T azze in fila indiana, Horubo, lenti polarizzate pince-nez, oggettuccoli in acciaio smaltato, fast food monoporzione e via dicendo; il pot-pourri di mercanzie lo oltrepasso, e a larghe falcate, ignoro la sparuta manciata di classici e l’ampia offerta di pseudo-psico-filosofia, e tento un retrofront di fuga, senonché mi rannicchio, carponi, rediviva, che fortuna! Finalmente un bel titolo, Il corpo della lingua, l’autore lo conosco, Giorgio Agamben. Rimango lì, per un po’, sulla soglia del testo, senza osare aprirlo. Ero alle prese col suo sottotitolo, tale: esperruquancluzelubelouzerirelu.
Lo ritento per la seconda volta. Dunque, daccapo: mi apro e mi allargo in quell’“es” (un ex- latino?), poi mi stringo e mi allungo nel “perru” che mi ricorda lo spagnolo perro – cane -, forse l’incipit vorrebbe suggerirmi il moto d’uscita dal quadrupede a pelo carezzabile. Al quan, comunque, la mia voce tace; è certo che servirebbe un palato più alto e una dentatura più larga, regale, per compitarlo a dovere.
Vado alla terza: lo inforco: lingua tocca alveoli, tocca labbra, tocca il palato duro e poi retrocede verso la sua porzioncina più molle, e calibro, calibro la portata d’aria, aumento qua e là la pressione, sfiato, risucchio, e all’altezza di zelub, arranco, ultimo rantolo, silenzio.
In ogni caso, La Metamorfosi deve aver lasciato un segno indelebile dall’epoca in cui lo lessi alle superiori perché Gregor Samsa riemergeva non appena la mia andatura pencolante, a metà dell’agone, si arrestava. Era fuori d’ogni dubbio: l’immaginetta dello scarrafone kafkiano era venuta sino a lì per ammonirmi… quasi quasi me lo sentivo dentro: “f-fui c-con-condannato ancch’io a fffonare dodoolorosi pigolililii”; e allora, non mi inoltro più in là, scalzo dal retrocranio quell’ammasso verdognolo e pipilante nella speranza che il corpo della lingua, di cui l’esperru-blabla era solo un assaggio, avesse tutt’altro aspetto.
E rumigandolo ancora un po’, si fa strada un’altra possibilità, diremo così, assolutamente formalista. Quell’Esperru non voleva dire un bel niente, punto e fine! A ben vedere, si doveva trattare di un segno puro che usava sì gli elementi del linguaggio – si prendeva l’alfabeto per rendersi leggibile e la mia voce per munirsi di un corpo sonoro – ma per incarnarsi in un’aberrazione. In esso, la favella era stata maciullata, dell’eloquio e del locutore (me in tal caso) non v’era più traccia. Ma la scrittura e la voce no, al contrario, acquisivano al suo interno una vitalità nuova, un occhio ulteriore per guardarsi attraverso il loro specchio di lettere e di suoni e ridestarsi, ridestandomi, da un lungo coma; il coma del senso, intendo dire. D’altro canto, lo capisco, come poter interrogare la – e interrogarsi sulla – lingua dentro la lingua stessa se non costringendola a nuove rocambolesche avventure fuori da ogni gergo o idioma prestabilito. Se l’autore voleva spingersi così in là io ero pronta a seguirlo.
Sulla dismisura di questi universi che va di pari passo con lo sviluppo smisurato della lingua, la bocca-mondo di Pantagruel è un esempio che può venirci in aiuto.
Alla fin fine, sia come sia, arresto i miei almanaccamenti, attraverso l’uscio del testo, pronta a imboccare nuove piste e trovare delle risposte. Rimaneva comunque da scoprire chi fosse il responsabile del congegno.
