

L e creazioni artistiche si schiudono brillando, ed è proprio il concetto di radiosità che può consentirci di sfiorarne il luminoso contorno. Il contorno, ovvero, di un centro buio. Eppure, malgrado questo loro splendido e oscuro luccicare, esse corrono sempre il rischio anche di chiudersi. Collassando sotto la loro stessa gravità, o quando siamo noi, professionisti della vivisezione critica, a racchiuderle in recinti. Ma quando non siamo noi a definirle e a finirle, le opere d’arte, proprio come le stelle che a un certo punto collassano, possono lasciare il posto a buchi neri.
I buchi neri sono regioni del cosmo in cui la forza di gravità è talmente grande da impedire a qualunque cosa, persino alla luce, di fuoriuscire. Una delle loro caratteristiche è la capacità di risucchiare qualunque cosa vi si approssimi troppo. Come nel caso del Big Bang, comportano una singolarità gravitazionale in cui la densità della materia ha valori elevatissimi a fronte di un volume estremamente ridotto. Lo spazio-tempo curva talmente da rendere non più valide nemmeno le leggi legate alla relatività. Lo spiega Stephen Hawking che
la teoria della relatività generale… prevede un punto nell’universo in cui la teoria stessa fallisce. Questo punto è un esempio di ciò che i matematici chiamano singolarità. In effetti, tutte le nostre teorie scientifiche… si arrendono di fronte alla singolarità del Big Bang, dove la curvatura dello spazio-tempo è infinita.
Fenomeni come i buchi neri – ma lo stesso potrebbe dirsi per la materia oscura – ci pongono di fronte a un doppio dilemma che riguarda il limite dei nostri attuali strumenti di conoscenza e il potenziale infinito della umana capacità di visione. Furono prima intuiti dai fisici teorici, e solo in seguito “verificati”. Vennero quindi “pre-visti”, e per questo ora ci consentono di prevedere. Ma che c’entrano i buchi neri con la letteratura? Può questa collassare e divenire un unico spazio insondabile, una singolarità in cui non si possono più applicare le regole della comprensibilità e della mappatura? Il discorso si fa tetro e per uscirne c’è bisogno di luce.
Facciamo un esperimento. Chiudiamo gli occhi, come suggerisce Joyce nel suo Ulisse, e vediamo se vedremo. Ma cosa potremmo vedere ad occhi chiusi, una volta, ovvero, che avremo superato l’orizzonte degli eventi della “ineluttabile modalità del visibile” (Ulysses again…)? Prima di addentrarci in una simile visione interiore, restiamo per poco su questa espressione: l’orizzonte degli eventi, in inglese The Event Horizon. E facciamolo ricorrendo prima alla scienza e poi alla letteratura.
Può la letteratura collassare e divenire un unico spazio insondabile, una singolarità in cui non si possono più applicare le regole della comprensibilità e della mappatura?
L’orizzonte degli eventi possiamo immaginarlo come una linea di confine oltre la quale, non solo quel che è all’interno del buco nero non può uscire (la velocità di fuga equivale alla velocità della luce) ma gli eventi, appunto, non sono più osservabili da fuori. È dunque al contempo un confine invalicabile dall’interno e una linea che esclude la visione esterna di quel che c’è dentro.
Eppure il 10 aprile 2019 è stata divulgata a livello internazionale la prima immagine in assoluto di un buco nero: una struttura luminosa ad anello con al centro una regione scura, l’ombra del buco nero. Com’è stato possibile catturare questa foto? Ovvio, grazie a uno strumento chiamato Event Horizon Telescope, reso possibile da una collaborazione internazionale. L’EHT è in realtà una rete di radiotelescopi sparsi nel mondo, dal Cile al Messico, dalla Spagna all’Arizona, dalle Hawaii all’Antartide. Combinando i vari segnali è riuscito a regalarci un’immagine che in realtà è come se fosse il prodotto di un unico telescopio virtuale. Di nuovo, che c’entra tutto questo con la letteratura?
