Giorgia Tolfo
/ IMMAGINE: GIORGIA TOLFO, Orford Ness e il Black Beacon, Ottobre 2022
3.9.2024
Orford Ness
Spazio orizzontale e letteratura.
Giorgia Tolfo è una ricercatrice indipendente, critica letteraria e traduttrice basata a Londra. Ha un dottorato in Letterature Comparate e Postcoloniali e lavora nel campo delle Digital Humanities. È co-fondatrice di FILL (Festival of Italian Literature in London), scrive su varie riviste e collabora a progetti culturali internazionali.
O
rford Ness è un’ex sito militare nel Suffolk in cui nel periodo tra le due guerre sono stati condotti segreti esperimenti militari. Nel 1995 è diventato una riserva naturale. La prima volta che l’ho incontrato è stata leggendo Gli anelli di Saturno di W. G. Sebald. La seconda quando l’ho visitato di persona con alcuni amici nell’ottobre del 2022. La terza, e più recente, lo scorso inverno leggendo A Flat Place, il memoir-saggio dell’accademica anglo-pakistana Noreen Masud, in uscita per Add Editore (Terre piatte. Dove non serve nascondersi, 2024, trad. Sara Reggiani).
Ripensando a questi incontri, mi sembrano caratterizzati tutti da un’esperienza comune, quella di ritrovare nella piattezza e orizzontalità quasi deserta del luogo un’arcana e in qualche modo mistica esperienza esistenziale, quasi che giunti là con una serie di aspettative e sovraccarichi informativi, non trovandoci praticamente nulla da vedere, si sia spinti a interrogarsi sul senso del tempo, dell’esperienza umana, e della storia. Questa terra sembra infatti indicare a tutti l’esistenza – o forse persistenza nella nostra esperienza umana e limitata – di qualcosa indefinibile e invisibile, qualcosa, forse un limite insormontabile, che deve essere accettato com’è, nella sua impossibilità di manifestarsi e nella sua irriducibilità.
Visitandola, Orford Ness sembra alludere, in mancanza di parole più precise, al bisogno umano di poter rinunciare a contenere tutto nella parola, al bisogno di lasciarsi andare e accettare la permanenza del dramma della storia, personale e/o collettiva, rassegnandosi alla loro impossibilità di essere completamente compresi e processati. Allo stesso tempo, pur mostrandoci la limitatezza della comprensione di certe esperienze umane, offre la possibilità di una riconciliazione liberatoria, l’occasione di una riappacificazione con il bisogno di conoscere l’inconoscibile. Ma soprattutto, nella sua indeterminatezza vuota e orizzontale, Orford Ness permette, a chi la visita, di proiettarci sopra e confrontarsi con le proprie domande esistenziali, universali certo, ma personali in primo luogo. Quelli che seguono sono tre di queste esperienze.
Tra i relitti della nostra civiltà, andata a picco nel corso di una catastrofe a venire “Avevo studiato prima sulla cartina la curiosa conformazione della costa vicino a Orford ed ero stato attratto dalla lingua di terra per così dire extraterritoriale di Orford Ness che, nell’arco di millenni si era spinta da nord, una pietra dopo l’altra sin davanti alla foce dell’Alde.” Il primo contatto tra Sebald e Orford è attraverso una mappa. Quando va a visitarla la prima volta, nel 1972, può solo fermarsi al paese sulla costa. Il Ness, ovvero l’isola-promontorio formata dall’accumularsi della terra spinta dalle acque, è infatti ancora di proprietà militare e senza un permesso non è possibile raggiungerlo. Così Sebald si ferma al porto e la osserva in lontananza, inaccessibile come una remota colonia penale d’Oriente, come il “deserto del Nevada” o un “atollo nel Pacifico”.
Un ventennio più tardi, torna a visitarla. L’isola nel frattempo è stata acquistata dal National Trust e convertita in riserva naturale. Nonostante rimangano ancora visibili i resti degli ex laboratori, ora è possibile raggiungerla in barca. Sebald non perde l’occasione e trovato un uomo seduto inoperoso al porto, disposto a traghettarlo per un paio di sterline, si avvia verso Orford Ness a bordo di una piccola barca. “Mentre attraversavamo il fiume nel suo cutter azzurro fornito di motore diesel, [l’uomo] mi raccontò che Orford Ness continuava a essere evitata da tutti. Persino i pescatori […] perché in quel luogo abbandonato da Dio e proteso sul nulla non si riusciva a resistere, anzi il permanervi aveva causato addirittura disturbi psichici duraturi.”
