E ra il 1985 quando la morte di Italo Calvino lasciò incompiuta l’ultima delle sei Lezioni americane. Lo scrittore, invitato a tenere un ciclo di conferenze a Harvard per le celebri Norton Lectures, stava sviluppando per l’occasione una serie di riflessioni incentrate “sulla sorte della letteratura e del libro nell’era tecnologica cosiddetta postindustriale”: con il millennio del libro ormai alla conclusione, infatti, sembrava il momento adatto per interrogarsi su cosa si sarebbe profilato all’orizzonte, inquadrandolo attraverso una serie di attributi e valori che avrebbero contraddistinto, almeno così auspicava, la letteratura a venire.
In una serie di lezioni appassionate e sagaci, di quella levità brillante e flessibile a cui l’autore ci ha sempre abituati, Calvino prende le parti della leggerezza, della rapidità, della visibilità – capacità mercuriali che, almeno all’apparenza, sembrano ben distanti dalla sensibilità densa e tellurica del romanzo per come siamo abituati a pensarlo. Nondimeno, a quasi quarant’anni dalla pubblicazione delle Lezioni, sulla scena letteraria si è imposta alla sensibilità di massa una concezione del romanzo non propriamente inedita, ma che solo di recente ha incontrato la sua consacrazione definitiva, ossia il romanzo frammentario. Come già sottolineato, la frammentarietà non è una prerogativa dei tempi recenti: sia in narrativa che in filosofia, dall’Ulisse ai Minima moralia, la coscienza letteraria del Novecento è costellata di esempi di frammentazione, esempi che si estendono dagli esperimenti dell’OuLiPo (uno su tutti, La vita istruzioni per l’uso) alle acrobazie metaletterarie di Fuoco pallido, senza dimenticare declinazioni più recenti come la combinatoria testuale di 2666, Rayuela, o, tra i titoli strettamente contemporanei, gli assemblaggi tematici di Fisica della malinconia e Cronorifugio di Gospodinov.
Sebbene il cambiamento e la sperimentazione siano ancora in fase di svolgimento, il critico e compositore Ted Gioia ha cercato di rendere conto dei mutamenti del genere in un breve saggio (The rise of the fragmented novel), scritto anch’esso in forma frammentaria. Gioia rileva come, a dispetto dell’apparente disorganicità strutturale delle opere, simili testi “resistano alla disunità anche quando sembrano incarnarla”, rivelando una coerenza interna non dissimile da quella della composizione contrappuntistica. Il contrasto che emerge dalla giustapposizione delle voci non è un semplice sfoggio di dissonanze, né un tentativo di replicare nella struttura del romanzo quella polifonia dialogica che Bachtin individua nella poetica di Dostoevskij: la cacofonia esteriore si risolve in una sorprendente uniformità di lettura, e questa tipologia di romanzo, afferma Gioia, presenta un’attenzione alla forma quasi maniacale, resa possibile dalla commistione di elementi che a un primo sguardo risultano incomprensibilmente eterogenei.
Complessità e proliferazione procedono di pari passo, i generi divengono via via più ibridati, mentre il senso di dislocazione e contaminazione coinvolge anche la non-fiction. Non di rado si sceglie infatti di mutuare tecniche da altre discipline, servendosi di analoghi letterari del montaggio cinematografico o del collage. Dall’iniziale accorpamento di racconti brevi di inizio Novecento si arriva così, per prove e tentativi sperimentali, alla creazione di un’unità contenutistica e tematica nascosta sotto gli sforzi di disgiunzione formale. Guy Patrick Cunningham vede invece la frammentarietà come una modalità di scrittura (e di lettura) tipica della contemporaneità digitale, che concepisce i testi come agglomerati di paragrafi brevi, intervallati da pubblicità, immagini o link e rimandi intertestuali diretti, incoraggiata dai ritmi frenetici e discontinui della vita quotidiana. Anche alla luce di un più che ragionevole pessimismo sul destino della nostra soglia dell’attenzione, Cunningham si dimostra aperto a una scrittura che possa volgere questo svantaggio a proprio favore, presentando i frammenti accumulati e giustapposti “in un modo che incoraggi l’introspezione e la contemplazione”.
La cacofonia esteriore si risolve in una sorprendente uniformità di lettura: questa tipologia di romanzo presenta un’attenzione alla forma quasi maniacale.
Una simile scrittura è esattamente ciò che si prefigge di fare il premio Nobel Olga Tokarczuk, ormai assurta a una dei nomi più noti di questa tendenza letteraria. Sebbene l’autrice sia oggi conosciuta sulla scena internazionale come una dei principali innovatori in materia, nella tradizione polacca la frammentarietà non è un’invenzione recente: già alcuni tra i suoi primi romanzi, Nella quiete del tempo e Casa di giorno, casa di notte, attingono il loro impianto compositivo dalle silvae rerum, testi di epoca cinque, sei e settecentesca dal carattere formalmente eterogeneo scritti e diffusi negli ambienti nobiliari, che comprendevano archivi familiari, ricette, cronache e persino barzellette.