In esergo, all’ingresso del libro, è riportato un disegno, una silografia per essere precisi, con due brutti ceffi, donne in realtà, che dissimulano per le loro fattezze quella che solo poi scopro essere la loro natura divina: con la camiciola da cameriere e un fazzoletto in testa imboccano un tizio al centro del banchetto non meno sbracato, seduto sopra una botte di vino, colto con le dita unte nel piatto. Non v’è dubbio che quel bel ritrattino abbia a che fare con l’agone linguistico con cui ero pocanzi alle prese. Ma come?
Leggo allora le prime pagine, avidamente. L’autore tira i tendaggi del suo sipario così: “Il corpo umano diventa la misura del mondo nel punto in cui, uscendo da ogni misura, diventa propriamente smisurato”, e non perde tempo con circollocuzioni preamboli quisquilie inezie ma entra a gamba tesa nel vivo della questione, chiamando a raccolta buffoni e giganti insieme: i protagonisti del Baldus di Teofilo Folengo e quelli eponimi del Gargantua e Pantagruel usciti dalla mente del suo seguace d’oltralpe François Rabelais. L’autore, quindi, stava aprendo un colloquio con due delle più straordinarie imprese letterarie del primo Cinquecento, nate entrambe dalla penna di preti, due eruditi, due spiriti eccentrici e anticurileschi. Mi stava spingendo cioè all’interno di una lingua che nell’un caso è fatta di gnocchi (maccheroni) e nell’altro di pane e vino, ossia il bretone barragouyl: il pantagruelico non era né più né meno che un pane e vino.
Ritorno allora per un attimo all’iconcina dell’ometto sbragato e gagliardo per iniziare a ricongiungere gli indizi. Ora tutto è più chiaro. Se sotto d’essa Agamben dà battesimo alla sua impresa è perché prima di lui Teofilo Folengo, alias Merlin Cocai, la usa per dar avvio all’immaginifico paratesto che egli stesso progetta scrupolosamente per l’edizione Toscolanese del Baldus, la seconda, quella del 1521. In posizione mediana quindi troviamo l’autore stesso del poema, mentre le signorine attempate con cui decide di ritrarsi sono le sue grassae musae, nymphaeque colantes, le Muse pancificate, grasse e gocciolanti, che non lo nutrono col nettare o l’ambrosia dell’olimpo greco ma con uno speciale impasto linguistico fatto di farina e acqua, burro e formaggio, dunque di latino e di volgare, dialetto mantovano veneto e reggiano. Nel banchetto, perciò, è servito lo gnocco e la pietanza fumante è tanto il maccheronico quanto il poema e i furfanti che le lievitano dentro: al Baldo, il cavaliere che solo a udire il nome sibi se cagat addossum, si uniscono lo zingaro Cingar, il gigante Fracasso, un mezzuomo e mezzocane di nome Falchetto, un centauro e vari pirati all’occorrenza. Tutti quanti comunque, come rileva Agamben, homines buffones, ubicati “nec in coelo gratia nec in inferno poena”, ma in un luogo terzo, extra-ordinario di cui la lingua né latina né volgare, né alta né bassa, ma maccheronica per l’appunto, è testimone.
Compresa la silografia folenghiana, proseguo la lettura dietro agli scaffali dell’arcibazzar nella speranza che l’autore arrivasse presto a consegnarmi anche le chiavi per aprire l’esca-esperru con cui tutto era iniziato. E rieccoci, poco più avanti, ci inciampo nuovamente. Esperruquancluzelubelouzerirelu du tallon riporta Agamben. Chi finisce esperruquancluzelubelouzerirelu du tallon, al tallone, è Loyre, uno dei personaggi che animano con un’azzuffata il quarto libro del Gargantua e Pantagruel, andato al tappeto col manrovescio di un attaccabrighe. Il responsabile del rovello era dunque Rabelais, e l’esperru un pane e vino, cioè un pantagruelismo. Fine? Fine. Non una parola in più né una di meno sul meraviglioso enigma che mi aveva attratto sin là. Storco il naso. E a onor della fatica fatta all’inizio vado alla cassa, salvo dalla paccottiglia Il corpo della lingua e proseguo verso i sotterranei della biblioteca centrale, dirigendomi nel reparto di letteratura francese.