Vorrei citare un libro recente che sta facendo parlare di sé in modo inatteso, il cui titolo è proprio L’orizzonte degli eventi, di Vittorio Giacopini. Non è un testo di divulgazione scientifica, ma un romanzo. Un romanzo sui generis, a suo modo una singolarità. Scritto in gran parte durante la pandemia, riguarda la pandemia. Ma non nel senso medico. Concerne lo spazio dell’immaginario, mutato drasticamente dai sommovimenti a cui la pandemia ci ha sottoposto. Non traumi, ma veri e propri terremoti dell’io, una regione inconosciuta: un’ombra profonda da cui è sembrato a lungo di non poter fuoriuscire e il cui confine separava in maniera netta il visibile e il noto, da un cuore di tenebra dell’ignoto.
Nel romanzo abbiamo un protagonista vero, e uno no – se i personaggi che infestano i nostri sogni, poi, non sono veri davvero. Questo secondo personaggio è un meraviglioso zingaro dagli occhietti azzurri. È querulo, battibeccante, mette bocca su tutto, sforna continuamente massime, e sferza la società che conosciamo, la pungola, la deride continuamente. Perché lui appartiene all’ombra, al centro del buco nero.
Non può uscirne perché è il protagonista di un sogno ricorrente, e il suo sognatore, quando si trova di fronte lo zingaro, fa parte anche lui di quel buco nero. Neanche lui può scappare. Questo perché il buco nero è il sogno, e se diventiamo parte del sogno ci ritroviamo in quella zona umbratile del nostro essere in cui nessuna ragione, nessuna razionalità può aiutarci più.
L’orizzonte degli eventi di Vittorio Giacopini è un romanzo sui generis, a suo modo una singolarità.
Siamo infatti abituati a pensarci controllori o controllabili, ma di fronte allo zingaro del sogno non lo siamo: in quel suo spazio, in cui veniamo piombati senza capire né quando né perché, è lui a dare le carte. E lui è in parte anche noi, il nostro inconscio, la nostra pulsione verso l’entropia e verso il caos.
L’orizzonte degli eventi è questo: una riproposizione dell’eterna diatriba fra stati di veglia e di sonno, con il prevalere di quest’ultimo, col suo permanere; perché gli “eventi” della storia, quelli legati alla pandemia ma anche alla cronaca (il rogo di Notre Dame nel 2019, ad esempio, o proprio l’immagine del buco nero ricostruita da EHT), vengono risucchiati, nel libro, al di là del confine divenendo così “diversamente visibili”, diciamo.
Nell’opera, ad esempio, è cruciale il continuo riferirsi all’incagliamento dell’enorme nave cargo Ever Given che, dal 23 marzo del 2021, ha ostruito a lungo, e completamente, il Canale di Suez impedendo a qualunque nave di passaggio (quasi 250) di attraversarlo. Quella nave è la metafora di un altro orizzonte degli eventi: ha segnato il confine capace di rendere virtualmente invisibile quel che era al di là, da parte di chi era al di qua. Un confine invalicabile, che ha costretto a manovre alternative. Tante navi, infatti, sono state costrette a circumnavigare il continente africano, con spese ingenti anche solo in termini di carburante (senza contare i ritardi nelle consegne, le merci inutilizzabili e quant’altro). Un vero cataclisma, insomma.
Ma nel libro tutta questa realtà, una realtà fatta di caos che mina continuamente l’ordine, diviene un montare di smottamenti catastrofici in grado di farci capire che la ragione, il calcolo, arrivano solo fino a un certo punto, nella vita, e quel punto è proprio la prossimità dell’orizzonte degli eventi (o la soglia dell’inconscio, se vogliamo, o anche l’incombente permanenza in noi del perturbante).
Ecco, la grande letteratura è questo, credo: l’immaginare a occhi chiusi cosa possa esserci oltre quel confine, il prevedere attraverso la nostra limitata capacità raziocinante il combinarsi di presenze che non vediamo, perché non siamo in grado di solcarla, quella soglia: di solcarla con la ragione, intendo. L’orizzonte degli eventi, e l’orizzonte degli eventi, sono la metafora del nostro bisogno di valicare il confine solo una volta che ci saremo lasciati alle spalle la pura ragione: solo quando ci abbandoneremo allo zingaro, quando lo interrogheremo, non per interrompere il suo vociare petulante, non per avere da lui risposte, ma per sollecitare eterne domande:
Che intendi o sottintendi, lo incalzo (o quantomeno ci provo, mai che mi dia retta), che mi significhi? Lui si fa oracolare, faccia di bronzo. Così è sempre stato per noi, così è per voi. La vostra reclusione di oggi, le quarantene, e le zone policromate, il coprifuoco… E mentre si appresta a svanire, la butta lì: vi siete accomodati nella stasi, peggio per voi. È il vostro corpo che diventa verminoso, ne state morendo… Contenti voi…
E allora, con lo zingaro, ovvero con il nostro instancabile cercarci senza mai vederci, perché vediamo troppo spesso solo con gli occhi, capiamo come la letteratura sia davvero il buco nero: non sappiamo cosa nasconda, cosa trattenga, ma sappiamo che continua comunque ad interagire con l’esterno. Come i buchi neri del cosmo, che anche a enormi distanze continuano ad avere interazioni con il resto, ossia con ciò che resta al di fuori, così la letteratura. Ne siamo fuori. Se entriamo ne veniamo risucchiati, non ne usciamo, finiamo per farne parte. E pur non potendone uscire – perché non si esce dall’immaginario: provate, ad esempio, a non pensare? a non connettere? – interagiremo, in quanto parte del sistema oscuro, con quel che c’è fuori.
