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aul Fournel ha settant’anni e una lunga storia di scrittore e editore. Tra il 1968 e il 1992 è stato impiegato presso Hachette, Ramsay, Seghers, per poi entrare nella diplomazia culturale. Ha lavorato a San Francisco e al Cairo, è stato direttore della Alliance Française e della Societé des Gens de Lettres. È inoltre l’attuale direttore dell’Oulipo e autore del primo volume teorico dedicato al gruppo (Clefs pour la littérature potentielle, del 1972). L’Oulipo, acronimo per Ouvroir de Littérature Potentielle (solitamente tradotto con “opificio di letteratura potenziale”) è il collettivo fondato all’inizio degli anni sessanta da Raymond Queneau e dal matematico François Le Lionnais: ha contato tra i suoi membri grandi autori come Georges Perec e Italo Calvino e si è fatto conoscere nel mondo letterario come primo importante laboratorio di sperimentazioni legate soprattutto all’uso delle contraintes, regole fortemente restrittive valorizzate come strumenti di produzione testuale. La contrainte più famosa è probabilmente il lipogramma, ovvero la creazione di componimenti letterari con un repertorio alfabetico mutilato di una lettera scelta. Molte sono le regole e i vincoli trasmessi dalla tradizione, ma ancora più numerosi quelli inventati dal gruppo francese.
L’ultimo libro pubblicato in Italia di Fournel, La novità (Voland), traspone in chiave narrativa uno schema metrico della poesia trobadorica. Di questa intelaiatura formale il lettore non ha quasi sentore, ma l’idea di una struttura perfettamente ordinata, come spiega più sotto l’autore, ha agito da forza motrice della composizione. Il titolo originale del libro, impossibile da rendere in italiano (anche per un’ottima traduttrice come Federica di Lella), è La liseuse, termine che in origine indicava una mantellina indossata dalle signore per scaldarsi e leggere la sera, poi caduto in disuso (l’oggetto insieme al termine), quindi passato a denotare, più recentemente, l’ebook reader, secondo il sano e non di rado creativo protezionismo linguistico che caratterizza i cugini d’oltralpe. Ne La novità Fournel si diverte a ritrarre l’ambiente di una casa editrice con tutte le dinamiche professionali e umane che gli addetti ai lavori non avranno difficoltà a riconoscere. L’avvento del digitale (il libro è stato pubblicato in Francia nel 2012) sconvolge gli equilibri interni e offre ai più arditi l’occasione per interessanti sperimentazioni editoriali. Ho approfittato della sua presenza a “Più libri più liberi” per rubargli un’ora all’ombra della nube e parlare un po’ del suo romanzo, di editoria e di Oulipo.
Vorrei iniziare l’intervista con una citazione da La novità: “L’editoria non è in crisi. L’editoria è la crisi. La crisi è la sua natura”.
Intendo l’editoria letteraria. Sono vecchio ormai e per tutta la vita non ho fatto altro che incontrare persone che dicevano che la letteratura è in crisi. Allora mi sono posto la questione: cosa vuol dire che la letteratura è crisi? In effetti non ci può essere letteratura senza crisi. La letteratura è crisi permanente, è ogni volta qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso, qualcosa che rimette in questione quello che c’è stato prima. È necessario che sia così. La letteratura di oggi mette in crisi quella di ieri che a sua volta metteva in crisi quella dell’altro ieri. La letteratura è inarrestabile, non può riposare su una forma o un momento specifico, deve sempre rimettere in questione, rielaborare ciò che è stato definito.
Questa criticità della letteratura la porta ad avere un rapporto difficile anche con il piano della efficienza economica?