Orford, per dirla con Mark Fisher, è haunted.
Il racconto non preoccupa Sebald. Sa che Orford, per dirla con Mark Fisher, è haunted. Che è infestata da segreti militari che vanno dalla presenza di una “rete invisibile di raggi letali” a esperimenti con un “nuovo tipo di gas nervino o un altro mezzo di sterminio di massa (i cui effetti vanno al di là dell’immaginabile)”. Sa che si racconta che tra le guerre un sistema di condutture sottomarine avrebbe causato un incendio così violento da scaldare la superficie dell’acqua e bollire un indefinito numero di pionieri inglesi (o possibili soldati tedeschi che indossavano uniforme inglesi). Di questo e altro, spiega Sebald nei Rings, secondo i locali ci sarebbe stata prova in un documento del Ministero della Difesa – Evacuation of the Civil Population from Shingle Street, Suffolk – tenuto misteriosamente chiuso dal governo per settantacinque anni anziché per i soliti trenta di prassi, anche se poi, all’apertura, nel 1992, il documento non aveva mostrato altro che vaghi riferimenti a innocui esperimenti col gas. Poi però si era diffusa la voce di una possibile omissione – “it seems likely that sensitive material was removed before the file was opened and so the mystery of Shingle Street remains”– e il mistero era stato protetto.D’altra parte, la permanenza durante tutta la Guerra Fredda dei Secret Weapons Research Establishments non poteva che confermare altro: a Orford c’era del marcio.
Attraversato il canale, finalmente Sebald approda all’Isola. “Già dopo pochi minuti avevo l’impressione di avanzare in una terra inesplorata, e mi sentivo – lo ricordo ancora adesso – perfettamente libero, ma anche in preda a un’ansia immensa. Non un solo pensiero si agitava nella mia mente. A ogni passo il vuoto, dentro di me e intorno a me, si faceva più vasto e il silenzio più profondo.” Una lepre gli attraversa inaspettatamente la strada e lui è preso quasi da un “terrore mortale”. Si ferma, aspetta che il sangue ritorni a circolare e riprende a camminare. Superato il ponte che porta all’area in cui si conducevano le ricerche, Sebald si ferma e si guarda attorno: la distesa di sassi, la fanghiglia che riflette la luce, l’acqua del canale. E poi ancora, in lontananza, costruzioni di cemento “che facevano pensare, forse per la loro strana forma conica, a tumuli dove, in epoca preistorica, fossero stati sepolti grandi sovrani con tutte le loro suppellettili e con i loro manufatti d’argento e d’oro”, e strane strutture a forma di tempio o pagoda “che proprio non riuscivo a collegare a installazioni militari”.
Riprende a camminare e quanto più si avvicina alle ex strutture militari, tanto più si dilegua “l’idea che quella fosse una misteriosa isola dei morti” e cresce invece la sensazione di ritrovarsi fra i “relitti della nostra civiltà, andata a picco nel corso di una catastrofe a venire.” Procede ancora fino agli ex bunker, poi si ferma. Non può più avanzare, la strada finisce, non riesce a sciogliere l’enigma che percepisce camminando sull’isola. Quali creature potevano aver vissuto lì? A che cosa erano serviti quegli strani impianti di cui rimaneva solo alcuni rottami metallici e frammenti di cemento?
Non c’è risposta, non c’è spiegazione, il luogo non risponde, non mostra niente, rimane silenzioso a proteggere un mistero creato e preservato dall’uomo per spiegare qualcosa a cui altrimenti non riuscirebbe a dare parola. La terra non offre risposte, segni, Sebald può solo proiettare la sua conoscenza e le sue sensazioni su quello spiazzo piatto, così alla fine, senza risposte ma haunted, si gira su se stesso e si riavvia verso il punto in cui lo aveva lasciato il barcaiolo determinato a rientrare a casa. Nei Rings scriverà: “Dove e in quale epoca io sia veramente stato quel giorno a Orford Ness, non saprei dirlo neanche adesso, mentre vado scrivendo queste pagine”.