Nel banchetto è servito lo gnocco, e la pietanza fumante è tanto il maccheronico quanto il poema e i furfanti che le lievitano dentro.
E lì scopro: in realtà il prete – un eretico per la chiesa di Roma e un porco per Calvino – è stato molto più raffinato di come l’avevo ipotizzato io. Non aveva come dire giocato a dadi con le lettere, ma aveva osato tagliare e ricucire chirurgicamente insieme, con l’aggiunta di qualche protesi verbale, una serie di parole provenienti da vari dialetti gallici. Sul grattacapo, infatti, Lazare Sainéan, il filologo rumeno che alla volta del XX secolo si trasferisce a Parigi dedicando tutti i suoi sforzi intellettuali alla lingua francese, in La langue de Rabelais spende qualche parola in più: “On y discerne le gascon esperruca, meurtrir, déhancher, le limousin clanc, boiteux, et le terme du jeu de paume belouse, creux pour recevoir les balles”. Si trattava, dunque, di uno speciale rebus crittografico in cui: l’“ammaccare, ondeggaire” con cui ha inizio, esperruca in dialetto guascone, lo “zoppo” clanc in dialetto limosino e la “buca” belouse del gergo del jeu de palme ovvero della pallacorda, vengono uniti insieme con una colla linguistica artificiale per far scorrere l’impasto secondo una studiatissima e ottemperata malagrazia. Aperta l’esca, esulto!
Un’altra cosa, però, sul mio esperru, sul mio pane e vino, rimane da dire. Certamente Sainéan ne aveva ricostruito una filologia, ma lui stesso ammette di poterlo fare finché può, ovvero finché la lingua reale non cede il passo a quella fittizia necessaria a coprire una distanza che altrimenti rimarrebbe linguisticamente senza patrocinio: “Pour forger de pareilles monstruosités verbales de douze, de vingt, de vingt-cinq syllabes, la langue réelle ne suffisait plus” [per forgiare simili mostruosità verbali di 12, 20, 25 sillabe la lingua reale non è più sufficiente].
È bene allora che io provi a unire le due fonti. Leggere la dichiarazione di Sainéan alla luce della tesi agambiana significa infatti riconoscere che l’eccedenza intraducibile delle monstruosités verbales, che segna il limite filologico e l’orizzonte speculativo dello studioso, è esattamente la stessa eccedenza che costituisce l’anatomia dei suoi locutori. Questo era da capire. Se “la langue réelle ne suffisait plus” è perché – secondo Agamben – l’enormità fisica e spaziale di questi universi è la medesima del verbo pronunciato dai loro attori, perché cioè, – ed è qui che sta l’enorme portata del suo contributo su Folengo e Rabelais – tra corpo e lingua non c’è alcuna differenza (il genitivo del titolo, d’altro canto, già lo anticipava).
Sulla dismisura di questi universi che va di pari passo con lo sviluppo smisurato della lingua, la bocca-mondo di Pantagruel è un utile esempio che può venirci in aiuto. Basta entrarci per prenderne atto. Lì dentro, infatti, – dove lo stesso Rabelais si mantiene dislocato (sotto il nome di Alcofribas) per dare i natali a lui e all’intero poema – ci sono più di venticinque reami abitati, due città assai note col nome di Laringe e Fringe, un’altra più profonda che è Aspharago (dal gr. aspharagos, gola), e vari deserti, un grosso braccio di mare, catene montuose tra i molari, una foresta nei dintorni delle orecchie, senza contare le innumerevoli piscine d’acqua termale che possono vantare la Francia e la Pianura Padana, tutte foraggiate dalla sua enorme vescica. Il corpo del gigante, dunque, si sparpaglia, ingloba spazi, è percorribile, ma comunque rimane immisurabile, tanto che lo stesso Alcofribas, a zonzo tra quelle borgate, ha da constatare che per davvero lì la metà del mondo non sa come viva l’altra.