È un problema vecchio quanto la letteratura. La letteratura non porta denaro, tranne in casi eccezionali, ma non si può vivere di eccezioni. L’obiettivo è di arrivare a trovare un equilibrio tra il denaro, di cui si ha bisogno per continuare a fare libri, e la necessità di pubblicare libri diversi dagli altri, che rappresentino la criticità della letteratura, il luogo dove la letteratura si trasforma e si ridefinisce. È l’aspetto più interessante e complesso del mestiere dell’editore. Perché diversamente dalle altre attività industriali l’editoria non può approfittare del successo: quando una macchina funziona sul mercato verrà riproposta più grande, più piccola, migliorata, ma i libri non sono dei prototipi, non ne puoi riprodurre le qualità vincenti, il valore si dissipa subito e bisogna trovare ogni volta qualcosa di nuovo e diverso. Perciò quello dell’editore è un lavoro dove non si può prevedere nulla. Se il lettore un giorno ama Cinquanta sfumature di grigio non significa che amerà anche Ottanta sfumature di grigio, non funziona così.
Nella casa editrice del suo editore fittizio, Dubois, c’è anche il personaggio di Maude, una scrittrice di chick-lit. Come dire: la profilazione commerciale della letteratura non sembra ostracizzata.
Certo, perché è quella che fa vivere l’altra. Ci devono essere degli autori così perché altri possano pubblicare. È molto importante che esista il successo.
Ma in seguito al successo di Maude anche Balmer, l’autore prestigioso di literary fiction, a un certo punto pensa di mettersi a scrivere libri commerciali.
Tutti cercano il denaro per vivere. C’è sempre questa esitazione tra lo scrivere ciò che si vuole e lo scrivere come fan tutti per cercare di cavarne un po’ di denaro. È un’ambiguità che attraversa tutta la storia dell’editoria e della letteratura.
Nella sua carriera di editore qual è il migliore compromesso che è riuscito a trovare in questo senso? C’è una pagina de La novità, per esempio, in cui Dubois si domanda quante copie si possano vendere con un testo di alto livello. Ha trovato una risposta?
Non ho trovato compromessi, non ho trovato risposte, perché non ce ne sono. Ci sono piccoli elementi di risposta ma non una grande e unica risposta. Bisogna cercare di vendere ciò che va venduto. Si sa molto bene che ci sono dei libri che si rivolgono a duemila persone, l’essenziale è raggiungerle, quelle duemila: ottimizzare il sistema, trovare l’equilibrio economico che permetta di fare un libro una volta capito a quante persone è destinato, che siano duemila, diecimila o centocinquantamila. Ogni volta si deve aggiustare il tiro e lavorare duro, piegare la schiena e aspettare che arrivi la pioggia per vedere cosa succede.
Anche nel suo romanzo torna spesso questa idea di attesa, di “bisogna vedere”, “non si sa”.
Non si può sapere. Ci vogliono un dozzina di anni in Francia perché un autore sia visibile, a meno che non ottenga visibilità con un grande premio letterario, o perché si tratta di un giovane o una giovane molto avvenenti, o perché oltre a scrivere fa del cinema o della musica. Altrimenti è un lavoro lungo, è come piantare degli alberi: si pianta e ci si dice che forse sarà il figlio, o il figlio del figlio, a tagliare gli alberi. Non lo sappiamo.
Dubois ha problemi con Meunier, il nuovo proprietario della casa editrice, un tipo che sembra molto più orientato verso il marketing che verso questo lavoro di attesa. Piantare gli alberi: si può fare oggi nelle case editrici francesi?
Direi di sì. C’è stato un brutto momento per l’editoria, negli anni Ottanta e Novanta: anni in cui il capitale e i grandi gruppi hanno comprato molte case editrici pensando che gli editori che vi lavoravano erano degli incapaci. Sono quindi arrivati con l’idea, come Meunier nel mio libro, di insegnare loro come lavorare e questo è durato qualche anno. Siccome non ha funzionato, costava sempre di più, creava strutture sempre più elefantiache senza portare denaro, o portandone sempre meno, oggi si assiste al ritorno di un lavoro editoriale più classico, più piccolo, modesto, a dimensione umana. Per esempio, una casa editrice famosa come Gallimard, piuttosto che fare molti libri che non riuscirebbe a vendere, preferisce lavorare con piccole case editrici satelliti dotate di grande indipendenza. Oggi ci si muove sempre di più in questa direzione, lasciando un’autonomia editoriale, se non finanziaria, che permette a ogni piccola casa editrice di conservare una propria identità e lavorare in uno spirito di ricerca, o comunque nello spirito che gli è più proprio.
