L awrence Osborne è uno degli autori più noti e interessanti della narrativa contemporanea. Il suo romanzo The Forgiven (2012), recentemente tradotto per i tipi di Adelphi con il titolo Nella polvere, contiene già i temi principali delle opere successive: il viaggio e il turismo oggi, le speranze dei migranti e l’alienazione degli espatriati occidentali, il denaro come promessa e maledizione, il cibo come simbolo di una prosperità che si tramuta in dissoluzione. Nei libri di Osborne rivestono un’importanza fondamentale i luoghi come campi di incontro e scontro tra mondi: il lettore è introdotto in terre lontane come la Macao della Ballata di un piccolo giocatore, la Cambogia di Cacciatori nel buio, il Marocco di Nella polvere, la Thailandia di Bangkok e dell’ultimo romanzo The Glass Kingdom (2020).
Nel 2018, mentre facevo ricerche per un romanzo, ho attraversato i luoghi delle storie di Osborne in Asia con l’intenzione di intervistarlo a Bangkok, la città dove vive. Alla fine non sono riuscito a incontrarlo (il risultato di questo fallimento è raccontato in un reportage pubblicato sul Tascabile). La pubblicazione italiana di Nella polvere è stata l’opportunità di realizzare, finalmente, quella conversazione.
Nella polvere comincia in un porto, in Marocco. Nelle prime righe, “milionari europei” e “migranti” sbarcano da ponti diversi. Un contrasto tra espatriati occidentali e turisti da una parte, nativi e migranti di diverse parti del mondo dall’altra, che si ritrova in molti tuoi libri. In questo caso il contrasto struttura tutta la trama: una coppia di ricchi turisti inglesi investe un giovane marocchino e lo uccide mentre sta andando a una festa esclusiva nel deserto. L’accuratezza delle tue descrizioni di luoghi e persone suggerisce che la tua narrativa si basi sull’esperienza diretta. In effetti hai viaggiato e scritto per molti anni prima di pubblicare fiction. Che rapporto c’è tra l’esperienza di viaggio e la tua scrittura? Quanto è importante l’esperienza e la scelta delle ambientazioni per costruire le tue storie?
A proposito di viaggi e letteratura, molte cose sono cambiate. Prendi gli scrittori britannici: Robert Byron, ne La via per l’Oxiana (1937), sentiva il bisogno di descrivere la bellezza dell’architettura dell’Asia centrale che il lettore non avrebbe mai potuto ammirare, e occasionalmente si lamentava del cibo e scherzava sui portatori. Era ancora un esploratore in un’età di Imperi occidentali, libero di esibire con fierezza il proprio sguardo e i propri desideri. I personaggi di Graham Greene hanno ancora qualcosa di quell’aura, anche se le cose non vanno più così lisce. Con Bruce Chatwin il fascino e il prestigio dell’esploratore è largamente rimpiazzato dall’ironia, ma l’attenzione è ancora puntata sugli espatriati. William Dalrymple si è trasformato da viaggiatore in residente e storico dell’India. Vedo il tuo lavoro come una fase nuova in questo sviluppo. I tuoi viandanti e espatriati hanno perso la loro aura poetica, sono tornati ai bisogni basilari e lottano con le proprie pulsioni. Non sono più alla moda né sicuri di sé, a volte sembrano affrettarsi goffamente fuori dal Titanic che affonda mentre tengono stretti tra le mani i loro cocktail. D’altra parte, spesso sposti il punto di vista narrativo su personaggi di diversi paesi e culture, tra cui migranti (come Driss in Nella polvere) e rifugiati (come Faoud in L’estate dei fantasmi). Come si colloca il tuo lavoro in questa prospettiva?
In ogni caso, gli occidentali moderni che si trascinano intorno al globo sono tutto sommato un branco di sfigati. Paradossalmente hanno meno interesse per le culture che attraversano di tanti ufficiali coloniali di centocinquant’anni fa. Questo perché il trasporto aereo e la migrazione di massa hanno cambiato tutto. Oggi chiunque vive dappertutto, le vecchie restrizioni sono dissolte. L’assoluta stranezza di questo fenomeno non è considerata. La nostra ossessione per la politica dell’identità e per l’“autenticità” non hanno senso oggi, e infatti suonano bizzarramente datate e nevrotiche. Ecco perché io trovo strano Dalrymple che si mette abiti indiani: una volta lo incrociai sulle scale al festival letterario di Dacca, lui in dhoti, io in giacca e cravatta con un abito a tre pezzi, ed era difficile dire chi fosse più “locale”, dato che i ricchi uomini bangladesi che organizzano quel festival sono appassionati di sartoria su misura ma non di dhoti. È una situazione confusa e divertente.