Tra corpo e lingua non c’è alcuna differenza.
La stessa corrispondenza tra corpo e lingua, Folengo lo lascia intendere così: per pancificarsi nell’olimpo delle vecchie muse, in cui “ad bassum currunt cava flumina brodae, quae lagum suppae generant”, e in cui i monti sono fatti “de tenero, de duro, deque mezano formaio”- era necessario aprire bene le ganasce, “slargare ganassas opus est”; slargarle quindi per mangiare lo gnocco, per banchettare cioè col corpo della lingua che è il corpo dei buffoni.
Entrambi, quindi, l’uno ubicando il poema nella propria bocca, l’altro situandosi nella strozza del suo padrone (così Rabelais chiama Pantagruel, “il mio padrone”), si preoccupano di portare avanti un compito di ingrasso tanto letterario quanto testuale. E se la penna di Rabelais biffa il francese e i dialetti gallici per forgiare un lessico di nuovo conio, quella del suo maestro fa altrettanto col latino e col volgare per coniare una favella tout court, quella maccheronica. Si tratta, comunque, in entrambi i casi – afferma Agamben – di “una lingua inaudita e inassegnabile, in fuga non si sa verso dove ma certo fuori da ogni identità grammaticale e da ogni lessico definito.”
Tutto ciò, comunque, non può essere compreso se non ci si libera della più comune concezione del linguaggio. Serve abbandonarla, disinnescare i capi in cui il linguaggio è bifidato, l’uno fisico e l’altro ideale, uno significante e l’altro significato. Poi, con risolutezza e senza ripensamenti, rilocalizzarlo sotto una nuova luce, quella di una prassi che, come l’autore vuole dimostrare attraverso le maccheronate e i pantagruelismi, produce roba corpulenta masticabile e patente. Agamben lo dice chiaramente così:
la lingua non è segno di un concetto della mente (…): è prima di tutto un corpo che, come quello dei giganti, ha una sua fisiologia e una sua anatomia, unghie e talloni, natiche e ventre, nervi e ascelle. In ogni caso, non s’intende la dottrina di Rabelais e di Folengo (…) se non ci si situa risolutamente nel punto in cui i due corpi [corpo linguistico e corpo anatomico] si incrociano.
Io ubbidisco, a modo mio. Mi colloco proprio lì, dove credo siano meglio visibili le conseguenze dell’incrocio – dell’inserto d’oro, l’ho ribattezzato io -, dove cioè il corpo e la lingua, mano nella mano, vanno a spazieggiarsi insieme. Apro quindi il libro III del Gargantua e Pantagruel che avevo appena preso a prestito, e, laddove avevo fatto dappoco un’orecchietta, rileggo per vedere se mi tornano i conti. Parla Fra Giovanni:
Di’ un po’, coglion mio appassito, coglione ammuffito, coglion smangiato [almeno altre tre centinaia di coullion si susseguono], coglionaccio del diavolo, Panurge, vecchio mio, se tale è il tuo destino, non vorresti mica far retrogradare i pianeti?
È un gran peccato non poter riportare il passo per intero; tuttavia, proprio in questa impossibilità risiede il nocciolo della questione. Lo si capisce: la lista – una delle tante del testo rabelesiano – non è altro che un’apostrofe che interrompe bruscamente un enunciato attardandone la fine, e l’occasione è ottima per apprezzare una tale categoria linguistica – la chiamata – a causa di cui l’evento del linguaggio inizia a muoversi su due piani, quello del discorso e quello isolato del nome.
