R ivolgersi agli ossari. Non occorre biglietto. / Rivolgersi ai cippi. Con il più disperato rispetto. / Rivolgersi alle osterie. Dove elementi paradisiaci aspettano. / Rivolgersi alle case. Dove l’infinitudine del desìo (vedila ad ogni chiusa finestra) sta in affitto”. Con questi versi Andrea Zanzotto rivolge la sua disperata preghiera ai soldati morti durante i conflitti del Novecento dando la misura di una fisicità della morte che si condensa nei luoghi che raccolgono corpi e memorie di un secolo “breve” funestato da due guerre mondiali, tra le tante altre, che oltre a travolgere la popolazione hanno rivelato fin dove potessero spingersi i nuovi armamenti e come questi potessero cancellare con facilità la vita umana.
La consapevolezza della fragilità trascina con sé la perdita di ogni possibile punto di riferimento, a maggior ragione dopo l’ubriacatura nazionalista, l’idea che la guerra, un “farmaco” la definisce Mario Isneghi riassumendo questa visione, potesse sciogliere definitivamente nodi individuali e collettivi (“Poi che il soldato che non parte in guerra / è femmina che invecchia senz’amore: / e c’è un binomio, che nel mesto cuore / uno squillo ancor dà: Trento e Trieste” scriveva per esempio Saba). Molti però poi si ricrederanno e cambieranno idea davanti alla carneficina, prendendo coscienza di quanto fosse incomprensibile una simile violenza: “La guerra insomma era tutto quello che non si capiva” ha riassunto, al solito icasticamente, Céline.
L’originario grande scoppio di questa follia, con le cupe vampe del primo conflitto mondiale, è deflagrante e lascia scrittori, artisti, poeti e filosofi senza parole, incapaci di raccontare il disfacimento che scorre davanti ai loro occhi, chiamati alla ricerca di un nuovo linguaggio in grado di modificare i paradigmi con i quali, fino a quel momento, era stato letto il mondo da chi lo abitava compiutamente. Questa violenza trasformerà in maniera indelebile l’umanità che sopravviverà alla catastrofe, ne modificherà il modo di osservare il mondo e le vie attraverso cui esserne parte.
La Grande Guerra lascia scrittori, artisti, poeti e filosofi senza parole.
Scrittori e poeti registrano in diretta la distruzione delle certezze e l’immersione nella violenza, il risuonare ossessivo della morte, la sostanza traumatica che non può cancellarsi: questo materiale magmatico esplode nel Coro a bocca chiusa di Clemente Rebora dove il protagonista deve dare sepoltura ai corpi putrefatti (“L’occhio non scorge la nuca – ma il becchino sì, la sua buca. E sulla gran fòssa squarciata, tumefatto rotolamento colmato. […] Colpevoli fummo per non sapere. Così scontiamo perché il mondo esiste: ma non era preteso nascendo”), tra i versi di Piero Jahier infettati dalla disperazione (“E per restà non può esser restato / che dove tronca la vita le granate / e quando ànno finito di troncare / scendono le valanghe a sotterrare”), nella poesia dialettale di Delio Tessa che descrive la terribile disfatta di Caporetto insistendo sulle vite minuscole che scompaiono (“…e m’ànno destinato / al sesto fanteria / per essere mandato / alla macelleria!… / Bim, bom bom, / al rombo del canon”) e nel diario di Giani Stuparich che registra come la guerra modifichi, in peggio, ogni cosa (“Le prime volte odoravano di pino tagliato di fresco, ora sanno, ogni volta di più, di marciume”).
C’è un elemento che accomuna queste diverse esperienze della guerra ed è qualcosa che coinvolge sia chi ha partecipato direttamente, sia chi la guerra l’ha osservata da lontano pur avvertendone ugualmente le scosse (Ada Negri per esempio che scrive dall’ospedale dove giungevano i feriti dal fronte: “M’implori in silenzio, con mite innocente tristezza / d’agnello sgozzato: e par chieda tu a me la carezza / che lunge, agucchiando con vigili dita d’amore, / fra un punto e una prece tua madre ti fa nel suo cuore. / Non fosti un eroe. T’è ancor nuovo lo schioppo, ancor casta / la lama splendente che in cima allo schioppo s’inasta”). Si tratta del modo in cui la guerra ha per sempre modificato il modo di osservare la realtà, come la vicenda vissuta dagli uomini al fronte costituisca uno scoglio impossibile da superare, diventando un triste e imprescindibile elemento della modernità come hanno dimostrato, tra gli altri e in modi diversi, Sigmund Freud o Elias Canetti.
Lo scrittore tedesco Ernest Jünger ha parlato in questo senso di un “evento totalmente al di fuori dell’esperienza”. E lo stesso ha raccontato in versi anche Alfred Liechtenstein riassumendo la totale incapacità di capire cosa stava accadendo, e facendo presagire la novità assoluta degli sguardi che seguiranno gli anni del conflitto (dove tra l’altro lui, arruolatosi volontario, troverà la morte): “Incerte mani reggono il mio destino. / Dove sprofonderà?… I miei passi / sono minuscoli come passi femminei. / Ha devastato una sera tutti i sogni. / Del sonno non mi ricordo più”.
