S averio mi scruta come se avessi appena spalancato le porte dell’Abisso. Immagino che mi veda attraverso il fondo di un bicchiere perché le sue pupille sono pesantemente dilatate.
Sembra riflettere per qualche istante poi: ci torno perché mi piace la musica, risponde. E per studiare l’algoritmo. Lo incontro per caso la sera di venerdì al quarto piano, seduto sotto un piccolo ombrellone rosso ai piedi della scala che conduce alla balconata della sala Ronda. Mi rivolge subito la parola in italiano, intuendo non so come la nostra appartenenza comune. A dispetto della sua origine campana somiglia moltissimo a Will Oldham, vecchia fiamma dell’indie statunitense: alto, magro, barba incolta, cappello con visiera rigida, camicia a quadrettoni. Siamo fortunati, dice, nel TivoliVredenburg non ci sono, o quasi, luoghi che consentano di sedersi comodamente uno di fronte all’altro, come noi adesso. Per lo più sono cubi, gradini, o altri elementi architettonici facenti funzione di sedie: accomodarsi è fare parte di un decor, come se ogni spazio tendesse a replicare la divisione scenica dello spettacolo.
Qua siamo nel cuore dell’algoritmo, dichiara gustandosi il paesaggio con sguardo spiritato. Certo, dopo un po’ di volte che ritorni inizi a farne parte anche tu, ammette: ti robotizzi.
Lo stesso palazzo che ospita la maggior parte dei concerti del festival, secondo lui, riproduce in grande questo schema con la sua enorme facciata di vetro alta 45 metri simile a un’immensa vetrina spalancata sul centro della città. Qua siamo nel cuore dell’algoritmo, dichiara gustandosi il paesaggio con sguardo spiritato. Certo, dopo un po’ di volte che ritorni inizi a farne parte anche tu, ammette: ti robotizzi. Almeno se non prendi qualche precauzione. A illustrazione del concetto fa una mossetta scattosa, poi dal taschino della camicia estrae una piccola scatola di latta. Sclerozi psichedelici, anche detti tartufi, mi spiega quando gli chiedo di che si tratta. Li vendono per strada, nei negozi. Ne vuoi uno? Mi porge la scatola su cui è scritto “Psylocibe Utopia”, seguito da una serie di parametri relativi agli effetti: visuals, creativity, philosophical, intensity, strenght. Cinque stellette per ogni voce. Ringrazio: ho già ingerito mezzo muffin alla canapa.
È la seconda volta che torno a Le Guess, lui la quinta, lavora come redattore per un magazine online e ogni anno spende più di settecento euro per un fine settimana lungo qui a Utrecht, nel più interessante festival musicale d’Europa. Ogni spazio del TivoliVredenburg, sostiene, è perfettamente funzionale, funzionalmente pensato e disegnato per una fruizione specifica, ogni tuo movimento qua dentro è preordinato e razionale come in un universo spinoziano. Nessuna sorpresa, nessuna improvvisazione è concessa. In questo castello del divertimento intelligente non accade letteralmente nulla, se l’accadere è qualcosa che apre una breccia, che interrompe la routine, che inceppa un sistema e ti fa immaginare nuove possibilità. Nothing is safe, aggiunge canticchiando un pezzo dei Clipping, gruppo hip hop sperimentale che ha da poco finito di suonare nella sala qua sopra.
Evento di cui si annoieranno dopo venti/trenta minuti, sostiene Saverio, perché quando hai così tanto a disposizione è normale che qualsiasi cosa, anche il Dio della musica in persona, dopo poco ti scass u cazz.
Ho appena assistito a tre live di seguito salendo e scendendo interminabili rampe di scale mobili verso le varie sale e auditorium, mostrando il mio pass-braccialetto ai volti di giovani sorridenti, lasciandomi docilmente guidare per disimpegni scale e corridoi da frecce e indicatori umani nei percorsi ottimizzati a evitare che i flussi s’ingolfino, occupando infine le disciplinate file di attesa all’ingresso delle sale. Non so quante migliaia di persone in questo momento si stiano distribuendo armonicamente nei chilometri quadrati verticali del palazzone. Ho lasciato i miei amici salire all’ultimo piano per vedere Billy Woods e mi sono offerto alle speculazioni del complottista napoletano.
È allora la musica? Gli domando.