Fra Giovanni, infatti, enuncia, muove la lingua per conto proprio, ma scivolando nel suo interlocutore ci mette un po’ per recuperarla e portare a termine la sua interrogazione. Su questa piega precipua del testo si gioca tutta la partita. Nella lista, infatti, la parola si fa largo nella pagina così: l’antecedente prepara alla successiva, la desidera, la richiama, la evoca e la invoca, e allo stesso modo quella seguente e la successiva ancora; dipanandosi in spasmi di verbigerazione pura e spostando di volta in volta più in là il proprio orizzonte. Ma questo atto della parola di spostare più in là il suo orizzonte, senza mai attecchire nel dominio di un unico significato, è anche uno spostarsi più là nel Coullion-Panurge, che man mano che figura si sfigura ulteriormente, assommandosi in sé stesso, trascinandosi per 350 volte e più, giù nell’elenco con cui sfonda il testo tenendogli banco per ben quattro pagine.
Tutto ciò, comunque, non può essere compreso se non ci si libera della più comune concezione del linguaggio.
In queste pagine – vera e propria messa in scena del linguaggio, suo teatro – Rabelais scardina il rovescio visibile di cui la parola è la fronte indicale: qui rovescio e fronte si danno contemporaneamente, qui il lemma, in maniera del tutto caricaturale è il volto di sé stesso, segnatura che designa e ugualmente corpo designato. Nel nome di Panurge, quindi, viene indicato un corpo immisurabile che a sua volta s’indica in giri di vite di parole inesauribili; ecco, allora il nodo, l’inserto d’oro: nella lista, infatti, né la parola è contenibile in una figura chiusa, nel cappio di un senso, né il gigante in un’anatomia di cui si potrebbe tracciare una mappa una volta per tutte, perché entrambi, corpo e parola, sono una distesa, uno spazio aperto che man mano che sgomita fa luce.
I conti allora tornano, eccome! Perché questa profonda tumescenza verbale afferma per sé stessa, come Agamben ha da dire per altre vie, che a estendersi non è solo, e non prima, lo spazio-corpo di Panurge, ma la lingua medesima che, superando tanto la semiotica quanto la semantica, dinamitardo i paradigmi grammaticali, decostruendo gli idiomi, inizia a peregrinare oltre confine, sino a lacerare le carni e coniare una nuova umanità.
Risalendo contropelo il mondo di Gargantua e di Pantagruel, si potrebbe trovare all’interno dello stesso testo l’origine mitologica del nostro inserto d’oro, la narrazione dei primi effetti dell’incrocio. Era l’anno delle nespole, si legge nel Libro II di Rabelais, quando alcuni esseri umani, a causa di una scorpacciata collettiva del frutto, iniziarono variamente a gonfiarsi: a chi il membro in lunghezza, al punto che se ne fece cinque giri di cintura, a chi i coglioni, a chi le orecchie o il naso o la schiena. La eco al personaggio folenghiano è chiara. Nel ventiduesimo libro del Baldus, a causa del contatto con una spada magica, anche “Cingaris en se nasus gonfiare comenzat” e poiché s’allunga sino a trenta piedi (sed quia trenta pedes iam nasi forma trapassat), se l’attorciglia al collo per farsi una triplice collana (deque meo naso triplicem formare colanam).
Con elenchi liste mostruosità verbali e pastiche di ogni tipo Rabelais, dunque, non fa altro che reiterare il mito di nascita dei giganti, la storia del loro corpo anomico, e rivendicare della lingua, attraverso queste gonfiature, la sua cifra vivente, la sua propria indefessa motilità.
Do un’ultima riletta alla preziosissima lista del couillon: …Coglion trimballato, coglion sofisticato, ciccioso, impiastricciato, minchiasnato….
A estendersi è la lingua medesima che, superando tanto la semiotica quanto la semantica, inizia a peregrinare oltre confine, sino a lacerare le carni e coniare una nuova umanità.
