A ntonio Rovaldi è nato in una grande casa di campagna in Emilia, dove a Natale gli capitava di spalare la neve. Da circa venticinque anni vive a Milano. Abita in un appartamento al sesto piano di un palazzo anni Trenta, tra corso Buenos Aires e via Luigi Settembrini. C’incontriamo in un freddo mercoledì di fine novembre. Non è la prima volta che entro in questa casa. Al sesto piano si può salire entrando in ascensore e schiacciando un tasto nero, in alternativa si può percorrere una lunga e stretta rampa che ha un andamento spiroidale, mentre nella discesa sembra stringersi come una vite. Mi attendono un piatto di gnocchi al pomodoro e una bottiglia di vino rosso. Menù negoziato per messaggio, dato che la prima proposta, ispirata alla gastronomia svizzera, era per me indigeribile.
Non sapevo, invece, che la tavola era stata allestita come un altare votivo. Lo scopro mettendo piede in soggiorno, dopo aver avvistato un paio di biciclette in corridoio. Sistemata su un cavalletto, di fronte al tavolo dove ceneremo, c’è una foto in bianco e nero dello scrittore svizzero Robert Walser, scattata nell’ultimo periodo della sua vita. È dedicato a lui l’altare. Lo scrittore è in giacca e cravatta, anziano, tiene un ombrello chiuso dietro la schiena. È accarezzato da grassi cristalli di neve. Alcuni fiocchi lo schivano, altri si spappolano sopra il bavero della giacca. La foto è molto grande. Se Walser saltasse fuori dalla cornice, con il suo fisico robusto ed energico da camminatore, mi arriverebbe quasi alla vita. L’intirizzito e vulnerabile Robert Walser è rischiarato, e quasi riscaldato, dalla luce tenue delle mini candele disposte sulla tavola.
Sul piano, accanto e di fronte ai piatti, è apparecchiata un’intera distesa di romanzi e antologie di Walser, oltre a biografie della vita e volumi di critica sul suo lavoro. Una ventina di testi, quasi tutti Adelphi, qualche editore minore. Sono aperti, con le sottolineature a pennarello rosso in vista. Altri sono chiusi, con un mandarino posato come un fermo sopra la copertina: “Un frutto natalizio”, precisa Antonio. Il colpo d’occhio ricorda quegli altarini semipagani pieni di doni e oggetti vari. O forse un albero di Natale, dove Walser fa la parte dell’abete, con i rami fitti di aghi verdi e protesi nel vuoto. Lo scrittore sul cavalletto resta di fronte a noi per tutto il tempo della conversazione, immobile, continuando nel freddo delle Alpi a traspirare correnti d’aria gelida e forse a trasformarsi in ghiaccio.
Herisau, dove Rovaldi ha trascorso il Natale del 2012, è il piccolo paese alpino dell’Appenzello svizzero nel quale l’autore de La passeggiata e di Jakob Von Gunten, scrittore amatissimo da Franz Kafka, Hermann Hesse e dall’editore Roberto Calasso, ha trascorso gli ultimi venti anni della sua vita. A Herisau, Walser era ospite di una casa di cura per pazienti con disturbi mentali. Dormiva in una camerata con altre dieci persone, anche perché dormire solo gli metteva paura, a causa delle voci che gli sembrava di sentire nella testa. Cartella clinica del 10.1.1940: “Fa le sue passeggiate domenicali con ogni tempo, non si cura assolutamente se piove o nevica, o se le sue scarpe e il suo abito sono insudiciati”.
Il 25 dicembre del 1956, Walser morì d’infarto all’età di 78 anni, probabilmente vergine, sesto di otto fratelli e sorelle, dei quali nessuno – fatto pressoché unico – ha avuto figli. Il corpo venne ritrovato da due bambini: dopo il pranzo di Natale, insospettiti dai latrati di un cane legato a una catena, i due avevano preso lo slittino, quindi si erano inerpicati lungo un dosso e a quel punto, nel silenzio, il cadavere di Walser gli si era parato di fronte. Era avvolto nella lana del suo abito consueto e steso dentro un grande cuscino di neve fresca. Il braccio sinistro era abbandonato e aperto, come quello di un fantasmatico e detronizzato vigile urbano, in quella stessa posizione nella quale oggi lo rivediamo grazie alle foto scattate dalla polizia locale. Non un suono in tutto il circondario, si suppone, vista l’ora e il giorno di festa. Solo una grande quiete, gli sporadici latrati di un cane e il respiro alterato dei due bambini.
