P ubblicato per la prima volta nel 1945 con Nuove Edizioni Italiane, riproposto da Sellerio nel 1976, torna in libreria dopo anni di assenza Souvenirs di Alberto Savinio per la Piccola Biblioteca Adelphi. La raccolta di ricordi parigini, la cui genesi compositiva e editoriale è ricostruita nella preziosa nota al testo di Eugenia Maria Rossi, comprende articoli pubblicati nell’arco di vent’anni, dal 1926 al 1945, sui quotidiani “L’Ambrosiano”, “Mercurio”, “La Stampa”, “L’Italiano”. “Omnibus”, “Corriere Italiano”, “Città”.
Savinio nel 1926 torna a Parigi dopo un primo periodo di apprendistato creativo, e ritrova un luogo irriconoscibile, non più il nugolo di stimoli culturali degli anni Dieci. La Parigi degli anni Trenta qui sembra “una dama dal passato brillantissimo” nella morsa di una crisi e di una conseguente stasi di cui non vuole avvedersi. La Francia tradizionalista e borghese prosegue a rintanarsi in quell’“enorme credenza”, in quella “mostruosa cassapanca” che è l’“Operà” (sic), metafora stessa di una Parigi quale “Vieille Dame”:
E mentre gli altari maggiori si spengono, e crollano i templi dei culti tramontati, e sub terris tonuisse putes, come cantava il divino Nerone, l’Opera di Parigi raggrinzita ma tenace, tra lo strombettare di mille e mille automobili che le girano attorno e in mezzo all’indifferenza generale, continua serenamente a vegetare, a simiglianza di quelle piante sterilizzate che non hanno più che farsene né di acqua né di sole.
Intanto il cinematografo conquista i cuori di “giovani freudiani”, che guardano film in lingua tedesca o inglese senza capire una parola ma mostrandosi divertiti o spiritualmente rinnovati. Il teatro sta per “tirare le calzette” e quei “pochi superstiti dovranno “incinemarsi””. Un viaggio nella città ce lo dimostra:
E là dove una volta sorgeva il Vaudeville, oggi sorge, fontana di luce, il Paramount; ove una volta sorgeva l’Olympia […] ora sorge, sotto lo stesso nome, la sede centrale dei cinematografi Jacques Haïk; ove una volta erano le Capucines – un amore di teatrino, una bombonnière dorata e profumata – ora sorge, dopo poche trasformazioni e riattamenti, il cinematografo delle Capucines. E solo chi ha attitudini di podista, fede di pellegrino e la costanza di avventurarsi fin presso la Piazza della Repubblica, potrà trovare ancora alcune scene, come la Renaissance e la Porte-Saint-Martin, ove attori e attrici in carne e ossa continuano imperterriti, davanti ai quattro gatti che scaldano le poltrone di platea, a sparare gli alessandrini di Rostand o le tirate di Henry Bernstein.
Attraversando la città, dall’elegantissima Avenue de Bois de Boulogne fino a rue Miromesnil, Savinio compone un racconto geografico della Parigi dell’epoca, quasi una guida non turistica, di teatri, cinema, gallerie degli artisti, e persino ristoranti (l’articolo sulla “sinfonia alimentare” della gastronomia francese). Non si tratta solo di flanerie, piuttosto della costituzione di un atlante di usi e costumi esaminati dalla prospettiva di una trasformazione anche urbanistica, con una strategia cara all’autore, come conferma l’esperimento Ascolto il tuo cuore, città (1944), “libro discorsivo” su Milano.
Allo stesso modo, interviene spesso un’alternanza tra vecchio e nuovo, tra ante e dopoguerra, tra fervore per il futuro e delusione per gli estinti anni folli. E se l’introduzione di elementi classici è sempre stata una caratteristica di Savinio, anche qui i riferimenti alla mitologia e agli antichi mores latini e greci restano numerosi, da Omero a Ovidio a Orfeo, da Anteo a Euterpe a Ulisse. Il recente non è necessariamente nuovo, e se gli artisti di un tempo sono “Iddii decaduti, senza più culto né templi”, la primavera dell’avanguardia ha lasciato il posto a un letargo invernale che però pretende di mantenere ancora i fasti persi. In esergo a un articolo su Picasso, d’altronde, Savinio cita proprio l’Ovidio dei Fasti. E come Ovidio descriveva i riti e i costumi di una società priva di ogni coscienza del proprio passato, che obbediva alla tradizione senza conoscerne l’origine o il valore, così Savinio, nell’articolo del 1932 Feste in tempo di crisi, satireggia contro la piaga dell’imborghesimento culturale, contro l’ipocrisia e contro quello che oggi chiamiamo politically correct, adottato da chi pensa che un ottimismo di facciata potrebbe salvare dalla catastrofe. Insomma, Parigi è nuda e le capacità retoriche di Savinio la spogliano ancora di più.
