I l ragazzo coi capelli lunghi, gentile, fortemente improfumato, che viveva qui nel casamento col padre e faceva saltuari lavori di imbianchino, adesso si è unito alla gente senza casa seduta sulle soglie dei negozi chiusi. Per un po’ ci siamo salutati, poi ha smesso di rispondermi, poi ho smesso di salutarlo, perché ho capito che si vergognava. Che fine vuoi che faccia, qui nell’idiozia grigia e depressa di questi casamenti, svaccato al riparo dei balconi doo Stradone, se non buttarsi sulla Peroni di base o sul Tavernello? L’altro giorno una co-inquilina mi racconta che il ragazzo ormai vive per strada, cioè nel parco qui vicino. Morto il padre pensionato, non riusciva più a pagare l’affitto, l’ente proprietario della Palazzata l’ha sfrattato, ma lui è restato nei pressi. A differenza dell’alcolica che urlava e buttava la madre a passare la notte sul pianerottolo, il dramma del ragazzo improfumato si è consumato silenziosamente, nessuno ne ha saputo niente e chi sapeva si faceva i cazzi suoi. Farsi i cazzi propri è virtù suprema—continuamente enunciata e ribadita e prescritta e ufficialmente normata—di questa metropoli che, con l’eccezione fulgida delle borgate storiche, è sempre stata prevalentemente di anima piccolo-borghese, in particolare di questo quartiere, dove si può vivere una vita senza sapere come si chiama il vicino di pianerottolo. Il che mi sta benissimo.
Il ragazzo improfumato è ad abitare nel piccolo parco, qui detto Parchetto, ex cava d’argilla nascosto dalle prime palazzine che vedo verso ovest. Ho montato una tenda, mi ha detto quando gli ho dato dei soldi ed è stato costretto a ringraziarmi. Diceva che venti euri erano troppi, rispondevo che stavo aiutando un co-inquilino, raccontava che di notte vedeva volpi, cinghiali. Aveva un’aria umile e scarrupata, non profumava più. Se ne stava al sole fuori del Bar Illy con un amico suo che, alla vista del biglietto da 20, ha avuto come una scossa galvanica.
Ma la Drogheria Morelli, il Meccanico di Moto, il Tatuatore e tutti gli altri—compreso l’architetto arredatore con studio in strada, compresi il venditore di sigarette elettroniche, il concessionario Renault, il negozio di divani, il macellaio—che fine hanno fatto? Dove sono finite le micro-istituzioni urbane della zona? Come campano adesso i titolari di quelle attività minute, marginali, ma fino a poco fa ancora vitali, che conferivano a questi dintorni qualcosa di prossimo a un effetto-città? La Drogheria Morelli, caposaldo gestito da un autentico norcino —cioè realmente nato nella nobile città di Norcia, distrutta poi da un terremoto—, ha resistito a lungo, era anch’essa come un focolare acceso sulla stradaccia in discesa che incrocia lo stradone principale generando l’Incrocio a tre vie, e prosegue giù verso la Sacca, urbanisticamente sdoppiandosi e slargandosi ad accogliere un parcheggio. La Drogheria Morelli era un centro di pietas semideserto, di umanità parlante, frequentato da coltivatori indefessi di luoghi comuni che non avevano voglia di andare fin laggiù, al supermercato sotto le Torri ex IACP e andavano invece a comprarsi un etto di gambuccio dal sor Morelli, soprattutto per fare qualche chiacchiera sul tempo, sulla Squadra, su qualche fattaccio dominante la cronaca urbana. Di Morelli so qualcosa: è andato in pensione e il figlio è andato a lavorare dietro al banco salumi di non so quale supermercato, come ha fatto del resto il figlio del macellaio, una volta morto il padre, quello che si vantava di quanto era in forma e giovanile e poi un giorno è schiattato di colpo. Nei locali della Drogheria Morelli, che stava qui dai primi Settanta, cioè fin dagli anni di costruzione della Palazzata, ora c’è un compro-oro con vetrine fumé & specchianti, che ha fagocitato pure l’agenzia di non so cosa accanto a Morelli, anch’essa morta o fuggita in altre zone della città. Ha l’aria losca, questo compro-oro, minacciosa & criminale: sedendo al bar di fronte non ho mai visto entrare/uscire nessuno, tranne giovani uomini dall’aria del tutto umana che attraversano la strada per farsi un caffè, un panino, come tutti. Lavorano lì, mi ha detto la barista.
È un’apocalisse lentissima che dura da anni. Molto probabilmente non prevede alcun tipo di resurrezione, di assoluzione, assunzione in cielo e nessuna dannazione, solo un’autentica irreversibile decadenza fatta di anzianità e di trascorso, cui va aggiunto un passato novecentesco privo di estetica, di qualità urbana, di propensione all’invenzione e di vero progresso civile e mentale. «Cambieremo la Penisola» dissero, hanno detto-dicono-diranno, tutti coloro che in un modo o nell’altro accedono o desiderano accedere al potere. È un’affermazione apparentemente ingenua, molto spesso buttata lì in mala-fede, cioè sapendo benissimo che il peninsulare è immodificabile. E del resto nessuno, se pure ci ha pensato seriamente, ha mai saputo da che parte cominciare. Il passato permane corposamente nel Ristagno, cioè nell’attesa di un cambiamento che non verrà o sarà in peggio e che per noi del Quadrante somiglia piuttosto a un’ipnotica attesa della morte.
Come quella che sta aspettando a piè fermo il pensionato piccolo dagli occhi iniettati di sangue, seduto al bar, oppure appoggiato alla fioriera-con-pianta-grassa che contribuisce al decoro esterno del portone der palazzo suo, anche lui con un ultimo cane, quello che gli sopravvivrà, scelto molto piccolo, mansueto, umile, perché così fa compagnia ma non dà fastidio e puzza di meno e sporca poco. Sono anni che l’incontro. L’avessi mai visto leggere un giornale, oppure guardare la tv del Porcacci, sempre accesa. Mai. Lui è uno specialista dello sguardo nel vuoto: quando parla il discorso gli va naturalmente sulla sua malattia, che a furia di ascoltarla passivamente la so anch’io, ma l’ho dimenticata. Sembra sia l’unica vera esperienza che la vita gli ha riservato e per questo se la tiene bene in caldo nella mente e aspetta il momento in cui tornerà a colpire e di nuovo lo scaraventerà nel nosocomio dov’è già stato e dove in fondo non è stato male.
Estratto da Lo Stradone di Francesco Pecoraro (Ponte alle Grazie, 2019).
Con Francesco Pecoraro, Vanessa Roghi e Luca Dammicco che raccontano Roma, il 23 gennaio alle ore 18 presso l’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, la redazione del Tascabile inaugura un ciclo di appuntamenti mensili per confrontarsi su tematiche di attualità e cultura. Gli incontri si inseriranno all’interno della rassegna settimanale Giovedì alla Treccani.