In questo modo si migliorano anche i bilanci?
Be’, penso che più che ragionare in termini di maggiore redditività conviene farlo in termini di risparmio. Costa meno fare così piuttosto che mandare avanti grandi gruppi con direttore generale, direttore aggiunto, vicedirettore, vice della vicedirezione e così via fino ad arrivare in basso all’editore vero e proprio che è un nano schiacciato da una struttura enorme e più o meno inutile.
C’è una questione che non è quasi toccata nel suo libro: i finanziamenti statali alla cultura. Secondo lei quanto è importante in Francia, e in generale, il mecenatismo di stato?
Il mecenatismo di stato è utile per vendere i libri francesi all’estero. In questo caso va bene ed è importante che lo stato aiuti la diffusione dei libri francesi. Sostegni di questo tipo vanno in maniera prioritaria ai librai e agli autori. Gli editori, che si trovano in mezzo, ricevono a volte degli aiuti, ma titolo per titolo, quando per esempio un libro sarà molto difficile da vendere, sebbene si tratti dell’opera di un grande autore. Non sono in grado di dire quale percentuale rappresenti. Lo stato è presente e difende l’editoria francese, e ancora di più difende le librerie per evitare che Amazon detti la sua legge editoriale. Perché quello che succederà presto è che Amazon dirà a un editore: “Avete un libro di Amelie Nothomb, bene: ne prendiamo centomila esemplari, invece del libro del signor Rossi non ci frega niente”, insomma terranno solo gli autori che vendono bene. In Francia si sta lottando molto per difendere le librerie. Cosa che per esempio non fanno in Gran Bretagna, e sinceramente non so quanto durerà questa politica anche da noi. Ma è per questo che in Francia i libri elettronici hanno meno successo che nei paesi anglosassoni: ci sono le librerie, la gente scende sotto casa a comprare i libri. In USA le librerie si contano quasi, e solo nelle città universitarie.
Dubois non è così negativo rispetto al digitale.
Non c’è ragione di esserlo. Un editore è qualcuno che si muove nella realtà e se la realtà è l’elettronico sarà editore elettronico, non ha scelta. Io sono un intellettuale europeo parigino circondato da librerie, ma immaginiamo uno del middle-west degli Stati Uniti che ama la lettura: per lui il formato elettronico è una benedizione. E la stessa cosa vale a maggior ragione per tutti quei paesi sottosviluppati dove mancano completamente biblioteche e librerie. All’improvviso, grazie a un ebook reader, moltissime persone possono avere accesso alla totalità della letteratura mondiale. È un vantaggio incredibile. Oppure pensiamo a un ragazzino di sei o sette anni che ogni giorno va a scuola con uno zaino che pesa dodici chili grande due volte il bambino stesso: se domani gli diamo un tablet dentro cui è caricato tutto il corso di storia e matematica e geografia saranno solo duecento grammi da portare. È pieno di applicazioni dove si vede bene come può funzionare il digitale.
Però dal punto di vista di Meunier, il direttore commerciale, le cose sembrano più complicate.
Il personaggio di Meunier, il businessman che si occupa degli aspetti economici della casa editrice, è necessariamente più sviato e inquieto di Dubois perché quella che si sta compiendo è una rivoluzione mostruosa. Io per ottenere il denaro che guadagno prendo una parte del prezzo del mio libro, non una parte del prezzo del testo. Nessuno conosce il valore di un testo, io stesso non ho alcuna idea del valore del mio testo, quello che guadagno è il dieci per cento del valore del libro. Immagina dunque quando all’improvviso testo e libro si separano, il libro se ne va da una parte e il testo trova rifugio nello schermo. Qual è il valore, il senso economico, del mio lavoro? È normale che chi si occupa del denaro finisca nel panico e si domandi come affrontare questa nuova realtà che ha sconvolto completamente gli equilibri stabiliti quel giorno del 1453 con la Bibbia a quarantadue linee di Gutenberg. È un problema enorme, una crisi di civiltà.