Ero ancora al tavolo dello stesso bar, il primo che mi era venuto a tiro appena fuori dalla biblioteca. Stava per essere detta tutta la verità. Mi impegno in gesti propiziatori, quelli che ogni buon lettore fa in preparazione al gran finale, tipo: rassettarsi, pisciare, salutare con un cenno di capo il gattino Menaki Neko sul bancone, tamburellare le dita, e via. Me ne vado a vedere come Agamben tira le conclusioni.
Questo è il verdetto, almeno quello parziale: quelle di Folengo e Rabelais non sono lingue, e tuttavia, a ben vedere, non possono esserlo senza evitare di passare al fianco di ciò da cui sono in fuga: latino e volgare, gallico e francese; in virtù di questa loro specificità, la dottrina di entrambi contiene una tesi sul linguaggio e sulla letteratura tout court. Qui mi fermo nel riportare sinteticamente l’autore, e qui riparto io. Riparto cioè da Sainéan. Da colui che, disseppellendo i resti di lingua reale contenuti nell’esperru mi aveva dimostrato, a modo suo, il paradosso finale del saggio agambiano: per uscire dalla lingua la si deve in qualche maniera conservare.
Riposizioniamoci quindi di fronte al rovello con cui tutto è iniziato. Il cluster linguistico dell’esperru, lo abbiamo detto, è un grumo di parole esistenti (esperruca clanc beleouse) che si condensano l’una attorno all’altra per uscire dal calderone stregato in un’unica unità. Ci troviamo così di fronte all’incrocio tra un tipo umano – uno zoppo (clanc, storpiato in quancl) – e una conformazione del terreno – una buca (belouse, qui belouze) – a cui viene impartito un ordine di moto equivoco; il prodotto, dunque, è un organismo bastardo che ondeggia e/o s’ammacca (espperu>esperruca), qualificandosi in prossimità del soggetto a cui è riferito, Loyre.
Seguendo Sainéan, vediamone un altro. “Morrambouzevezengouzequoquemorguatasacbacguevezinemaffressé mon mon pauvre oeil. [il mio povero occhio]”; così dice Trudon, compagno di Loyre, dopo aver ricevuto un pugno in faccia. Qui il fenomeno lessicografico dà vita ad un composto ancora più vario. In esso si può distinguere: un volto (morra>mourre), un rivestimento di sterco (embouzé, enduit de bouse), una cornamusa (veze), un sacco e un anello (sac et bague); il tutto urtato (cognè) e accartocciato (froissé). Anche in esso, dunque, sono innestate insieme parti organiche e inorganiche che si ammatassano in una galleria di ultra-corpi mossa da colpi e contraccolpi, perché a sua volta smuova e storpi come un burattino l’occhio del personaggio rabelaisiano.
Quello che ci troviamo di fronte, dunque, è il conio di un mondo spurio e bestiale. Potremmo comprendere appena i prodotti dell’operazione letteraria volgendo per un attimo la nostra attenzione a Les songes drolatiques de Pantagruel, la silloge di illustrazioni attribuita allo stesso Rabelais. Lì, infatti, un naso diventa un flauto da suonare, una pancia anche una pentola in cui mangiare, la punta di un cappello un camino, una gamba un mantice che sfiatando permette all’esseruncolo di camminare a mezz’aria, e così via. Alla luce dell’inserto d’oro, non è incredibile pensare che ad essere disegnata nell’albo è la lingua medesima, la sua capacità anfibia, con cui aduna in un unico segno una cornucopia di immagini, con cui si raccoglie attorno a bastoni, botti, piante, uccelli, e infesta ramaglie, insetti, pesci e spade.
Quello che ci troviamo di fronte, dunque, è il conio di un mondo spurio e bestiale.
Una lingua che fa mondo, transformer, mutante, il cyborg con cui si compunge e si sfascia. Per questo, per scrivere le mostruosità verbali come le si sarebbero disegnate, e curare in ciascuna il passaggio dall’una all’altra forma, Rabelais ha dovuto operare delle crasi tra un oggetto e l’altro, amputando la coda alfabetica di un lemma e falciando la testa di lettere del successivo (es. Morrambouze =mourre+embouze). Ma non si ferma qua, fa molto di più. Ricorre, qua e là, anche all’aggiunta disinvolta di lettere o sillabe estranee ad ogni oggetto invocato.