Gli scatti mostrano una composizione, un cerimoniale involontario. Il cappello era spostato a un metro e mezzo dal corpo, forse perso alle dita nel momento in cui lo scrittore si era accasciato. Volendo, si può osservare perfino l’ombra di un mistero: tra il cadavere e le impronte lasciate sul terreno c’è almeno un metro di neve intonsa, come se il corpo di Walser, negli istanti conclusivi della sua ultima passeggiata, si fosse librato da terra per poi planare e adagiarsi qualche passo più avanti. In ogni caso fu un volo da poco. Ma forse la magia è un’altra, e cioè avere descritto nel 1907, in una pagina del romanzo I Fratelli Tanner, la morte di un giovane poeta, Sebastian, che sembra prefigurare quella di Walser: “Circa a metà della salita Simon vide d’un tratto un giovane sdraiato nella neve in mezzo al sentiero […] era morto assiderato, senza alcun dubbio, e doveva giacere lì da molto tempo, sul sentiero”.
Nel 2011 Rovaldi fece una veloce ricerca, digitando su Google “Erwin Brugger”, cioè il nome di uno dei due bambini che trovarono il corpo dello scrittore. Risultato prevedibile: esistevano più Erwin Brugger. In un sito il nome compariva accanto a un indirizzo email. Rovaldi provò a scrivere. Brugger, quel Brugger, rispose in giornata. L’email oggi è incorniciata e appesa alla parete del soggiorno, cioè di fronte alla tavola e al provvisorio tempietto dedicato allo scrittore. Il testo era semplice, puntuale, perfino elettrico nella sua concretezza. In sintesi: Brugger, ex poliziotto in pensione, si metteva a disposizione di Antonio. Così Rovaldi partì una prima volta per Herisau, nel novembre del 2010, dove scattò una serie di fotografie in compagnia di un’artista e amica, Linda Fregni Nagler, che fece anche da interprete, dato che Brugger parlava solo tedesco. Poi, nel 2012, visto che il Natale cadeva di martedì, proprio come nel 1956, Rovaldi decise di prenotare una stanza al Markplatz Hotel e tornare a Herisau, stavolta da solo, per girare un video.
Chiese quindi a Brugger di accompagnarlo nuovamente nel luogo in cui da bambino aveva visto il corpo senza vita dello scrittore. Andarono all’ora esatta in cui l’incontro con il cadavere di Walser era avvenuto. In pratica Brugger saltò il pranzo di Natale con la famiglia. Senza l’aiuto di Linda, i due passarono insieme una giornata fatta di tanti silenzi. Senza parlare risalirono il dosso che avevano rimontato all’epoca Brugger e l’altro bambino, fino a scoprire la sagoma del cadavere nella neve, e poi, sempre in silenzio, Rovaldi e Brugger si chiusero in un bar, dove trascorsero un’altra ora e mezzo, bevendo vino e mangiando un pezzo di strudel. Il video in bianco e nero documenta l’avvento di Antonio a Herisau, il tempo scandito dall’orologio del campanile fino a segnare le 13, la breve escursione in compagnia di Brugger e infine una sosta presso il luogo del ritrovamento.
Il Walser stalagmitico ritratto nella foto sul cavalletto perdura in uno sguardo vuoto, azzurrino, testimone involontario di una cena tra due suoi ammiratori e apparentemente insensibile alla tormenta di neve che lo trafigge. C’è una sua frase che dice: “Nessuno ha il diritto di comportarsi con me come se mi conoscesse”. Antonio mi racconta che il giorno del suo arrivo a Herisau si aspettava di essere accolto da uno scenario innevato. Invece, con un po’ di delusione, trovò prati verdi, terra e una giornata quasi “primaverile”. Tra un bicchiere di vino e l’altro, il discorso procede in modi imprevisti. Scopriamo, per esempio, che anche questo Natale 2018, per una strana coincidenza, cade in quello stesso giorno della settimana dal gusto neutro e infraordinario, e cioè di martedì. Infine, parlando, conveniamo su un punto: le pagine di Walser nelle quali il paesaggio è incantato, sommerso da nevicate così abbondanti da configurare una sorta di trionfo barocco del bianco, dove tutto è candidamente omogeneo e ricolmo di umore natalizio, oggi alimentano in noi, lettori al tempo del global warming, il timore che le stagioni non possano più esprimersi con la fantasia di un tempo.