Nello spazio dell’incertezza Noreen Masud legge The Rings of Saturn durante il primo anno di università a Cambridge. È arrivata in UK dopo aver trascorso quindici anni chiusa in una casa di Lahore sotto la stretta sorveglianza del padre medico, pakistano ma anglofilo, che per le figlie vuole solo la massima protezione, la piena salute, i più alti risultati scolastici. È per questo che le ha cresciute chiuse in casa costringendole a vivere in uno spazio delimitato da quattro mura, a dormire stipate in una camera con la madre (scozzese, trasferita in Pakistan e convertita all’Islam), a parlare solo l’inglese, a prendere medicinali indefiniti per farle crescere in salute. Ed è sempre per questo che disconosce Noreen quando con la madre e la sorella fugge in Inghilterra e abbandona la casa natale.
Finalmente libera dal controllo del padre, Noreen però non trova in Inghilterra il conforto sperato. L’esperienza di prigionia a Lahore, punteggiata da sole poche uscite per andare a scuola in macchina, attraversando la città e i campi vuoti distesi della periferia, non si conclude con l’allontanamento dal padre, ma inizia a manifestarsi in una serie di violente reazioni psico-fisiche: il corpo che si irrigidisce inspiegabilmente, il rigetto del contatto fisico, una strana sensazione di ineluttabilità e mancanza di desiderio per il futuro, il bisogno costante di chiudersi in se stessa.
Noreen non riesce a comprendere queste sensazioni, non sa se quello strano irrigidimento possa avere le stesse origini dell’epilessia di cui soffre la sorella. Che sia legato alla prigionia? Difficile dirlo, in fondo il padre non era “cattivo”, semplicemente le teneva chiuse in casa. Un trauma, per quanto ne sa, dovrebbe essere legato a un evento specifico, e lei questo evento specifico non riesce a ritrovarlo nel passato. Eppure, ogni volta che pensa ai quindici anni trascorsi a Lahore, prova una “brutta sensazione”, come se qualcosa le frullasse “ai margini della memoria”, che cercasse di entrare “come un uccello che picchia ripetutamente contro una finestra.”
Non c’è risposta, non c’è spiegazione, il luogo non risponde, non mostra niente, rimane silenzioso a proteggere un mistero creato e preservato dall’uomo per spiegare qualcosa a cui altrimenti non riuscirebbe a dare parola.
“Ogni volta che provavo a mettere a fuoco quella sensazione tutto ciò che vedevo era un’immagine dei campi pianeggianti di Lahore che si estendevano a perdita d’occhio, senza un punto in particolare su cui potessi concentrarmi. Era come sforzarsi di ricordare qualcosa che non esisteva. Cercavo nel paesaggio un indizio, qualsiasi cosa potesse guidarmi, ma non trovavo nulla. Eppure l’immagine di quello spazio nudo [dei campi vuoti che attraversava per andare a scuola] mi teneva stretta nella sua presa.” Noreen non sa come interpretare questa sensazione. Perché è attratta da quello spazio nudo? È una conseguenza del tempo passato in casa? E se lo è, perché quell’immagine la tiene stretta nella sua presa? È il senso di apertura dello spazio che si oppone alla clausura casalinga? È la mancanza di oggetti su cui focalizzare l’attenzione? È un’illusione? Uno spazio su cui proiettare sensazioni passate e desideri futuri?
Ancora non lo sa, ma mentre si fa queste domande e inizia ad andare in terapia, si ritrova a leggere The Rings of Saturn per un corso universitario, al termine del quale si unisce ad una gita organizzata a Orford Ness. Il primo incontro di Noreen con Orford è attraverso Sebald. Attraverso lui sa che è “una lingua di ghiaia nel Suffolk”, un luogo che “sembrava uscito da un film post-apocalittico, raso al suolo da una catastrofe”, che ha una storia complessa dove si intrecciano memoria e inquietudine. Come ci si arrivi, che effetto faccia visitare quel luogo, che significato possa assumere visitandolo, lo sa solo attraverso l’esperienza di Sebald.
Quando ci arriva, però, si rende conto che non c’è “bisogno delle torri militari arrugginite o delle basi spezzate delle antenne radio” per innamorarsi di Orford Ness. Basta la piattezza dell’isola. “Guardando oltre i ciottoli, percepivo quanto poco quel paesaggio avesse bisogno di me. Per lui non contavo niente. Avrei potuto essere un ciuffo di lanugine di cardo che rotolava innocentemente sulla distesa piatta, senza lasciare traccia.” Orford Ness le rivela subito ciò che ha da offrire, non vuole sedurla “con la promessa di una nuova gioia dietro l’angolo, di una vetta da scalare o di un crepaccio da esplorare.” Orford Ness è un paesaggio “intento solo a essere sé stesso” e niente di più.