C’è un passaggio di Nella polvere in cui il padre viene dai bianchi a prendersi il cadavere del figlio. L’intera scena mi ha colpito come qualcosa che poteva uscire da una tragedia greca. Tommaso Pincio in una recensione del libro ha osservato che sei un maestro “nell’orchestrare scontri di civiltà sempre sul punto di esplodere”. Al tempo stesso, nel libro non costruisci un netto contrasto tra l’immoralità dei ricchi occidentali e la solida visione tradizionale dei personaggi marocchini. Ci sono molte differenze tra i membri dei due gruppi. Inoltre, tutti i personaggi esitano, mentre a volte sembrano costretti ad agire (o non agire) da potenti impulsi. In generale, mi sembri più interessato alla complessità psicologica degli individui umani che agli ampi contrasti culturali.
I romanzi moderni sull’altrove sono stati spesso accompagnati da una critica morale delle società europee, da Montesquieu a Voltaire, da Melville a Conrad. Nei tuoi romanzi non sembri mai interessato a giudizi morali e politici di tipo didascalico. Apparentemente non ci sono né critica, né moralismo. L’agire umano appare soggetto al caso e a potenze naturali e forse sovrannaturali. Ma c’è anche un’attitudine critica nel modo in cui descrivi i personaggi. Come vedi il tuo lavoro in questa prospettiva?
Il turismo di massa è l’emblema di un bisogno di cercare mondi diversi e, allo stesso tempo, di una trasformazione di questo bisogno in un prodotto di massa. Ne Il turista nudo (2006) – che è insieme un racconto di viaggio e un saggio critico sul viaggiare – mescoli storie di esplorazioni antropologiche del passato con quelle del turista di oggi che vaga senza scopo, come se quest’ultimo fosse la caricatura del precedente. Nella prima pagina introduci con ironia la tua pulsione per il viaggio e la crisi di una precisa idea dell’andarsene:
Nel mio caso si è manifestata in modo repentino, come un disturbo mentale ignoto alla psichiatria. Che cosa? Ma la voglia di fermarsi, mollare tutto, e partire, cos’altro. Certo, quel bisogno di uscire dal mondo e raggiungere un altrove può essere interpretato in molti modi diversi, ad esempio come un sintomo pregeriatrico, un anticipo di senilità. Sta di fatto che da un giorno all’altro ti rassegni e cominci a riempire la valigia, manco avessi capito che, ti piaccia o no, è giunto il momento di rimettersi in marcia, di regredire alla fase nomadica. Già, fai le valigie, solo che non sai dove andare. È come se ti impennacchiassi per un ballo di gala, pur sapendo che è appena stato cancellato.
Avrò visitato qualche centinaio di siti web – portali per viaggi organizzati, brochure governative, semplici schermate piene di informazioni o di resoconti messi in rete da altri escursionisti. Ma il problema del viaggiatore moderno è che non sa più dove andare. Ormai l’intero pianeta è diventato un’installazione turistica, e ovunque tu vada resta in bocca il saporaccio del simulacro. Ho cercato in lungo e in largo, ma uscire dal mondo sembrava impossibile.
È una sensazione familiare, e diversi etnologi del Novecento, come Claude Lévi-Strauss e Michel Leiris, hanno già sottolineato come l’immagine affascinante dei paesi esotici (con la sua idea di rigenerazione morale e fisica) era un miraggio. E poi, come negare che l’industria del turismo ha seppellito la vecchia scappatoia del viaggiare e complicato l’atto di esplorare diversi modi di vivere? A volte hai sostenuto che il turismo di massa andrebbe in qualche modo limitato. Che ne pensi del turismo, oggi?
Anche se l’immagine romantica del viaggio è passata, il bisogno di rompere e andarsene c’è ancora: ai personaggi del tuo libro succedono cose interessanti soltanto quando tagliano la corda, anche se la destinazione – come scrivi nel Turista nudo – è un “mondo irreale”. “Il mondo com’è oggi” – come chiami la società urbana europea e americana – ha davvero perso interesse dal punto di vista narrativo?