E allora, scrivere non è mai verificare, è semmai vergare equazioni non eque: è compiere non eque azioni. È un fare illecito, un mappare non il visibile ma il non veduto. È una scienza del non sapere. Per sapere prima? forse. Per “pre-vedere”. Si chiedeva Giorgio Manganelli: “esiste il ‘bravo’ astrologo? Esiste l’alchimista ‘competente’ e ‘aggiornato’? Allo stesso modo, uno scrittore non ha idea, e nessuno può averla, delle proprie eventuali qualità: esiste il buono scrittore?”.
Il testo letterario è insondabile e profondo, è oscuro come il fondale delle acque in cui s’immergono e si incagliano interpretazioni e teorie.
Eccole le non-equ(e)azioni. Equazioni inaccettabili, equazioni che non tornano. E proprio per questo valide. A dispetto di chi, sempre secondo Manganelli, “vuol scrivere ma vuole anche lavorare” e ha quindi “inventato le storie letterarie, nelle quali si afferma che il tale scrittore è bravo e il tale lo è di meno o di più”. Sono tutte “affermazioni campate in aria”, taglia corto, come lo zingaro, il professore e scrittore, ma anche l’astrologo, l’alchimista della parola, nel senso non equo del termine.
Il linguaggio della letteratura è infatti un gioco di imprevedibile combinatoria, è un incastro lulliano, è un indice di corrispondenze che ci consente di interagire con quel che ne è estraneo, e dunque anche con la nostra parte razionale. Insondabile e profondo, è oscuro come il fondale delle acque in cui s’immergono e si incagliano interpretazioni e teorie. Il mare dell’interpretabilità, lo chiamo, che sommerge ma da cui talvolta s’emerge. È il magma verbale ribollente che fioco affiora e seppellisce.
Come il rincorrersi di azione e inazione, di torpore e di veglia, nel ciclico permutare che abitiamo. Il teatrino del mondo, del cosmo. E del caosmo (grazie di nuovo, Joyce!). Ed è in quel ricircolo, in quel labirincubo che nascono e si perpetuano l’arte e la letteratura, fonte della nostra vita. È in quella rincorsa inconsapevole e strana, ineluttabile che, ammonisce logorroico lo zingaro, ci perdiamo, perché
la distopia … la contro-utopia s’è fatta cronaca o minuta frattaglia, documentario. Gaggio, su, sveglia! Più che mutanti siete – e definitivamente – mutati, virtualizzati, e d’altra parte l’avevate intuito, in fondo era nei patti. I vostri filmetti per soli adulti spauriti, la fantascienza, le vostre visioni ieri tanto audaci ed estremiste, oggi sottomisura e cauteloso-banali, scialbo-neoliberiste, noto-previste.
Blade Runner – diciamolo – pare una fiaba dei Grimm, pure un po’ annacquata, Matrix oramai non vi fa manco un baffo, è solo cronistoria. Bada, amichetto, che mica filosofeggio, mica sproloquio, è tutto qui bello squadernato nei fatti, sotto gli occhi di ognuno. V’è bastato un anno scarso di spavento panscemico, un motivo d’allarme, però, e te ne accorgi da te, eravate già pronti: il grande collaudo, e poi il grande trasloco… In questa second life, dentro questo teatrino! Tietteli stretti e cari i tuoi sogni, almeno sono reali (per quanto sempre di sogni si tratti, un’assurda sciarada).