Rapita da quello spazio inflessibile e taciturno, Noreen rientra a Cambridge e interrogandosi sull’esperienza appena vissuta, capisce due cose: “che quella piattezza non era un’assenza ma qualcosa di forte, autentico e vivo. E che di quella piattezza, se la lasciavi entrare, potevi innamorarti.” Spinta da queste due intuizioni, decide di approfondirle. Che ci sia una relazione tra le sue reazioni psico-fisiche e quella sensazione di tregua provata di fronte a uno spazio “intento solo a essere se stesso”? Come può uno spiazzo piatto, orizzontale e vuoto essere tanto vivo, conservare tanta memoria, pur manifestandosi come un’assenza?
Noreen vuole trovare una risposta a queste domande, così mentre la sua carriera accademica procede tra un dottorato, un post-doc e infine una cattedra di poesia all’Università di Bristol, fa un piano: intraprendere una serie di escursioni a luoghi del Regno Unito noti per la loro piattezza e apparente vuotezza (le Fens in Norfolk, la baia di Morecambe, la brughiera di Town Moor a Newcastle, e le isole Orkney) e capire da dove nasca quell’amore provato in maniera inattesa a Orford. E poi, naturalmente, scriverne.
È così che nasce A flat place (Le terre piatte) un memoir, saggio letterario e travelogue che racconta queste escursioni e la progressiva scoperta di cosa significhi convivere con lo stress post-traumatico complesso (cPTSD). Lo stress post-traumatico complesso, spiega Masud, riprendendo la definizione della psichiatra Judith Lewis Herman, è il risultato dell’esposizione a traumi prolungati e ripetuti nel tempo. Non è un evento unico e paralizzante, ma “quello che succede quando nasci e sei modellato da un mondo in cui non c’è mai sicurezza. Quando le persone che dovrebbero prendersi cura di te sono spaventose e inaffidabili, quando per anni vivi convincendoti di non avere vie di fuga”. Riconoscerne l’esistenza è però solo il primo passo del percorso di elaborazione. Il secondo è cercare di trovare strategie di difesa, strumenti con cui alleviarne l’impatto.
Camminare al centro delle terre piatte, comprende a questo punto Noreen, è una di queste. Le terre piatte, infatti, “chiedono di tollerare di non sapere. Non sapere cosa c’è sotto la superficie, se qualcosa c’è.” Non solo, se da un lato il “connubio di totale esposizione e totale ermeticità” che si manifesta in questi spazi orizzontali richiede di “accettare che esistano cose che non capiremo mai”, dall’altro queste stesse terre orizzontali e apparentemente vuote offrono anche indizi su come “potremmo vivere nel loro spazio di incertezza.”
A distanza di dieci anni dalla gita universitaria, nel 2023, Noreen torna a Orford con alcuni amici. Il paesaggio è lo stesso anche se nel frattempo, tramite il National Trust, il turismo ha iniziato a svilupparsi nella zona. Come la prima volta prende una barca e attraversa il canale, stringendo le gambe al corpo per non mostrare agitazione. Approda all’isola e ripercorre lo stesso sentiero della prima gita. Lo stesso su cui ha camminato Sebald. Si guarda attorno, riconosce la pagoda, il radiofaro, i resti dei bunker. Visita il museo e legge la storia dei vari esperimenti balistici, i tabelloni che indicano le differenti piante rare presenti sull’isola. Cammina dietro all’amica Rachel e ripensa alla settimana in cui ha lasciato il Pakistan, quando il padre l’ha disconosciuta con la sorella e la madre. Si chiede se ci possa essere un evento che abbia scaturito il rifiuto del padre. Che sia stata la pianificazione segreta della fuga in Inghilterra con la madre? L’università all’estero? Non lo sa. Non c’è un evento, a tormentarla sono i quindici anni di clausura precedenti. Si guarda attorno. Vuole andarsene. Rachel suggerisce di andare prima a passeggiare lungo Shingle Street, un tratto di Orford con un altro tipo di ghiaia, una zona senza i ruderi degli impianti militari. Uno spazio piatto, completamente vuoto. Il luogo dove le artiste olandesi Lida Kindersley e Els Bottema hanno creato una lunga fila di conchiglie bianche di buccino quando è stato loro diagnosticato un cancro a distanza di pochi mesi – la diagnosi era stata terribile, ma tornare a quella spiaggia ogni sei mesi, camminare e raccogliere conchiglie era stato il loro modo di provare a ricominciare a vivere. La linea di conchiglie non è visibile, ma Noreen è serena. Raccoglie una hagstone, una pietra con un buco al centro e guarda l’orizzonte.
