S u un ponte, lungo un pendio, come un tetro corteo diretto verso il basso.” Esattamente in questo modo, paralizzati nel tempo, nella caduta e nel fondale paludoso di un allestimento museale (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte) che ci appaiono i ciechi dipinti da Pieter Bruegel il Vecchio. Sono in sei, vestono abiti di buona foggia, abiti da viaggiatori. Per qualche ragione si sono messi in cammino attraverso la campagna delle Fiandre. I contadini e gli abitanti di quei villaggi in cui di tanto in tanto entrano quasi per caso li osservano sfilare come una processione spettrale. Avanzano in fila indiana, la mano di chi segue è posata sulla spalla di chi precede. La mano del primo e il suo bastone fendono l’ignoto.
A un certo punto la carovana si ritrova a percorrere un ponte di pietra incurvato su un torrente. Il ponte non ha balaustre, così il primo cieco mette un piede in fallo e cade nell’acqua terrosa. Il secondo cade dietro di lui. Tutti e sei, uno dopo l’altro, cadranno, sotto il cielo autunnale, a pochi metri da un villaggio che sembra essere stato appena abbandonato. Il pittore li ritrae mentre la caduta è ancora in corso. Quattro di loro sono ancora ignari di ciò che accadrà. Forse possono presagirlo – con gli occhi vuoti, malati, ridotti a bianchi ornamenti o a cavità, annusano il presentimento mischiato all’odore di letame e a quello di vegetazione acquatica – eppure continuano ad avanzare, perché non possono diffidare della loro unica guida: il cieco di cui seguono i passi.
Il dipinto di Bruegel, datato 1568 (nel pieno della rivoluzione teologica e di potere che scaraventò l’Europa in un secolo di sconvolgimenti, segnandone forse il vero ingresso nella modernità) e intitolato La parabola dei ciechi, riprende le parole che Gesù rivolge ai farisei, riportate nel Vangelo di Matteo: “Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso”. Qualsiasi uomo o donna europei che si ritrovino ad ammirare il dipinto non possono non avvertire l’eco di un richiamo, provare l’impulso di allungare le mani per esplorare a tentoni il buio del futuro, annusare l’aria familiare e melanconica che preannuncia il destino di un continente, una specie di condanna perpetua, che nei secoli si rinnova complicando fino alla pazzia le nozioni di massa e di individuo. Non possono guardare il dipinto e forse molti altri dipinti senza pensare di guardare se stessi. Non riescono – come si legge nel libro che tenete in mano, che dell’opera di Bruegel porta lo stesso titolo e lo stesso marchio di singolarità – a guardare un uomo distrutto senza pensare alla propria distruzione. O almeno così dovrebbe essere.
Forse sta in questo la ragione per cui, più di quattrocento anni dopo, nel 1985, uno scrittore tedesco di nome Gert Hofmann decise di affidare di nuovo a quei ciechi il ruolo di portavoce di uno spirito che poco ha a che fare con l’identità e molto a che spartire con la sua congenita o traumatica assenza. Sei uomini, una mattina, escono dalla stalla in cui sono soliti dormire e si mettono in cammino per raggiungere la casa dell’anonimo pittore che li ha convocati per ritrarli. A differenza dei ciechi di Bruegel, quelli di Hofmann non portano alcun segno di nobiltà: vestono di stracci, cacano in pubblico, mendicano il cibo, portano addosso le tracce della miseria e nell’anima quelle del crimine, vagano accompagnati da uno stormo di corvi di cui non conoscono né il numero né le intenzioni, se non quella di beccare nel sonno i loro occhi morti. Non sanno con esattezza dove il pittore viva; non sanno con esattezza dove si trovano e fanno fatica a ricordare quali circostanze li hanno uniti. Sono un nugolo di ciechi. Come mosche caracollano nell’autunno delle Fiandre, nel fango, negli escrementi, nel buio.
Ad aprire il corteo c’è colui che cadrà per primo. Chi racconta, un noi che viene pronunciato da uno dei ciechi e che mai parla solo per se stesso, lo chiama Ripolus. Viene messo davanti perché i suoi occhi non sono ancora del tutto spenti.
Di continuo sentiamo dire: chi sta davanti deve saper distinguere la luce dal buio. Anche se non vede ogni piccolezza, ad esempio la propria ombra, deve riconoscere almeno grossolanamente l’insieme, ad esempio la luce del sole. Non però come succede a noi, come calore sulla pelle, bensì come luce negli occhi. Anche se non vede veramente, deve poter quasi vedere. Uno così è Ripolus, quello con il bastone più lungo.
Per lunghi tratti il gruppo procede seguendo l’individuo che crede di vedere, ma che probabilmente, proprio in virtù di questa illusione, è il più cieco di tutti, perché un vedere parziale equivale a nessun vedere. Al cospetto del personaggio di Ripolus si ha l’impressione che Hofmann stia compiendo un doppio salto nel vuoto. La metafora del potere come condanna si affianca a quella che individua nell’arte, l’arte nei musei e l’arte nella storia, l’arte degli artisti che vagano nel loro tempo e in quello a venire, la forma più alta di rischio, un atto di presunzione a cui segue una profonda vergogna. Ripolus è un cieco che si illude di vedere e che illude gli altri, convinti di poterlo seguire, di poter, attraverso i suoi occhi, trovare una collocazione nel tempo (giorno, notte) e nel paesaggio.
