S ono passati poco più di sei anni da quando l’ETA ha annunciato la fine della lotta armata. Il 20 ottobre 2011, il gruppo terrorista basco ha diffuso un video in cui tre esponenti vestiti di nero, maschera bianca, pugno alzato, chiedevano al governo spagnolo e a quello francese di aprirsi al dialogo. Accanto a loro le bandiere e i simboli che hanno scandito quarant’anni di scontri e attentati condotti dalla frangia più estremista del gruppo nazionalista basco: la Ikurriña, la bandiera rossa verde e bianca creata dai fondatori del Partito Nazionalista Basco e il simbolo dell’ETA, un serpente attorcigliato attorno a un’ascia accompagnato dal motto Bietan Jarrai, “perseguire entrambe”, la strada della lotta armata e quella politica.
È da questo evento che prende le mosse Patria di Fernando Aramburu (Guanda, 2017, traduzione di Bruno Arpaia), pubblicato in Spagna nel 2016, caso editoriale e vincitore del Premio Nazionale per la Narrativa. Il romanzo ripercorre gli ultimi trent’anni di storia basca attraverso le vicende di due famiglie, amiche e poi nemiche, in un paesino della provincia di San Sebastián. Il giorno dell’annuncio della resa Bittori, vedova di una vittima dell’ETA, fa visita alla tomba del marito Txato. Dopo avergli parlato dei figli, prosegue: “L’altra cosa che volevo dirti è che la banda ha deciso di smettere di ammazzare. Non si sa ancora se l’annuncio è serio o se si tratta di un trucco per prendere tempo e riarmarsi. Ammazzino o no, a te cambia poco. E non credere che per me sia molto diverso. Ho un grande bisogno di sapere. L’ho sempre avuto”. Quello che Bittori ha bisogno di sapere è l’identità del suo assassino. Da qui si snoda il romanzo attraverso i personaggi che gravitano attorno al paese: gli uomini con le loro partite di carte al bar e le gite della domenica in bicicletta; le mogli con le loro preoccupazioni per l’orientamento politico dei figli; Joxe Mari, il combattente che si assolda nell’ETA e il fratello più piccolo, l’altra faccia della medaglia, restio a unirsi alla lotta armata ma rispettato in paese per la padronanza della lingua euskera. Attorno a loro si muovono figure minori, come il proprietario del bar dove sono esposte le foto dei militanti catturati o il prete che predica a favore della causa nazionalista:
Dio a noi baschi ci ha fatti come siamo, tenaci nei nostri propositi, lavoratori e saldi nell’idea di una nazione sovrana. Perciò mi azzarderei ad affermare che su di noi ricade la missione cristiana di difendere la nostra identità, e pertanto la nostra cultura e, sopra ogni cosa, la nostra lingua. Se quest’ultima scompare […] chi pregherà Dio in euskera, chi canterà le sue lodi in euskera?”
Accanto a questi personaggi dai tratti quasi folkloristici – non fosse per il risvolto inquietante delle loro azioni – si riconoscono gli elementi del clima teso di quegli anni: la “tassa patriottica” richiesta ai piccoli imprenditori, la campagna di terrore mossa nei confronti di chi non vuole pagare, le scritte minacciose per strada, gli attacchi alle loro proprietà, l’isolamento di tutta la famiglia. La trama procede a balzi, cambiano i punti di vista affidati di volta in volta ai personaggi principali, cristallizzati in epoche diverse delle loro vite. Non ci sono riferimenti temporali precisi, né una trama chiara, ma la vicenda si ricostruisce attraverso i pensieri e le azioni dei protagonisti. Questo collage di voci e opinioni restituisce l’idea che una narrazione univoca di quegli anni non sia ancora possibile, manca un giudice super partes che possa mettere insieme i fili della storia e restituirne un resoconto lineare. Quello che è successo è ancora troppo fresco e difficile da definire per essere incasellato in una versione ufficiale.