Ogni concerto inizia e finisce con una puntualità elvetica, continua Saverio, niente bis, niente cazzeggi sopra o sotto al palco. Al limite uno statement, quello va bene. Ma nei tempi e nei modi previsti. L’artista se ne sta al proprio posto, suona, manda qualche messaggio che ci fa sentire dalla parte giusta, poi se ne va e arriva un altro. Non c’è nessuna porosità tra le varie funzioni dell’algoritmo, dice. Guarda le scale mobili, mi fa, alzando lo sguardo verso le rampe trasparenti che s’intersecano sopra le nostre teste simili a quelle di un centro commerciale. Sui corrimano di gomma scorrono all’infinito i nomi di musicisti defunti offerti agli sguardi distratti di individui di ogni genere e età che si lasciano fiduciosamente trasportare al prossimo evento. Evento di cui si annoieranno dopo venti/trenta minuti, sostiene Saverio, perché quando hai così tanto a disposizione è normale che qualsiasi cosa, anche il Dio della musica in persona, dopo poco ti scass u cazz.
Devo ammettere che tutte quelle teste bianche, a me che ormai comincio a incanutire, sembrano una bella cosa. Ma effettivamente in questi due giorni non ho visto un concerto per intero. Secondo lui, quando addomestichi la festa sei sulla buona strada perché qualsiasi idea di rivoluzione sparisca per sempre dalle menti e la robotizzazione della vita si avvii verso il suo perfetto e ultimo compimento. Qua non c’è nulla di propriamente festoso, dice, ci sono solo le movenze, quest’apparenza un po’ giocosa che a ben vedere neppure si preoccupa troppo di nascondere la matrice algoritmica.
Quando addomestichi la festa sei sulla buona strada perché qualsiasi idea di rivoluzione sparisca per sempre dalle menti e la robotizzazione della vita si avvii verso il suo perfetto e ultimo compimento.
Per quanto philosophical, trovo ingenerosa questa fissazione con l’algoritmo. La mia impressione è che l’offerta musicale sia mediamente eccellente, che le sale del Tivoli garantiscano una qualità acustica impressionante e che l’ambiente, tutto sommato, sia abbastanza gradevole. Tuttavia devo concedergli qualche ragione: non c’è nulla di effettivamente trasgressivo, di dionisiaco, di collettivo, non c’è fusione, partecipazione. Se c’è un posto dove fatico anche solo a immaginare di fare conoscenza con qualcuno è in mezzo a questa marea di gente che condivide i miei stessi gusti e probabilmente le mie idee politiche. In due giorni non ho parlato con nessuno che già non conoscessi. A ben vedere questa chiacchierata con Saverio è una rarissima eccezione. Forse per questo accetto di buon grado le sue provocazioni. È vero: non succede nulla di strano qua, nulla che non sia scritto sulla timetable.
Se ti interessa vedere un po’ di festa vera, aggiunge lui, devi andare domani notte al WAS, nel capannone, ma pure lì sarà un divertimento altamente monitorato. Senza contare che se arrivi fino al dj set di Kode9 non troverai nessuno che abbia più di venticinque anni. Quella è roba per i giovani. Falli sfogare così non rompono. Trasgressione concepita a tavolino, top down. Berlinizzazione. Vedi la droga: nel paese più tollerante del mondo fanno tante perquisizioni che neppure all’aeroporto di Tel Aviv. Se trovano qualche sostanza di quelle che vendono per strada te la sequestrano all’istante. Non ti fanno la multa, non ti fanno un processo, d’altronde sono legali: ti fanno solo sentire in colpa. Uno dei tipici argomenti antiproibizionisti è che dove si legalizza si consuma di meno. È vero. Il Tivoli, per esempio, è un luogo di assoluta sobrietà. Bisogna stigmatizzare il consumo, non ostacolare la vendita. Legalizzare ti permette di essere repressivo avendo l’aria del liberale. Adesso credo che andrò a vedere Zebra Katz, vuoi venire?
Non succede nulla di strano qua, nulla che non sia scritto sulla timetable.
Decido di seguirlo. Saverio zoppica leggermente perché stamattina lo ha investito una bicicletta. Non mi stupisce: il traffico ciclistico da queste parti è piuttosto spietato, soprattutto con chi si aggira inoperoso, senza una destinazione precisa. Quando usciamo dal concerto Saverio mi fa notare che è il terzo artista nero gay che vede salire sul palco. Katz è un performer che sfrutta la propria fisicità scultorea per masquerade queer altamente erotizzate con basi di elettronica hardcore: un bel concerto.