Il romanzo di Flamm è un ripescaggio tra le sabbie mobili della letteratura del secolo scorso che a distanza di quasi cento anni agisce ancora in maniera disturbante sul lettore.
Io? di Peter Flamm si inserisce pienamente dentro questo vuoto generato dall’orrore della guerra. Si tratta di una storia pubblicata alla metà degli anni Venti che unisce l’antico tema dello scambio di identità con il disorientamento dell’io che segna tutto il Novecento (è stato sempre Freud, all’inizio del secolo scorso, a dimostrare come l’io non fosse più padrone neanche a casa propria, incapace di usare ciò che lo accompagna da sempre, il linguaggio: “la parola è, per così dire, un polisenso predestinato e le nevrosi si servono, non meno arditamente del sogno, dei vantaggi che la parola offre in questo modo per la condensazione e il travestimento”), un ripescaggio tra le sabbie mobili della letteratura del secolo scorso che a distanza di quasi cento anni agisce ancora in maniera disturbante sul lettore.
Peter Flamm è lo pseudonimo dello scrittore e psichiatra ebreo Erich Mosse, nato a Berlino nel 1891 e poi costretto a lasciare l’Europa a causa della persecuzione nazista per trasferirsi negli Stati Uniti (dove ebbe tra i suoi pazienti anche William Faulkner): prima del trasferimento, nel periodo in cui visse in Germania, Flamm/Mosse ebbe modo di frequentare Thomas Mann e Stefan Zweig che ne riconobbero il valore letterario, ma soprattutto nel suo studio incontrò numerosi reduci di guerra colpiti dal cosiddetto shell shock, la nevrosi che segue l’esplosione, il dilagante disturbo da stress post-traumatico che ammorbò soldati che avevano fatto triste esperienza della violenza e del sangue di compagni e amici dentro e fuori dalle trincee.
“Non io, signori giudici, un morto parla per bocca mia. Non sono qui, non è questo mio braccio che si alza, non sono miei questi capelli ora bianchi, non è mio il crimine”: così si apre Io?, con il protagonista Wilhelm Bettuch, che in tribunale deve difendersi da una schiacciante accusa di omicidio, che rende immediatamente edotti i giudici della dissociazione radicale che abita la sua mente e che nasce proprio durante la Prima guerra mondiale quando a Verdun il fornaio Wilhelm Bettuch ha rubato i documenti di un noto medico di Berlino, il dottor Hans Stern, e, tornato in Germania, ne ha letteralmente preso il posto sottraendogli “il suo passaporto, il suo nome – e il suo destino”.
Perché tutti, a parte il suo cane, riconoscono in Bettuch il dottor Stern?
Se la trama si riducesse a questo non saremmo troppo lontani da una, ben più macabra e tragica, “commedia degli equivoci”, dove chi dice di essere qualcuno è in realtà un altro; ma in Io? è proprio l’ambientazione nell’immediato dopoguerra a rendere imprescindibile l’inserimento della vicenda tra le pieghe di luoghi e spiriti in macerie. Il romanzo infatti pone un quesito ben più complesso: perché tutti, a parte il suo cane, una sorta di novello Argo, riconoscono in Bettuch il dottor Stern? O si tratta davvero del dottor Stern che ha perso il senno confondendo la sua esistenza con quella di un compagno di guerra, Wilhelm Bettuch appunto, rovesciando quindi l’assunto del libro, oppure davvero c’è stato un misterioso scambio di identità che però pare abbia modificato anche i lineamenti degli uomini (si registrano in effetti casi di reduci tornati a casa e resi irriconoscibili degli stenti).
A turbare ancora di più un piano già di per sé confuso è il fatto che la mente del protagonista sia continuamente attraversata da ricordi che sembrano rimandare a due poli lontani, da un lato la vita umile di un fornaio, dall’altra quella agiata di un medico borghese. Chi ha commesso allora il delitto con cui si apre il romanzo? È davvero successo? O tutto è semplicemente un’allucinazione? Il protagonista ha davvero lasciato Verdun? O si tratta piuttosto di una folle visione che anticipa la morte? “Pensate che debba essere vivo, che sia un uomo quello che sta parlando – oppure un pazzo: ma io non sono pazzo, almeno credo. Da dieci anni giaccio nella terra, le mie membra sono putrefatte, le mie ossa grigia polvere, il mio respiro – io non respiro più” proclama a un certo punto il protagonista. Il gioco letterario di Flamm è perfettamente architettato, ma ciò che sembra essere ancor più riuscita è la trasformazione della pagina nel sismografo della mente allucinata di un soldato che ha partecipato alla Prima guerra mondiale e che è stato cambiato per sempre da ciò che di cui ha fatto esperienza.