Poco prima che Aramburu, professore di spagnolo in Germania dal 1985, si cimentasse nella scrittura del grande romanzo della storia basca recente, un altro compatriota ha tentato l’impresa. Si tratta di Ramon Saizarbitoria, sociologo e scrittore, che nel 2012 ha pubblicato Martutene, un romanzo non distante da Patria per temi, profondità e ambizione del progetto. Il romanzo prende il nome da un quartiere di San Sebastián, nato come zona di lusso e diventato nel tempo una grande area industriale. Si svolge sempre nel 2011, l’anno dell’armistizio. I personaggi ideati da Saizarbitoria sono tutti in qualche modo impegnati in una lotta personale per difendere e affermare i valori della loro cultura. C’è una coppia di medici di mezza età, Iñaki e Pilar, e una coppia di letterati: lo scrittore Martin, determinato a mantenere viva la cultura basca scrivendo solo in euskera e Julia, sua compagna e traduttrice, per cui lo stesso obiettivo si raggiunge con la traduzione del lavoro di Martin in lingua spagnola. Anche loro si trovano a fare i conti con quello che significa identità culturale nel periodo successivo all’ETA, un equilibrio sottile che rischia di portare all’oblio o all’inasprirsi delle istanze nazionaliste.
Per quanto simili per ambientazione e ampiezza di respiro nel dipingere un periodo storico così recente e doloroso, i due romanzi differiscono per un aspetto fondamentale: la lingua. Patria di Aramburu è scritto in spagnolo, una scelta che permette al romanzo di raggiungere un pubblico molto più ampio. Martutene di Saizarbitoria, invece, è stato scritto in euskera, la lingua parlata dal popolo basco, e tradotto in inglese tre anni dopo. Alla base di questa scelta stanno due filosofie diverse di intendere il rapporto con la propria identità e cultura, che riveste un ruolo centrale anche all’interno dei romanzi. In entrambi, infatti, sono presenti delle figure di scrittori, impegnati nella conservazione del patrimonio culturale basco tramite le loro opere. Per Martin di Martutene, scrivere in spagnolo sarebbe “come tradire la comunità linguistica basca”. Per Gorka, il fratello di Joxe Mari, la conoscenza perfetta dell’euskera diventa un motivo di ammirazione da parte dei compaesani, al punto che anche il prete sottolinea come l’affermazione di un patrimonio letterario sia un passo importante tanto quanto la lotta armata:
Il nostro è stato un popolo intraprendente, avventuroso, di uomini coraggiosi e devoti. Abbiamo lavorato il legno, la pietra, il ferro e abbiamo percorso tutti i mari; ma sfortunatamente, nel corso dei secoli, noi baschi non abbiamo prestato abbastanza attenzione alle lettere. […] L’euskera, l’anima dei baschi, ha bisogno di appoggiarsi su una letteratura propria. Romanzi, teatro, poesia. Tutto. Non basta che i bambini vadano all’ikastola, che i genitori parlino e cantino per loro in euskera. Sono più necessari che mai dei grandi scrittori che portino la lingua al suo massimo splendore. Uno Shakespeare, un Cervantes, in euskera, questo sì che sarebbe meraviglioso. T’immagini?”
L’affermazione della letteratura e della lingua basca va di pari passi con quella del popolo. In mancanza di un riconoscimento a livello politico, infatti, i baschi si identificano fortemente con l’euskera. La Comunità Autonoma spagnola formata dalle regioni di Alava, Biscaglia e Guipuzcoa si riconosce affine alle regioni francesi della Bassa Navarra, Soule e Labourd proprio in quanto parlanti la stessa lingua: Euskal Herria, il nome che gli abitanti della regione hanno dato al proprio territorio, significa infatti “il popolo che parla la lingua basca”. Durante il regime franchista, contrario a ogni tipo di autonomia regionale, l’euskera venne soppresso in favore del castigliano, ma continuò a vivere nella dimensione privata delle case, diventando il baluardo della lotta per l’autonomia.