Scrittore di teatro e di prose che cercarono disperatamente di varcare il confine dell’essiccazione linguistica assoluta (chi non si scoraggia davanti ai libri svaniti nel nulla si procuri anche la superba novella La delazione), Gert Hofmann riuscì, con La parabola, nella duplice impresa di fare i conti con uno dei capolavori dell’arte moderna europea e di caricare sulle spalle macilente di un manipolo di ciechi dipinti il compito di dar vita a un’ecfrasi dal di dentro, un’ecfrasi ignara, un’ecfrasi impossibile perché l’inanimato che dovrebbe descrivere è ancora vivo, un’ecfrasi cieca. Perché il pittore abbia convocato proprio loro è un’informazione che non hanno. Forse per demolire la convinzione, maturata con l’esperienza, che sia “impossibile dipingere il quadro come dovrebbe essere dipinto, agghiacciante e pur bello”. Forse perché il pittore ha bisogno, una volta per tutte, di raffigurare l’urlo, le cavità orali spalancate nella sorpresa della caduta, l’orrore. E perché, si chiedono i ciechi, dare “così rilievo all’orrore a spese di tutto il resto?”. Perché
ciò che gli altri chiamano orrore è il suo elemento. Di certo non vuole far paura, ciò è ben lungi da lui, ma nemmeno esagera, bensì concentra ciò che essi trascurano, perché non vogliono riflettere sull’orrore. […] A volte si chiede dipingendo: in quale casa, in quale stanza, presso quale uomo sarebbe il tuo quadro al posto giusto, sarebbe come minimo tollerabile? Perché per i quadri che dipinge, che deve dipingere, non riesce al momento a immaginarsi un simile posto, una simile parete. Poi chiede, com’è la situazione a Gand, nelle province del sud? Massacri, dice il buon amico. E a Liegi? Lo stesso.
Quello che state per leggere, a conti fatti, è un testo in cui convivono e si confondono il picaresco e l’immobile, e quale compresenza, quale inganno potrebbero essere più adatti a mettere a nudo il mistero della fangosa Europa? Niente di meglio che un dipinto ridotto al telaio di un testo, un testo pelle e ossa come questo, che ride in preda al panico, in cui gli aggettivi appaiono come allucinazioni improvvise, colpiscono un cieco come sassi lanciati da ragazzini spaventati e violenti.
“E abbiamo la sensazione che qui, dove noi adesso urliamo e dove deve esserci anche lo stagno, abbia fine una regione del mondo, si trasformi in un’altra. E su questo confine stiamo noi, rivolti verso l’altra regione, e dentro questo paesaggio immaginato da tutti noi insieme e separatamente urliamo con le bocche spalancate, che tutti coloro che hanno occhi per vedere possono studiare su di noi”, realizzano i ciechi nel momento in cui la caduta è già iniziata. Una volta raggiunta la casa del pittore vengono a sapere che dovranno imboccare il ponte e cadere tutte le volte che il pittore lo vorrà, fino a quando non avrà fissato un primo bozzetto soddisfacente.
Così i ciechi cadono e cadono, nei secoli. Continuano a cadere ogni volta che qualcuno si ritrova a guardarli. Cadono anche dopo che il pittore li ha licenziati e rispediti indietro, al fienile da cui era partito il loro assurdo viaggio. Mentre in eterno continuano a cadere, arriva, forse, la notte, e i ciechi si rannicchiano come un piccolo branco di topi in un angolo del fienile, come i topi si ammassano per conservare il calore dei corpi e formano un solo enorme topo esausto. Esattamente in questo modo, paralizzati nel tempo e nella caduta, i ciechi di Gert Hofmann entrano nei nostri occhi attraverso tutto ciò che visibile non è. Anche dopo aver esaurito queste pagine e posato il libro, ovunque ci troveremo, riusciremo a sentire il rumore dei loro passi nel vuoto delle Fiandre, il tepore del sole autunnale sulla loro pelle che è la nostra pelle, l’odore del latte bevuto da un secchio e della campagna da cui si alza il fumo dei fuochi, dei roghi, dei bivacchi, l’allucinazione del loro brancolare che è il nostro vedere.
Era ora che questo piccolo capolavoro furtivo e il suo autore venissero ripescati dall’oblio a cui erano stati destinati, insieme a molti altri. Non c’è dubbio che quella europea sia una letteratura di esiliati. Tuttavia, di tanto in tanto, è il caso di ricordarlo, affinché scrivere e leggere continuino a essere territori dell’esilio, luoghi in cui non ci si rifugia per salvarsi la pelle, ma per compromettere tutto, in nome del freddo, della fame, della memoria, della caduta.
Estratto da La parabola dei ciechi di Gert Hofmann (Racconti Edizioni, 2019).