Dubois dà la possibilità a dei giovani stagisti di aprire una sezione digitale della sua casa editrice. Questi cominciano a fare libri elettronici riciclando dei testi che sembrano adatti al nuovo medium, soprattutto di autori oulipiani. Possiamo dire che l’Oulipo ha in un certo modo prefigurato il mondo dell’editoria elettronica?
Sì, in un certo senso. Se si passa dall’editoria cartacea a quella elettronica il vantaggio è quello di produrre testi diversi da quelli prodotti per la carta. La carta ama i romanzi di duecentocinquanta pagine venduti a venti euro. È questo che vuole la carta. Se andate dal vostro editore con una raccolta di racconti, vi dirà “Ok, ma questo lo pubblico dopo il tuo romanzo”. Se avete delle poesie peggio ancora. Provate a chiedere a Seuil o Grasset di pubblicarvi una raccolta di poesie. Vogliono romanzi di duecentocinquanta pagine. Il passaggio all’elettronico permette di mettere a disposizione del pubblico tutti i testi “brutti anatroccoli” che sono stati esclusi: può trattarsi di novelle, poesie, testi brevi che non hanno la forma adatta a diventare libri. I giovani stagisti del mio romanzo non hanno quel passato alle spalle che porta a pensare che si debba necessariamente ragionare sulla forma-romanzo, così giocano con il nuovo medium. Non è difficile vedere come oggi tutto questo funzioni già concretamente in rete, nei blog, su facebook, eccetera.
Il mio sogno sarebbe stato che Perec continuasse a scrivere con il computer. È morto nel 1982 e i computer erano dei macchinoni mostruosi, non esistevano i pc, ma sono sicuro che avrebbe fatto delle cose incredibili. La vita istruzione per l’uso è un libro completamente ipertestuale, avrebbe potuto benissimo farne un’edizione elettronica. Anche il Tentativo di esaurimento di un luogo parigino, o meglio “Lieux” il progetto da cui è nato quel libro, sarebbe magnificamente adattabile al digitale.
Già all’inizio degli anni ottanta l’Oulipo ragionava sul rapporto tra computer e scrittura; lei stesso ha scritto nell’Atlas de la littérature potentielle, il secondo volume divulgativo del gruppo, il capitolo dedicato alla questione.
Ho avuto la fortuna di lavorare con Paul Braffort che insieme a Marcel Benabou, Italo Calvino e Jacques Roubaud ebbe l’idea di fondare ALAMO, Atelier de Littérature Assistée par la Mathématique et les Ordinateurs. Essendo conosciuto nel mondo dell’informatica, Braffort aveva ottenuto alcune ore di utilizzo del computer. Era qualcosa di costosissimo all’epoca, e grazie a questa possibilità abbiamo lavorato insieme ai primi progetti.
Ricordo che avevate implementato il Conte à votre façon di Queneau. Era soprattutto letteratura combinatoria quella che facevate con i computer?
Sì, a quel tempo facevamo principalmente combinatoria, racconti ad albero, cose così. Niente di straordinariamente complicato, non c’era la possibilità di elaborare metalinguaggi o simili. Erano esperimenti di lettura assistita elementari, cose che oggi chiunque potrebbe fare senza muoversi da casa.
Un’altra sviluppo che credo abbiate anticipato come Oulipo è il fatto che il lettore diventi sempre più partecipe della scrittura. Oggi è quasi normale: enormi quantità di contenuti sono generati dagli utenti di internet e quasi tutti scrivono nell’ambiente digitale. Le cinquanta sfumature di grigio di cui parlava, ad esempio, è nato da una fan fiction di Twilight.