La natura stessa dell’euskera è parte del suo fascino. La lingua basca è l’unica in Europa ad avere radici precedenti a quelle indoeuropee: le sue origini sono quindi più antiche del latino e del greco. A causa probabilmente della sua posizione geografica, ritagliata tra l’Oceano e i Pirenei, l’euskera non ha nessun legame con le lingue di origine latina, germanica o anglosassone che si sono diffuse nel resto del continente, ed è rimasta isolata dalle contaminazioni, prestiti e calchi con cui si sono trasformate ed evolute le altre lingue europee. È una lingua che ha fatto della trasmissione orale la sua forza, al punto da non avere un codice linguistico unificato e un canone letterario alle spalle. Bernardo Atxaga, il primo scrittore basco ad aver varcato i confini della regione con la sua raccolta di racconti Obabakoak (1988), nella prefazione all’edizione inglese afferma: “I write in a strange language”, scrivo in una lingua strana. E prosegue: “Born, they say, in the megalithic age,/ it survived, this stubborn language, by withdrawing,/ by hiding away like a hedgehog”.
L’euskera è una lingua testarda, un riccio che è riuscito a sopravvivere alla forza del tempo e delle invasioni nascondendosi nella sua tana sui Pirenei. “Its sleep was long, its bibliography short”, il suo sonno è stato lungo, la sua bibliografia corta: conta appena quattro pubblicazioni degne di nota. La prima opera, una raccolta di poesie, risale al 1545; la più importante, Gero, è del 1643, ed è seguita nel 1571 dal Nuovo Testamento Calvinista e nel 1860 dalla Bibbia Cattolica completa. Ma nel Ventesimo secolo, continua Atxaga, il riccio si è risvegliato. Obabakoak è una raccolta di racconti ambientata in un paesino immaginario, una Macondo europea, descritta dal suo autore come un luogo dell’anima. Nei suoi racconti Atxaga fa giocare questo riccio con parodie, indovinelli, giochi di parole, e lo porta per la prima volta sotto gli occhi del mondo.
È un meccanismo che richiama alcuni esempi della letteratura postcoloniale in lingua inglese. Una volta venuto a mancare il controllo politico su regioni dell’Africa o dei Caraibi, gli scrittori di quelle zone si sono ritrovati davanti alla scelta di scrivere nella loro lingua nativa, con il rischio di raggiungere un numero limitato di persone, ma di affermare la loro indipendenza rispetto al potere centrale, oppure di adottare l’inglese per raggiungere un pubblico più ampio possibile. La scelta di Achebe, Tutuola, Naipaul e altri è andata nella direzione di corrompere la lingua inglese per far emergere la loro: da qui calchi, prestiti, parole ed espressioni in creolo o pidgin, una forte incidenza delle strutture della lingua parlata rispetto a quella scritta per appropriarsene in un atto di rivendicazione.
Una scelta formale che si ritrova anche in Patria: la molteplicità di punti di vista asseconda la predominanza della lingua parlata, come se i personaggi si rivolgessero a un interlocutore nascosto per raccontare la loro storia. Il romanzo è disseminato di termini ed espressioni in euskera, che producono una frizione costante con la lingua in cui è narrato il romanzo, creano un effetto di estraneità e con i loro gruppi di consonanti, k e x, avvicinano alla natura ruvida del popolo basco. I termini in euskera mettono degli ostacoli alla lettura, costringono a consultare il glossario posto alla fine del libro, ad abituarsi al suono di un bacio, muxu, o degli slogan dei nazionalisti, gli abertzales, agli scontri con la polizia, l’ertzaintza, al sussurro con cui si accusa una spia, txibato, o con cui si chiede perdono, barkatu. Immergendo la sua lingua natale nello spagnolo, Aramburu ne amplifica l’effetto e dimostra la sua testardaggine. Con questi romanzi dall’impianto realistico, la letteratura basca sembra aver trovato la maturità per affrontare la sua storia recente, e si avvicina alla formazione di un canone. Il riccio è più sveglio che mai.