplia vertiginosamente lo spettro delle possibilità, dall’altro funge da filtro riduttore, perché retroagisce sulla cognizione modellando le esperienze in base alla loro espressione verbale. Il linguaggio è quindi insieme un operatore di ulteriore ansia e smarrimento (cfr. l’idea della mania come impazzimento del linguaggio in Lacan – il quale, peraltro, commentò, sbagliando tutto, il sogno della farfalla in Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi), e un potente fattore unificante ed emolliente, soprattutto quando è associato a operazioni rituali di fissazione e ripetizione.
L’effetto negativo della cultura diagnosticato da Zhuangzi sta tutto nelle conseguenze di questo uso compensativo del linguaggio. Il suo ritorno alla natura non è un ritorno allo stato animale, ma l’individuazione di una strada che l’umanità avrebbe dovuto prendere e si è lasciata sfuggire: una vita dedicata all’uso libero delle proprie facoltà cognitive. Libero dalle vertigini che sono innescate dallo stesso susseguirsi di domande, ipotesi, previsioni; e libero da quel manto di protezione a doppio taglio, come la tunica avvelenata che uccise Ercole, che è la cultura.
Tutto ciò dunque non implica affatto una rinuncia all’uso del linguaggio, dell’intelligenza, della capacità di fare. Se bisogna sedersi in silenzio e solitudine, è per arrivare a percepire e comprendere che nessuno dei modi con cui conduciamo la nostra vita è necessario, e tantomeno è così solido e inamovibile come avevamo creduto.
Va bene, mi dirai, ma quindi? Cosa fa uno dopo aver abbandonato le distinzioni ed essendo così sfuggito alla morte? Incontra l’ineffabile:
“Lo stato in cui l’altro e il sé non trovano più il loro opposto è detto il cardine del Dao.”“Il Dao non può essere descritto né come essere né come non-essere. Lo chiamiamo Dao solo per indicare il cammino.”
Qui sono in difficoltà. Siamo in un pezzo per l’online e quindi non posso metterci una paginata di lambicchi metafisici. Ma proviamo. Cerco una fessura per entrare facilmente tra le masse di discorsi complicati, come il buon macellaio di Ding (“Quando arrivo a un punto difficile, mi fermo, guardo attentamente, e poi affondo il coltello lentamente, con delicatezza. Ed ecco che la carne si apre come una zolla che cade a terra.”).
Ecco, forse: ma perché mai astenersi dall’agire dovrebbe garantire l’immortalità? Questa è facile: perché tutto ciò che esiste ha una funzione, e una volta che l’ha portata a compimento si dissolve. Muore. Perciò le cose inutili durano più a lungo, com’è più volte esemplificato dall’albero storto e nodoso che non viene abbattuto perché col suo legno non ci si può fare niente. Al limite, un essere perfettamente inutile non morirà mai.
Se è corretto affibbiare allo Zhuangzi l’etichetta di testo mistico, bisogna concedere che non vi è alcuna vicinanza con il sentimento del sacro che siamo soliti associare all’ambito mistico.
Nel corso dei secoli, il daoismo arrivò a elaborare una sorta di alchimia del corpo umano, postulando la capacità del saggio di trasmutare, attraverso il distacco e l’assunzione di elisir di cinabro (solfuro di mercurio) e altri elementi, la carne viva in elementi imperituri, fino al termine ultimo del corpo di diamante. Il principio soggiacente è la dottrina della “trasformazione degli esseri” che abbiamo incontrato nell’aneddoto della farfalla ed è ascrivibile a una delle cento scuole che non erano cento e non erano scuole, la Scuola dello Yin e dello Yang. Tutto si muta nel suo opposto: la luce nelle tenebre, il pieno nel vuoto, il vero nel falso, il vivo nel morto, ecc. Perché sia possibile il mutamento, è necessario che un germe del termine opposto sia presente già nel momento di massima evidenza del termine iniziale. Il famoso “simbolo del Dao” (in realtà si chiama taijitu) richiama proprio a questa dinamica.