Le metafore dell’autore nelle divagazioni sui “pranzi intellettuali” sono simbolo di una patita cancrena da cui il crocevia della cultura europea che era stata Parigi solo qualche anno prima ancora non riesce a guarire. Savinio è scanzonato nella sua ironia ma spietato nei giudizi che concede. Anche nel giornalismo si manifesta quanto Ardengo Soffici aveva detto a proposito della sua scrittura narrativa: quelle di Savinio sono “parole variopinte”, e si ha l’impressione, leggendo i Souvenirs, che gli uomini da lui descritti siano classificati secondo un colore, come nei Chants de la mi-mort (1914) o nell’Avventura colorata del teatro in Capitano Ulisse (1934), o come nella sua pittura, alla quale peraltro si stava quasi esclusivamente dedicando nello stesso periodo della stesura dei Souvenirs. L’ossimorica massa borghese risulta colorata non tanto di bianco e nero come al cinematografo quanto piuttosto di colori ridicoli e volutamente disarmonici (come in Marche nuptiale o in En visite), mentre gli artisti per cui riserva interi pezzi appaiono dai toni brillanti ma composti, come in certi suoi quadri dove la metafisica prende il posto della satira (ad esempio in Objets dans la forêt).
Gli articoli sembrano inoltre racconti autobiografici, in cui Savinio svela le sue esperienze di contatto con le personalità di cui scrive, menzionando talvolta pensieri privati, per i figli, per esempio, e confidandoci aneddoti che sembrerebbero dover davvero rimanere segreti, spesso con un tono di suspense che ci fa venire voglia di sapere cosa è successo al protagonista della storia “dopo il misterioso e lontano squillo del campanello laggiù, nei tenebrosi penetrali della casa”, quando “la porta si apre e un severo maggiordomo [lo] introduce dentro un vestibolo cardinalizio” (insomma, più che un articolo di giornale, sembra l’incipit di un racconto di Poe). Il sinestetico sguardo ai dettagli è peraltro significativo se comparato all’immediatezza di una lingua pur aulica e alla veracità delle descrizioni, minuziose ma mai stanche.
Molti sono i personaggi di cui Savinio tratta, da Colette a Blaise Cendrars a Paul Guillaume, e per cui non sempre spende parole generose. Molte sono le ossessioni tematiche dell’autore, come testimoniano le corrispondenze reiterate – e per questo si veda la nota – che hanno per oggetto, per esempio, l’amico Jean Cocteau o Apollinaire, passando per il tema del “negrismo” e approdando a quelle pagine meravigliosamente demistificanti sul “soccombismo”.
La prima ossessione sembra però essere la morte: come costanti memento mori, molti articoli sembrano necrologi, da Philippe Berthelot, Max Jacob, di nuovo Apollinaire fino al morto “postumo” Raffaello, nel segno di un’atavica alternanza tra amore e morte, ma anche tra essa e il sogno, alla luce di un Surrealismo rivisto e corretto su cui ancora c’è molto da scrivere.
La morte torna nella feuillemorte del Salon d’Automne, nell’ineluttabilità della stagione della crisi, nell’immobilità e immutabilità della città, superficialmente in moto ma profondamente spenta, in parte lontana dall’acquisizione della consapevolezza che una volta toccato il plafond si può solo decadere. Nell’attesa del giorno in cui “un popolo senza voce dilagherà come gran fiume nero, sotto le girandole luminose che infiorano i tetti di Parigi”, Savinio, amarissimo in questa tensione tra luce e oscurità, sprezza Paris-Silence nel congedo in francese che chiude l’opera, nostalgicamente sardonico. E se il pensiero della morte è ricorrente, esso è pure fisiologico, e come tale va trattato, chiamando all’appello non solo Orfeo, ma pure la Musa pedestre.