Queste particole sonore sono i geni mutanti atti a disallineare la lingua da sé stessa, dalla sua cauta misura, dal parco significare. Per cui, pur esplodendo in una pluralità di immagini, entrambi, tanto l’esperru quanto il mourrabou, portano il peso specifico di ciascuna figura e di nessuna. Al loro interno, la cornamusa come la buca, il volto come lo sterco coesistono, ma sono pensabili tutte in una volta solo in una sorta di sogno della lingua, in una fantasmagoria del pensiero che tace, in una falla che chiede di essere ascoltata più che vista, semi-udita nella foschia del piucche-imperfetto, nel reame dell’appena udibile.
Analogamente alla lista del couillon, quindi, Rabelais riesce a far saltare ancora una volta la trama del testo. E lo fa introducendo nel logos dei veri e propri punti di a-logia, di vacanza della parola, con cui viene imposto all’io-lettore una vacanza dall’ufficio della comprensione. Comunque, poiché Folengo si era inventato di sana pianta qualcosa come una non-lingua, raccogliendola in esametri e addirittura regolandola con una Normula macaronica de sillabis, Agamben gli attribuisce una superiorità su Rabelais che a questo punto vorrei riorientare.
Pur non inventando una nuova favella e restringendo il suo perimetro d’azione al campo lessicale, Rabelais riesce comunque a sviluppare ulteriormente il percorso aperto dal maestro: il suo lessico, infatti, se ancora si può chiamare così, precipitato nell’anticamera del logos, nei punti appena detti di alogia, nei luoghi del nulla, perde quell’intelligibilità a cui Folengo mostra di non voler rinunciare. Queste bandierine segnavento, allora, prima ancora d’indicare una sospensione del lettore dall’ufficio della comprensione, rappresentano lo sforzo più ostinato del loro autore di affrancarsi dal limite primo e limite ultimo di ogni parlante: il linguaggio.
Di questo corpo a corpo che Rabelais instaura con la parola sino allo smembramento, la fatica di un uomo come Mario Bonfantini è valsa a dimostrarlo. Perché lui, Rabelais, lo ha tradotto fino alla fine. La sua impresa, infatti, uscita per Einaudi nel 1953, e da allora in continua ristampa, rimane ancora una delle poche in cui il traduttore porta avanti il suo compito anche dinnanzi alle monstruosités verbales, così definite da Sainéan. Sarebbe bastata, come Bonfantini ha da affermare nella prefazione, la noticina a piè pagina “gioco di parole intraducibile” per uscirne salvo dall’intrico. E invece no. Ha avuto l’audacia di assumere su di sé, e fare propria l’ardua sfida del prete francese, insinuandosi fin nelle ossa del suo rapporto col linguaggio. Come errare nella lingua? Come spingere anche l’italiano e impegnarlo in una simile impresa? Io me lo immagino impegnato in notti insonni a muoversi sul filo del rasoio; nella prefazione, lui stesso parla di “fatica”, di “studio paziente talvolta disperato” e ancora di “almanaccare per settimane intere” prima di rendere “fino all’impossibile gli equivoci verbali”, prima cioè di trovare i composti primi per gli analoghi “italiani” di queste aberrazioni.
Di questo corpo a corpo che Rabelais instaura con la parola sino allo smembramento, la fatica di un uomo come Mario Bonfantini è valsa a dimostrarlo.