Fin qui la faccenda sembra abbastanza banale, ma se fosse come sembra, non si capirebbe l’insistenza di Zhuang nel sottolineare la difficoltà di capire come il bianco sia nel nero e viceversa. Il fatto è che queste opposizioni non sono delle semplici contraddizioni logiche: la luce può emergere solo dalla tenebra, e solo in essa inabissarsi. Una figura può apparire solo se si staglia su uno sfondo, e uno sfondo è tale solo se vi si staglia una figura. E così via. Tale dialettica coinvolge tutto ciò che esiste. Ma – qui viene il passo che porta alla soglia del comprensibile – tutte queste opposizioni sono tra un primo termine attivo, evidente, percepibile e un secondo termine passivo, nascosto, invisibile. Il buio è una presenza che però si manifesta solo come assenza di luce. Il vuoto appare come luogo del pieno. Al limite estremo, ciò che non esiste è manifestato – in negativo – da ciò che esiste. Seguire il “vero” Dao significa accordarsi fisiologicamente e mentalmente con tale realtà. Zhuang raccomanda inoltre di non fasciarsi la testa per capirla meglio, dato che non può essere compresa: ogni nuova concettualizzazione non farebbe altro che portare in evidenza un suo aspetto per nasconderne un altro. (Qui è dove sarebbero appropriati i consigli di lettura: Estetica del vuoto di Giangiorgio Pasqualotto e Storia del Taoismo di Isabelle Robinet).
Può sembrare strano o forse no, ma lo Zhuangzi non offre istruzioni particolareggiate su come diventare tutt’uno col Dao. Il momento che più si avvicina a una indicazione di metodo è al termine del capitolo 6:
Yan Hui disse: ‘Faccio progressi’.
Confucio gli chiese: ‘Cosa intendi dire?’.
‘Siedo e dimentico ogni cosa’.
Confucio si stupì e chiese: ‘Cosa intendi dire con Siedo e dimentico ogni cosa?’.
‘Dimentico le mie membra, allontano l’intelletto, abbandono il corpo, lascio andare la conoscenza, mi unisco alla Grande Armonia’.
Qui si entra nell’ambito della meditazione, che non è il mio, e quindi non ho molto da dire. Resta che nello Zhuangzi la pratica meditativa è soltanto accennata (altrove parla di “respiro profondo” che “sale dai talloni”), ed è molto più frequente vedere il saggio cavalcare nuvole, migrare, deridere avversari e potenti. Forse erano tecniche troppo segrete per essere scritte, o forse quelle tecniche furono inventate, secoli dopo, interpretando liberamente il senso di questi passi. Non lo sappiamo. In ogni caso, se è corretto affibbiare allo Zhuangzi l’etichetta di testo mistico, bisogna concedere che non vi è alcuna vicinanza con il sentimento del sacro che siamo soliti associare all’ambito mistico. Il suo Dao è certo misterioso, ma nel suo mysterium non c’è niente di tremendum: il clima emotivo è quello della gioia gratuita, della nostalgia, della commiserazione e del senso del ridicolo.
Ziqi di Nanguo sedeva appoggiato a un bracciolo, guardando il cielo e sospirando come se avesse perso la sua amata. Yancheng Ziyou, ritto al suo fianco per servirlo, gli disse: ‘Cos’è questo stato?’.
… Ziqi disse: ‘… Tu hai udito i flauti degli uomini, ma non ancora quelli della terra. O forse hai udito i flauti della terra, ma non ancora quelli del cielo … Il respiro della terra è il vento. A volte riposa, ma quando si sveglia, diecimila bocche gridano furiosamente. Hai mai sentito l’urlo del vento? Nelle foreste montane ci sono alberi immensi, con una circonferenza di cento braccia, con aperture e cavità come nasi, come bocche, come orecchi, come tazze, come mortai, come pozzi, come laghi. Quando il vento soffia, tutte queste aperture urlano, sospirano, chiamano, ruggiscono, ululano. Gli alberi più esposti intonano un canto, quelli che stanno dietro rispondono. La brezza provoca un sussurro; la tempesta una sinfonia gigantesca. E quando il vento si acquieta, tutte le cavità tornano vuote e silenziose. Hai mai visto questa agitazione, questo tremore?’
Ziyou disse: ‘I flauti della terra sono dunque queste aperture e i flauti degli uomini sono fatti di canne di bambù. Permettimi di chiederti di cosa sono fatti i flauti del cielo.’
Ziqi disse: ‘I flauti del cielo suonano diecimila diverse melodie, ma ciascuna di esse si produce da sé. Pensi che qualcuno diriga questa spontanea armonia universale?’.