A più minoranze appartieni più è facile che tu venga apprezzato, è il commento di Saverio: ma chi è più razzista, il proletario ignorante che ha paura che l’immigrato gli rubi il lavoro o il borghese tollerante-repressivo che esce dal suo bell’appartamento per vedere una lesbica cherokee che suona la chitarra? Il primo, rispondo io. Cos’è che discrimina maggiormente, insiste lui, il giudizio o la quota di “minoranza protetta”, come i panda?
A proposito, gli domando per deviare da una china che mi sembra pericolosa: Panda Bear quando suona? Domenica alle nove, risponde esibendo una perfetta padronanza del programma, ma guardati attorno: ci stanno più neri sul palco che tra il pubblico. Questo è pur sempre il primo dei paesi frugali, quelli che non vogliono condividere i nostri debiti, figuriamoci i nostri immigrati. Come pensi che ci vedano a noi italiani? Siamo cugini straccioni di cui si vergognano un po’. Guarda, per esempio, come sei vestito. Mentre mi chiedo cosa ci sia che non va nei miei abiti Saverio preleva una pallina di colore indefinibile dalla confezione di psilocybe e se la getta in bocca come una mentina. Mentre la mastica lentamente il suo volto si deforma in una smorfia di disgusto: Quello che è buono fa male e viceversa, sentenzia infine ingoiando il boccone.
Legalizzare ti permette di essere repressivo avendo l’aria del liberale.
Non vorrei davvero sapere cosa pensa quest’uomo del Covid, o della guerra in Ucraina, o dello sciamano psichedelico che ha occupato Capitol Hill, non fosse che ognuno dei suoi giudizi recisi, inappellabili, sono accompagnati da un tono di burla che farebbe dubitare chiunque della loro serietà. Saliamo l’ennesimo piano stipati sulla scala mobile (“catena di montaggio” come la chiama lui) tra muri sbilenchi e colorati. Ci fermiamo davanti a una parete di vetro aggettante a una trentina di metri di altezza su cui ti puoi appoggiare e provare il brivido del vuoto. Il centro storico, lì sotto, è tutto un brulicare di biciclette e pedoni, ognuno sulla propria corsia, maestosi edifici ipermoderni che si alternano agli antichi palazzi e, poco oltre, le infinite stecche delle villette a schiera, quartieri-dormitorio seriali che mi ricordano Vivarium, un film horror di qualche tempo fa.
Mi domando come sia possibile vedere le cose in due modi così diametralmente opposti: un festival oggettivamente ammirevole, con un’organizzazione impeccabile, una direzione artistica affidabile e pluralista (a diversi artisti di valore è affidata parte della programmazione: quest’anno sono stati chiamati CURL, Clipping e Animal Collective), capace di cogliere le ultime tendenze ma straordinariamente inclusiva quanto ai generi musicali, con una lineup democratica e orizzontale dove non spiccano celebrità o headliner ma tutti, dal semisconosciuto all’artista di lungo corso sono trattati più o meno allo stesso modo. E poi un festival, lo stesso, che attraverso la lente di questo bizzarro individuo solitario e allucinato somiglia invece a un gigantesco macchinario di amministrazione dei corpi e delle menti, a un circo bulimico dove si sfogano le velleità culturali e i sensi di colpa di un primo mondo ultraprivilegiato, un grande, evolutissimo concertificio organizzato secondo una logica taylorista. L’utopia che si ribalta nella distopia.
Domani prova a fare due passi fino alla stazione ed entra nel parcheggio di biciclette più grande del mondo. Farsi un giro in quel posto è come infilarsi direttamente nei circuiti della scheda madre.
Saverio ha posato la fronte sulla finestra e guarda di sotto, ho l’impressione che si sia addormentato quando improvvisamente si stacca dal vetro lasciandoci sopra una macchia di sudore. Se vuoi farti un’idea più precisa della situazione, mi dice tornando a zoppicare, domani prova a fare due passi fino alla stazione ed entra nel parcheggio di biciclette più grande del mondo. Farsi un giro in quel posto è come infilarsi direttamente nei circuiti della scheda madre.
Lo farò, rispondo.
Davanti alla sala Pandora finalmente ritrovo i miei compagni. Con Saverio ci salutiamo all’ingresso della platea, un istante dopo il concerto di Dreamcrusher inizia con un assalto sonoro di noise elettronico e il musicista che grida nel buio vestito come una divinità vudù.
Osservo il mio amico guadagnare le prime file e poi sparire nella radianza accecante delle potenti luci sparate in faccia a un pubblico frastornato.