Gli spazi piatti e vuoti impongono di immergersi in una sorta di contraddizione, di accettare che tutto quel che c’è da vedere sia accessibile e di illudersi che non ci sia nulla da vedere. Fanno vacillare di fronte a un messaggio che non si sa decifrare e allo stesso tempo indicano che la risposta non è importante. “A volte è solo questione di vivere il momento, in silenzio e con fermezza, con ciò che già sai e che hai sempre saputo.”
I see a silence Finito di leggere The Rings of Saturn, ho cercato Orford su google maps e ci ho messo una bandierina. Sette anni dopo aver messo la bandierina, un sabato di Ottobre, l’ho raggiunta in compagnia di tre amici scrittori. Mentre aspettavamo che arrivasse la nostra traghettatrice, abbiamo sorseggiato un costoso flat white comprato in un café locale sfogliando la copia del libro di Sebald portata da uno di loro. L’aveva comprata recentemente, ma non avendola ancora letta, noi che conoscevamo la storia del posto gliel’abbiamo riassunta sommariamente – gli impianti militari, i test balistici, la fauna e la flora, l’aspetto apocalittico, i soldati bolliti in acqua. I sassolini, la ghiaia, l’orizzonte piatto. Le possibili mine, i rottami arrugginiti. La zona impenetrabile.
Era l’effetto di Orford Ness? Era lo spazio piatto e vuoto? Erano, quello che mi circondava e quello della poesia, spazi reali o spazi personali?
Era il 2022, il libro di Noreen Masud non era ancora uscito. Ancora non lavoravo agli archivi nazionali, dove è conservato il documento Evacuation of the Civil Population from Shingle Street, Suffolk che avrei sfogliato prima del viaggio. Mentre attraversavamo il canale verso l’Isola, la traghettatrice ci ha raccontato che era da poco rientrata in Inghilterra dopo aver trascorso vent’anni come skipper sulle barche a vela nei Caraibi. Mentre ci guidava verso l’Isola stringendo con la mano il timone del motore fuoribordo ho ripensato alle estati trascorse da piccola nella laguna veneta, quando con mia sorella e i miei cugini prendevamo il gommone e andavamo nelle barene a raccogliere cappelunghe. Il cielo era azzurro come quello in Italia. C’erano poche nuvole. Era stranamente caldo per essere un giorno di Ottobre. A parte una coppia di mezza età, eravamo gli unici a visitare Orford Ness a quell’ora.
Quando siamo scesi all’attracco ci siamo avviati lungo il percorso più lungo, quello che ci avrebbe permesso di avvicinarsi ai resti degli impianti militari passando prima attraverso l’hangar dove era installata la mostra informativa creata dal National Trust e poi accanto al Black Beacon, l’ex radiofaro dove, secondo le indicazioni ottenute al porto, avremmo trovato un’installazione artistica.
Alla pagoda non si poteva arrivare. Così, raggiunti gli ex laboratori, vedendola in lontananza, allo stesso modo di Sebald e Masud, ci siamo girati su nei stessi e abbiamo ripreso il cammino per ritornare al punto di origine. Il sole creava un gioco di riflessi sul mare che confondeva la linea dell’orizzonte. Difficile dire dove finisse la terra e dove iniziasse il mare. La luce era tale da rendere le foto in bianco e nero stampate nel libro di Sebald una cinica menzogna, anche se gli elementi visibili nelle foto erano gli stessi che ci si stavano parando di fronte – la pagoda, il radiofaro, la passerella sopra il canale.