Penso che una delle cose fatta dall’Oulipo, e in particolare da scrittori come Queneau, Calvino e Perec, sia stato cambiare il lettore. Non si è più lo stesso lettore dopo avere letto la Vita istruzioni per l’uso, La sparizione, Se una notte di inverno un viaggiatore, gli Esercizi di stile. Sono libri dove la nozione di struttura viene integrata nella lettura. Questo determina la grande differenza tra un lettore moderno e un lettore tradizionale che continua a leggere romanzi e che costituisce il grosso della clientela delle case editrici. In quei libri è successo qualcosa di importante, credo, per la storia della letteratura contemporanea.
Quei modelli secondo lei hanno avuto seguito ai giorni nostri? Ci sono ancora scrittori à contrainte?
Non così tanti. L’impressione è che l’Oulipo abbia contaminato in misura maggiore altri ambiti, che i suoi modi di funzionamento si applichino più facilmente alle arti plastiche, al teatro, alla musica, ai fumetti. È per questo che abbiamo reclutato Etienne Lecroart che è un autore di fumetti, o Clementine Mélois che è una grafica illustratrice, è in questa direzione che si stanno sviluppando molti lavori del gruppo. Per quanto riguarda la letteratura, esistono autori che praticano la scrittura à contrainte, forse più poeti che romanzieri, ma sono casi rari. l’Oulipo d’altronde non ha mai voluto essere egemonico. Tutti i nostri lavori sono pubblici, gratuiti e messi a disposizione. Ma l’Oulipo è anche passato in altri paesi: in l’Italia con l’Oplepo, in Brasile, in Germania, insomma si è diffuso abbastanza.
La struttura de La novità imita quella di uno dei componimenti poetici più sofisticati della poesia trobadorica, la sestina di Arnaut Daniel: perché ha scelto questo schema formale?
Non tutti i miei libri sono
à contrainte, lo sono quando la
contrainte partecipa del senso del libro. Non si sceglie una
contrainte solo perché è carina, ma per la sua potenzialità, perché aggiunge qualcosa al senso di un libro. Quando Perec scrive
La disparition, un intero romanzo senza la lettera E, la caduta della lettera significa la caduta di “Eux”, come chiarito nella dedica in epigrafe, ovvero i genitori uccisi durante la guerra e nei campi di concentramento. Qualcosa di profondo gli è stato strappato per sempre: questo è il senso del lipogramma. Io ho scelto questa
contrainte perché ciò che evoco nel testo, la prossima tappa della lettura, la tappa che seguirà l’ebook reader, sarà di entrare attivamente nel testo. Se non vorrete che Madame Bovary si chiami Emma, non ci sarà nessun problema a chiamarla Louise. Saremo dentro il testo, lo cambieremo se qualcosa non ci piace o non ci interessa, lo miglioreremo. Se vorrete per esempio aggiungere qualche pagina che manca in Proust, potrete farlo.
Ho voluto fare un libro che fosse contato quasi alla singola battuta perché chi entrerà nel libro e toccherà una sola lettera distruggerà tutto il progetto. Questo libro è il mio cemento armato. Ovviamente è una semplice finzione ma è stato questo il movente. In passato ho scritto un altro romanzo à contrainte, si intitola Chamboula, è la storia di un villaggio in Africa e di tutti i possibili che si possono produrre al suo interno. Lo stesso personaggio fa il suo ingresso a Parigi dall’École Polytechnique o dalla metro Château d’Eau dove si concentrano i neri poveri della città. E così via. Volevo fabbricare del disordine. È difficile fabbricare il disordine perché siamo prigionieri di percorsi narrativi e avanziamo dal disordine verso l’ordine. Così ho costruito una struttura ad albero binario proliferante: scrivevo una pagina, poi in basso alla pagina mi davo due possibilità: vuoi che succeda questo o quest’altro? Scrivevo due paragrafi, riproponevo due volte la domanda e così via fino al quindicesimo livello. Alla fine ho eliminato tutte le domande e ho lasciato la storia com’era: il personaggio che è morto a pagina 2 è vivo a pagina 3. Sono arrivato a un disordine narrativo straordinario, e molto chiaro, ci si muove nel disordine totale ma senza perdersi. Ad ogni modo non sceglierei mai una contrainte solo per capriccio. Se la contrainte aggiunge una nuova dimensione al progetto, viva la contrainte.