Egli stesso, quindi, non può che mettere in concorso l’italiano e i suoi dialetti con ciò che gli viene dall’aprir mercanzia con l’aldilà della parola. E così fa: mette sul piatto un animale senza garretti (sgarret-), ci infila un fracasso (tricche tracche, parola onomatopeica che è tanto in romano il gioco della battola quanto in napoletano i fuochi d’artificio), e anche una rivolta e una ribellione per buttare a terra Loyre, “sgarrettarrtchetraccheriblivoltato al tallone”; e tuttavia i garretti come la battola, la rivolta quanto il rivoltato non sono comprensibili se non nell’ombra opaca del linguaggio. Questo è ancor più evidente nel corrispettivo del mourrambou, cioè nel “pestarinverzicomazzettabirincostrabaccorigirafriccotrituraveggiato” con cui Trundon si ritrova un occhio nero. Ciò che Sainéan afferma per Rabelais, lo si potrebbe dire pari pari per questa progressione di sillabe nate dalla penna del suo traduttore: inane è il tentativo di isolarne i lacerti di lingua reale, orami fusi in una mescidanza insolubile; solo mentre la si attraversa, infatti, è possibile cogliere qualche flebile bagliore dei possibili significati.
Entrambi, dunque, sia lo “sgarrettatricchetracche..” sia il “pestarinverzi..”, sono le testimonianze dello sforzo più autentico di Bonfantini che non potendo tradurre si ritrova come il più temerario argonauta negli uffizi del buio: che disimpara a parlare, rasentando più di ogni altro, dopo Rabelais, il limite di sé e del suo essere parlante.
Arriviamo dunque al punto. Praticando profondamente l’unica prassi che rende l’homo sapiens loquendi, ominide avanzato, ovverosia il linguaggio, quella del buffone e, ancor più, a questo punto, quella del gigante sono l’incarnazione del parlante per eccellenza, l’artifex del linguaggio, il radicale che intesse mondi, sbalestrando sé stesso di volta in volta fuori lingua e fuori specie per inquinarsi con nuove immagini.
Brisa ubidirgh nè ferès ubidir/da la léngua, lasarla gnir e in ciò/ sculterla come un cor in al sô dir/ anch se l’an sa mea bein do andarsen piò/ tant, fin s’la s’impaluda l’as va a vrir.
“Né ubbidire né farsi ubbidire / dalla lingua, lasciarla venire e nel mentre / ascoltarla come un coro nel suo dire / anche se non sa bene dove andarsene, / tanto perfino se si impaluda va ad aprirsi…”. Sono dei versi di Emilio Rentocchini contenuti in Lingua Madre, il quarto libro della collana di poesia bilingue curata da Agamben stesso, per Quodlibet. Se in essi ripulsa la lingua e i mondi ritorti che sfascia e rifascia con la sua propria indefessa motilità, la premessa che egli stesso scrive a questa sua silloge, contiene e mi rivela una ricerca coerente, un filo rosso, un movimento unico del pensiero di Agamben in cui concorrono insieme buffoni e i giganti, e anche lui, Rentocchini, che, vale la pena dirlo, s’era definito con un verso un “prepoeta, tra profeta e pirla”; lì, infatti, s’afferma:
tra l’ottava in dialetto e quella della sottostante traduzione italiana, si apre uno spazio bianco, quasi una terza lingua tutta echi e ombre, ed è lì, in quella specie di radura domestica e mistica, che ha sede il cuore della fabbrica: in cui sentire e pensare, o forse meglio, pensare di sentire e sentire di pensare, convergono.
“Pensare di sentire e sentire di pensare”, il cortocircuito della danza iniziale che tra me e me solipsisticamente compivo sulle lettere dell’esperru, nella ginnastica della lingua, nel mio cavo buccale empito di suoni bastardi e nuovi. E immagino: anche Rabelais, m’avesse potuto guardare da fuori, avrebbe realizzato quella stessa utopia del poeta di Sassuolo: vedere gente “a compitare faticosamente la mia lingua che non conosce”. Né sassolese né italiano, né francese né guascone, né latino né volgare, ma la terza lingua, quella che anche Bonfantini ha tentato. Quella che Agamben, introducendo il “prepoeta” ha definito come la terza lingua, quella della poesia.