Quando siamo arrivati al Black Beacon, abbiamo deciso di andare a vedere l’installazione. Non c’era nulla da vedere, era un’installazione sonora. Siamo entrati nel radiofaro e ci siamo chiusi la porta alle spalle. Tramite una scala a chiocciola si accedeva al piano più alto dove erano stati posizionati degli sgabelli di fronte ai quattro oblò rivolti ai quattro punti cardinali. In sottofondo si sentiva la registrazione audiofonica di una lunga poesia in prosa scritta dal poeta Ilya Kaminsky durante quella che il dépliant abbandonato all’ingresso spiegava essere stata una residenza artistica sul posto l’anno precedente. L’opera si intitolava I See a Silence. Era un insieme di brevi frammenti poetici narrativi, la lingua era semplice, quasi piatta, ma seduti lì, in silenzio a guardare all’orizzonte, dentro quel radiofaro nero che svettava sulla distesa accecante della riserva, ho finalmente provato una profonda emozione. Forse quella che avevo sperato di provare la passeggiata precedente, e che invece non si era manifestata.
Era l’effetto di Orford Ness? Era lo spazio piatto e vuoto? Era la semplicità della lingua che senza ornamenti e abbellimenti permetteva alla mia immaginazione e alle mie emozioni di vagare libere senza doversi posare su alcun dettaglio? Erano, quello che mi circondava e quello della poesia, spazi reali o spazi personali? Stavo vagando più liberamente con l’immaginazione perché l’inglese non era la mia lingua madre e dunque potevo, della poesia, creare una traduzione personale, infedele al testo di origine, ma fedele alle mie emozioni del momento? Mi stavo muovendo con lo sguardo sullo spazio aperto senza contenimento come si fa col pensiero prima che trovi ferma nella parola?
Rientrata a Londra, la settimana successiva ho cercato informazioni sul poema di Ilya Kaminsky. In un’intervista, il poeta spiegava di non essere mai stato a Orford. La pandemia gli aveva impedito di raggiungerla così del posto si era creato solo un mindscape, un’impressione mentale derivata dall’osservazione di fotografie, dalla lettura di racconti e interviste, dall’ascolto di un soundscape creato dal sound artist Axel Kacoutié. Il poema che avevamo ascoltato nel Black Beacon pensando che Ilya l’avesse scritto guardando attraverso gli oblò da cui stavamo guardando noi, ascoltando, come noi, il soffiare del vento e della risacca, era quindi nato unicamente dalla sua immaginazione e non dal rapporto fisico con lo spazio. Ma non solo. Se anche fosse mai arrivato a destinazione, ho capito leggendo l’intervista, quei suoni non li avrebbe potuti sentire perché Kaminsky è sordo.
Ho pensato a come le nostre percezioni siano sempre tanto reali e vere quanto parziali e sbagliate, a come un luogo possa trasformare quello che scriviamo e come quello che scriviamo possa trasformare un luogo,
Sono andata a recuperare I See a Silence e leggendone alcuni estratti mi sono accorta di qualcosa che non potevo sapere ascoltandola registrata. In una breve nota di accompagnamento, Kaminsky specificava che il silenzio non esiste. È un’invenzione degli udenti. Cosa poteva significare dunque vedere il silenzio? E soprattutto vederlo quando si è in un altro posto? Quando non si può nemmeno sentirlo registrato?
Finito di rileggere gli estratti della poesia, mi sono avvicinata alla finestra e guardando in strada ho ripensato alle diverse esperienze che avevo provato ascoltando e leggendo la stessa poesia in luoghi diversi – in piccolo appartamento a Londra e all’interno di un radiofaro a Orford Ness – e a come le nostre percezioni siano sempre tanto reali e vere quanto parziali e sbagliate, a come un luogo possa trasformare quello che scriviamo e come quello che scriviamo possa trasformare un luogo, a come il desiderio di capire, vedere e sentire sia un fantasma che domina la vita. A come una nota a piè di pagina possa ridefinire completamente le nostre esperienze.
A come ognuno di noi – io, Sebald e Masud – possiamo essere stati nello stesso luogo e aver proiettato sul suo spazio orizzontale il nostro personale indicibile – la fine della civiltà, un trauma complesso o la fugacità di un’emozione preverbale. A come insomma Orford Ness, nel suo distendersi piatto e orizzontale, senza offrirci nulla da vedere con gli occhi, abbia regalato a tutti, in maniera diversa e per un breve istante, la possibilità di sentirci liberi al di fuori del bisogno costante di dare senso a tutto, tanto all’orrore quanto all’emozione.