Nell’Oulipo tuttavia convivono due modi di concepire la contrainte, uno che definirei più perechiano, ovvero quello di cui lei ha appena parlato, dove la contrainte integra il senso narrativo del testo, e un altro più meccanico, performativo e formale.
La contrainte meccanica esiste quando facciamo dei “modelli”, dei piccoli testi creati applicando una regola formale. Anche in quel caso tuttavia non si tratta di pura meccanicità, ma di interrogare la lingua. Per esempio in una regola come S + 7, la contrainte in apparenza più meccanica e imbecille che si possa immaginare – si sostituisce ogni sostantivo di un testo con il settimo che lo segue su un dato dizionario – non c’è nessun intervento artistico, creativo, resta tuttavia qualcosa come un sostrato sonoro, che è importante, ed è profondamente francese: capiamo che c’è qualcosa che ci unisce che non riguarda il senso ma solo e strettamente una dimensione musicale. Una cosa di cui mi rendo conto quando faccio degli stage di scrittura è che la prima cosa gli studenti mi chiedono è se la contrainte deve avere senso. Un grande vantaggio della contrainte è anche potersene fregare del senso: quello lo troverà qualcun altro. Questo atteggiamento sposta in maniera radicale la funzione tradizionale del linguaggio che è quella di comunicare per dire qualcosa.
Lei è arrivato all’Oulipo nel 1971, molto presto.
Sì ero molto giovane, avevo 24 anni, avevo fatto la mia tesi di laurea su Queneau, allora gli ho portato il mio lavoro e il manoscritto del mio primo romanzo. Queneau ha fatto pubblicare il romanzo per Gallimard e una parte della mia tesi sulla Nouvelle Revue Française, e mi ha chiesto di entrare all’Oulipo.
Queneau muore nel 1976, Perec e Calvino all’inizio degli anni ottanta. Lei ha avuto il modo di conoscere da vicino tre geni della letteratura mondiale.
Sono stato fortunato. Ricordo molto bene la riunione dell’Oulipo nella quale Perec ha annunciato che stava lavorando su un libro che rappresentava un edificio a cui viene tolta la facciata descrivendoci tutto il lavoro formale de La vita istruzioni per l’uso. Quello stesso giorno Calvino ci annunciò che stava lavorando su un libro composto da diversi inizi di romanzo. In una sola riunione sono stati presentati due capolavori del Novecento. Nessuno di noi l’avrebbe immaginato: lì per lì sembravano lavori come tutti gli altri.
Queneau era il più anziano, e molto autorevole immagino: all’epoca nella cultura francese c’era Sartre, e subito dopo veniva Queneau, o qualcosa del genere.
Queneau era l’uomo forte della letteratura francese, lavorava da Gallimard, era molto potente, ed era un po’ in rivalità con quelli della generazione precedente, come Jean Paulan, Marcel Arlan. Quando avevo deciso di fare la mia tesi su Queneau, nel 1969 o giù di lì, gli ho scritto dicendo che avevo sette domande da rivolgergli. Ho inviato la lettera a Gallimard e lui mi ha risposto scrivendomi “venga a trovarmi tale giorno a tale ora”: ero contentissimo. Così arrivo a Gallimard, lo trovo dentro un ufficio molto piccolo, lui invece immenso – Queneau era molto imponente, possente: abito nero, cravatta nera, occhiali neri, aveva un lato molto severo, una strana voce e soprattutto uno strano riso. Mi dice: “Dunque lei mi vuole rivolgere sette domande: domanda numero uno?”. Io faccio la prima domanda, lui ascolta, si leva gli occhiali, sistema la cravatta, rimette gli occhiali e dice: “Domanda numero due”, io dico la seconda domanda e la cosa va avanti nello stesso modo fino alla fine. Alla settimana domanda penso questo adesso mi uccide, lui ascolta anche l’ultima e conclude: “Sono delle domande eccellenti, non avrà nessuna difficoltà a trovare le risposte”. Questo è stato il mio primo incontro con Queneau.