“Non si era notato, che, dopo la fine della guerra, la gente tornava al fronte ammutolita, non più ricca ma più povera di esperienza comunicabile?”: questo si chiedeva Walter Benjamin indagando sul vistoso tramonto della figura del narratore nel Novecento, toccando un nervo scoperto dell’agire umano, ovvero la consapevolezza della propria estrema vulnerabilità, ciò che rende impossibile un riconoscimento, dire, appunto, “io”. Io? di Peter Flamm è una prova plastica, un esercizio empirico, di questo impossibile soggiorno nel mondo: nella sovrapposizione tra il chirurgo Hans Stern e il fornaio Wilhelm Bettuch ciò che conta non è più distinguere tra verità e finzione, ma prendere coscienza che l’io, classicamente inteso, non esiste più. “Perché dovreste credermi, se nemmeno io credo a me stesso?” si chiede il protagonista imputato in tribunale, riassumendo in una battuta lo spaesamento generato dalla violenza e dalla brutalità della guerra, voce preoccupante che non può non abitare la mente di chi, ancora oggi, si chiede come la violenza e le guerre possano essere ancora parte integrante dell’esistenza.
E sarà d’altronde una grande poetessa e scrittrice, Ingeborg Bachmann, negli anni Cinquanta, nella poesia Tutti i giorni, a sottolineare come il Novecento, sia stato segnato, interamente, dalla paura e dal paradigma perpetuo della guerra: “La guerra non viene più dichiarata, / ma proseguita. L’inaudito / è divenuto quotidiano”.
Nella sovrapposizione tra il chirurgo Hans Stern e il fornaio Wilhelm Bettuch ciò che conta non è più distinguere tra verità e finzione, ma prendere coscienza che l’io, classicamente inteso, non esiste più.
“La grande novità di questo romanzo, il cui titolo rappresentava già di per sé una sfida, era il fatto che nelle sue pagine si diceva: ho paura”: sono le parole dello scrittore francese Gabriel Chevallier, autore tra gli altri di un oscuro romanzo autobiografico che racconta la sua vita in trincea (dove tra l’altro fu devastato dalle schegge di un esplosione), Paura: “L’autore del presente volume – ha scritto Chevallier nella nota che apre Paura – ritenne che sarebbe stato disonesto parlare della paura dei suoi compagni senza parlare della propria. Decise così di assumere l’onere della paura su di sé, innanzi tutto su di sé. Raccontare la guerra senza raccontare la paura, senza darle il massimo risalto, sarebbe stata una mistificazione. È impossibile vivere senza una certa inquietudine in luoghi dove da un momento all’altro si può essere letteralmente fatti a pezzi”.
Paura è una coraggiosa denuncia della violenza e di come questa cambi per sempre chiunque vi abbia preso parte: dentro ci sono le trincee, la morte come dato di fatto (“Ci veniva la pelle d’oca all’idea di essere solo una palata di carbone destinata ad alimentare quella fornace”), i superiori che prendono decisioni incomprensibili, la vicinanza con i cadaveri (“per anni ci hanno tenuto davanti a corpi straziati e putrefatti, corpi di fratelli, fino al giorno prima nei quali era inevitabile vedere l’immagine di ciò che saremmo stati anche noi il giorno dopo”), la lenta scoperta di una nuova solidarietà e lo sporco che entra dentro l’anima (“sentendo un prurito, mi infilai una mano nei pantaloni e qualcosa di molliccio mi rimase incastrato sotto un’unghia. Estirpai il mio primo pidocchio, livido e grasso, la cui vista mi provocò un conato di disgusto”).
Paura ebbe uno strano destino editoriale, un itinerario che rende bene l’idea di come la guerra avesse cambiato per sempre il modo di stare al mondo. Pubblicato nel 1930 scomparve dalle librerie, una scelta presa in accordo tra lo scrittore e l’editore, all’alba della Seconda guerra mondiale, nel 1939, decisione presa per non scoraggiare chi doveva partire per una nuova guerra e andare incontro allo stesso alito di morte che in quelle pagine prendeva una sinistra consistenza. In particolare l’ultimo capitolo, quello in cui Chevallier racconta la notizia della pace “arrivata all’improvviso, come una raffica di mitragliatrice; come una fortuna inattesa toccata in sorte a un uomo povero e malandato”, dà bene la misura di come tutto ormai sia cambiato per sempre: “A vent’anni eravamo sui tetri campi di battaglia della guerra moderna, dove si fabbricano i cadaveri in serie, dove a chi combatte si chiede soltanto di essere una particella della massa immensa e oscura che fa le corvée e prende i colpi, una particella di quella moltitudine che veniva distrutta metodicamente, stupidamente, nella misura di una tonnellata di acciaio per ogni libbra di giovane carne”. Come può la vita tornare a essere come prima?