Nell’Estate dei fantasmi, una ricca ragazza vuole aiutare un rifugiato che trova su un’isola greca, approdato là come un novello Ulisse. C’è un legame tra i due, ma la disuguaglianza economica conduce a conseguenze tragiche. Il denaro, nei tuoi romanzi, sembra accompagnato da una maledizione o da un cattivo karma. Non funziona mai come mezzo per risolvere le controversie e avvicinare le persone. Al contrario, appena i personaggi hanno fortuna e s’impadroniscono di grandi somme di denaro – come in Cacciatori nel buio (un capitolo è intitolato proprio “Karma”) e nella Ballata di un piccolo giocatore – sembrano fatalmente condannati. Mi viene in mente un film, L’Argent di Robert Bresson, che a sua volta era ispirato dalla novella di Tolstoj Denaro falso.
Uno degli elementi più vistosi e unici dei tuoi romanzi è il cibo. Il cibo abbonda in sontuose descrizioni di pasti e sterminate abbuffate. In uno dei miei passaggi preferiti della Ballata di un piccolo giocatore il protagonista Doyle, dopo una notte insonne, senza più soldi e con la tentazione di un’ultima puntata al gioco, ordina una colazione infinita in un costoso ristorante di Hong Kong. Qui, come mi capita spesso con le tue descrizioni di pasti, ho una sensazione di tensione che monta, a tratti di sfrenata esagerazione, per cui il piacere finisce col diventare funebre. Come vedi questo elemento del tuo lavoro?
Denaro, cibo e karma si possono collegare a un altro tuo tema: il buddhismo. Vivi in un moderno Paese buddhista e ti sei occupato di buddhismo tibetano in Shangri-la. In questo racconto di viaggio (pubblicato in Italia come un libro nel 2008) osservi che il buddhismo è stato frainteso come una religione della pace e della serenità e che, quando non sia temperato dalla prosperità, per esempio in Tibet, si rivela “disperato e tragico”. D’altra parte, nella Ballata di un piccolo giocatore, l’assistenza di una donna buddista, Dao-Ming, si presenta come una sorta di salvezza per Doyle, turbato e sull’orlo del suicidio, e per un certo tempo riesce a fermare la sua incapacità di controllare la compulsione per il gioco. Puoi dirci del tuo interesse per il buddhismo?
Oltre che far da sfondo ai racconti di Bangkok, la capitale tailandese fa da sfondo al tuo romanzo The Glass Kingdom. Perché hai deciso di vivere a Bangkok? Dici di aver deciso di trasferirti là per una serie di circostanze, a cominciare da un’operazione odontoiatrica. Credo ci siano molte ragioni per scegliere una città come luogo per vivere e guardare al mondo presente. Quando ho visitato Bangkok stavo leggendo il tuo libro ed ero molto in sintonia col modo in cui descrivi il calore della città con la sua miscela di kitsch e miseria, dolore e compassione, piacere e robaccia in vendita, dove la folla può dare uno strano senso di appartenenza a visitatori solitari.
I tuoi romanzi sono stati collegati a diversi modelli, di genere e non. Scrivi anche racconti, narrazioni di viaggio e sceneggiature. Quali sono i vantaggi della forma romanzo? Lo vedi come un genere vitale oggi?
Il tuo prossimo romanzo On Java Road, in uscita nel 2022, è ambientato a Hong Kong. Hong Kong è un luogo cruciale per l’incontro tra le civiltà europea e cinese, è un luogo a cui sono affezionato, e sono stato turbato e disorientato dagli eventi degli ultimi due anni. Quanto è importante Hong Kong per il nuovo libro?
Dopo questo libro, invece, sto cercando di mettere insieme una serie TV basata sul memoir di guerra del corrispondente Jon Swain, “River of Time”, sulle sue esperienze durante la guerra d’Indocina dal 1970 al 1975. Si svolgerà principalmente a Phnom Penh e Saigon durante quegli anni. Swain è un mio amico e mi ha ceduto i diritti, perciò vorrei sia produrre, sia scrivere la serie. Che Buddha mi aiuti.