Nei suoi libri, anche ne La novità, ci sono molte citazioni “queniane”.
Sì certo, lui è il mio riferimento principale. Ho sempre avuto un’enorme ammirazione nei suoi confronti. Ho cominciato a leggerlo nel 1959, a dodici anni: ricordo molto bene che ero entrato dal libraio sotto casa e lui mi aveva detto, “tieni questo è appena uscito e fa per te”. Era Zazie nel metro, l’ho aperto è ho visto “Doukipudonktan” “Napoléon mon cul”: ero un ragazzino, Queneau mi ha segnato in maniera definitiva. Conosco bene la sua opera, il suo lavoro. Il modo in cui lavorava era segreto, a differenza degli altri membri dell’Oulipo Queneau non raccontava quello che stava facendo: ci portava delle cose concluse, era all’opposto di Perec, che amava condividere ed era molto aperto. Niente di simile. Queneau era Queneau: quelli dell’Oulipo gli davano del voi.
Mi colpisce questo sussiego da parte dell’autore di libri come Zazie” o Il diario intimo di Sally Mara, mi ero fatto un’immagine molto diversa, più goliardica, più scherzosa.
Era molto amichevole ma anche molto distante. Va detto che quando l’ho conosciuto nel 1969 aveva smesso di bere, non era più il Queneau degli anni di Saint-Germain-De-Prés ai tempi della festa, quando era sempre in giro con Janine a fare bagordi insieme a Sartre e compagnia. Ma bisogna anche immaginare cosa era diventato Queneau nel ’59-’60: era il principale responsabile delle edizioni Gallimard, dirigeva la “Encyclopédie de la Pléiade”, aveva pubblicato un romanzo come Zazie dans le metro che è stato il primo best-seller di tipo moderno francese e aveva scritto “Si tu t’imagines”, il tormentone dell’epoca cantato da Juliette Greco. La canzone dell’anno, il libro dell’anno, la posizione più prestigiosa nell’editoria francese, la direzione di un’enciclopedia. Era parecchio per un uomo solo.
Un’ultima domanda: alla fine del suo romanzo c’è Dubois trincerato dietro a un muro di libri che legge in maniera rabbiosa. Potrebbe spiegarmi questa immagine conclusiva?
All’inizio del romanzo Dubois dubita della lettura, si chiede da quanto tempo la sua lettura sia diventata meccanica. I manoscritti che gli mandano e che deve leggere formano una specie di rumore, non sa più se è davvero un lettore, cos’è un lettore, e penso che alla fine con la morte di Adele, sua moglie, ritrovi la lettura. L’ultima frase del libro è “la vita vale ancora la pena di essere letta”. Non vissuta ma letta. Quindi la lettura torna all’improvviso, fa irruzione nella sua vita, ma questa volta è la lettura di un consumatore di libri e non di un editore. La lettura professionale è un po’ come quella dei critici. Io faccio recensioni di ristoranti a Parigi, una splendida attività ma non mangio nello stesso modo quando devo recensire: già mangiando inizio a scrivere il mio articolo. Un editore che legge un manoscritto sta editando, non sta leggendo, sta già ragionando in termini di prodotto, vendita, strategia di comunicazione. Così alla fine Dubois ritrova la rabbia di leggere, quella specie di piacere del tutto libero proprio della lettura. Si sente libero perché i libri lo proteggono dalla morte, lo proteggono dalla vecchiaia e da tutto il resto: rinsalda il legame originario tra se stesso e la lettura, quello che l’ha portato a diventare editore.