Consapevole che la Terra, oggi, fatica a manifestarsi con la ricchezza espressiva che aveva ammaliato Robert Walser, lungo i tanti inverni e natali della sua esistenza, un lettore potrebbe accusare un sentimento di perdita, turbamento e struggimento. Uno stato d’animo simile a ciò che il filosofo Glenn Albrecht ha definito, con un neologismo, “solastalgia”, ovvero un malessere specifico dell’epoca dei cambiamenti climatici. I personaggi di Walser non solo assistono col loro sguardo ingenuo a nevicate principesche, ma sono così contagiati dallo spettacolo del bianco che finiscono, in sogno, per avere visioni di precipitazioni nevose in estate: “Nevicava nella verde strada estiva, e così fitto, un fiocco sull’altro, che era impossibile guardare attraverso di essi” (I fratelli Tanner, pag. 189, Adelphi).
Dopo l’arrivo in clinica, Walser continuò a scrivere, ma la sua grafia, com’è noto, diventò minuscola e indecifrabile. Ecco perché i manoscritti di questo periodo sono stati ribattezzati “microgrammi”. Secondo Rovaldi, in questo processo di diluizione e sparizione della scrittura, di vero e proprio riassorbimento dell’inchiostro nel biancore della pagina, dovremmo vedere un po’ quello che la neve fa al paesaggio, quando una volta posata nasconde i contorni delle cose. Ergo, dice Antonio, è un po’ come se il paziente di Herisau avesse inteso sparire dentro il chiaro della pagina. Torna alla mente un passaggio di Vita di un pittore, primo dei tre racconti pubblicati in Seeland: “La montagna è meravigliosa, specie se di tanto in tanto la neve cade fitta anche a primavera inoltrata, il che permette a ogni cosa di assentarsi dal mondo”.
Nel 1999, quando Rovaldi era ancora studente all’Accademia di Belle Arti, morì Silvia, insegnante di Lettere e zia di Antonio, alla quale Antonio era molto legato. I libri di Silvia vennero divisi tra amici e parenti. Antonio fu incuriosito da quelli di Walser, li prese, li scelse, cominciò a leggerli e poi a rileggerli; si riconobbe soprattutto nel personaggio di Simon, il giovane ed errabondo protagonista de I Fratelli Tanner, simile al Bartleby di Herman Mellville in quanto riluttante al lavoro; acquistò delle biografie e dei saggi, e lentamente l’opera dello scrittore, la contemplazione e lo studio del paesaggio, la sua passione/ossessione per le passeggiate (ne fece una, da Stoccarda a Zurigo, di circa duecento chilometri), sono diventati fonte d’ispirazione e un metodo d’indagine nella vita e nel lavoro artistico di Rovaldi. Le stesse copie dei libri di Walser esposte sul tavolo sembrano vecchie scarpe da quanto sono consumate, come se Rovaldi le avesse usate per camminare. E del resto qualche paio di scarpa è appeso per i lacci alle pareti di casa, come una scultura o una pentola di rame in una vecchia cucina.
Per due anni Rovaldi ha esplorato a piedi il margine esterno di New York City, camminando lungo i bordi di Manhattan, Bronx, Brooklyn, Staten Island e Queens, scattando fotografie dove le strade terminavano con un cartello “End” e documentando ciò che lo sguardo incontrava, così come l’inventario di oggetti e frammenti che per terra sbattevano contro la punta delle sue scarpe. Qualche anno fa ha fotografato la linea dell’orizzonte marino visto dalla costa italiana, risalendo per intero la penisola, in bicicletta, dalla Liguria fino al confine con la Slovenia. L’altra cosa che lo ha legato tanto a Walser, infine, è stato proprio il Natale, tema ricorrente e atmosferico in romanzi e racconti e sfondo silenzioso del suo ultimo istante sulla Terra. Nella campagna emiliana dov’è cresciuto, racconta Antonio, il Natale era molto sentito. Accanto alla sua casa abitavano gli zii e il cugino, un bambino cresciuto insieme a lui e al fratello.
Ogni tanto nevicava e occorreva spalare. Il padre di Antonio per Natale allestiva una grande scenografia accanto al camino. Però i regali si scartavano prima, il 14 dicembre, portati da Santa Lucia. La zia della madre di Antonio si chiamava Angioletta. Non aveva figli e ogni anno si travestiva da Santa Lucia. Indossava un naso di plastica, un’ampia gonna a fiori, come quella della Befana, e in testa metteva una corona di luci intermittenti, incastrate con sapienza tra i riccioli grigi. Poi si caricava una grande gerla di legno intrecciato sulle spalle. Diventata una creatura elettrica, con la gerla piena di regali usciva di casa e si nascondeva nei campi arati e invasi dalla bruma. A quel punto, Antonio, suo fratello e il cugino l’andavano a cercare.