La tendenza postmoderna al recupero formale delle silvae rerum era stata ampiamente attestata ben prima dell’inizio del nuovo millennio, e questo nuovo orientamento si caratterizzava per la natura digressiva, la difficoltà di categorizzazione e la molteplicità delle forme che andavano a comporre il testo, nonché – ed è qui che si inserisce Tokarczuk – il minor coinvolgimento della voce narrante, che poteva oscillare dal distacco ironico (Czapliński fa l’esempio del Miłosz di Abbecedario e Il cagnolino lungo la strada) alla più o meno esplicita noncuranza verso la propria funzione. Le prime prove romanzesche di Tokarczuk, che tratteggiano i contorni di una Polonia onirica e rurale a cavallo tra sperimentazione e tradizione, si inseriscono proprio in questo scenario; è tuttavia con I vagabondi, “romanzo costellazione” pubblicato nel 2007, che la poetica della narrazione frammentaria di Tokarczuk giunge al suo compimento.
Costituito da 116 frammenti che ruotano intorno ai temi paralleli del corpo e del viaggio, I vagabondi presenta al lettore una serie di meditazioni sulla mobilità, sull’anatomia, sul dettaglio, sull’infinitamente piccolo e sull’unità sottesa tra gli spazi e i corpi che li attraversano allo scopo di riscoprire la condizione esistenziale del movimento in un’epoca di frammentazione e liquidità. Il termine liquidità non è usato a caso: l’autrice annovera fra i suoi punti di riferimento filosofici il pensiero di Bauman, che in Modernità liquida si serve dell’esempio dei fluidi per esaminare la tendenza globale alla mobilità, alla capillarità e alla leggerezza. Se però in Bauman la dissoluzione dei legami e della solidità delle realtà sociali non era priva di risvolti critici, soprattutto se analizzata alla luce delle infinite proliferazioni del capitale sempre più mobile e intangibile, in Tokarczuk l’effimero sembra avere la meglio sul durevole, e la dislocazione è auspicabile, quando non incoraggiata.
La preoccupazione del sociologo di fronte alla crescente incorporeità e deterritorializzazione di lavoro, capitale e processo di produzione si trasforma per la scrittrice in un ventaglio di infinite possibilità per i “nuovi soggetti nomadi”, capaci di trascendere ogni fissità identitaria e di proliferare nel cambiamento e nella disgregazione. Se da una parte per Bauman, attento alle complessità del caso, “nella modernità liquida, a dominare sono i più elusivi, quelli liberi di muoversi senza dare nell’occhio”, la concezione di Tokarczuk è ottimista: “Ciò che più punge è l’immobilità, densa, visibile”, o, qualche frammento più in là, “fluidità, mobilità, illusorietà: sono questi i tratti dell’uomo civilizzato. I barbari non viaggiano, loro vanno alla meta, tutto qua”.
In Tokarczuk l’effimero sembra avere la meglio sul durevole, e la dislocazione è auspicabile, quando non incoraggiata.
Come rendere, allora, questa tensione all’apparenza inconciliabile tra fluidità e frammentarietà in un romanzo che tenga conto di questi mutamenti sociali? Il paradosso del raccontare la mobilità contemporanea risiede davvero nello scarto inafferrabile che separa movimento e forma? A venirci incontro è la riflessione di Claudio Magris nell’Infinito viaggiare, la cui prefazione è strutturata, quasi ad anticipare I vagabondi, come una serie di annotazioni che abbracciano la letteratura di viaggio, le sorti del romanzo europeo, l’esperienza dei propri spostamenti e, non ultime, varie digressioni su Trieste, da sempre città di incroci e mescolanze culturali. Alla visione classica dei greci, che vedevano nello scopo delle peregrinazioni l’assunzione del proprio destino da parte del soggetto, subentra per Magris quella del Bildungsroman, dove il viaggio diventa un percorso di allontanamento e ritorno dell’Io da e verso le norme della società, lasciando infine spazio alla definitiva disgregazione delle innovazioni moderniste:
Al viaggio circolare, tradizionale, classico, edipico, conservatore di Joyce, il cui Ulisse torna a casa, subentra il viaggio rettilineo, nietzscheano dei personaggi di Musil, un viaggio che procede sempre avanti, verso un cattivo infinito, come una retta che avanzi pencolando nel nulla. Itaca e oltre, come dice il titolo di un libro che ho scritto; le due modalità esistenziali, trascendentali del viaggiare. Nella seconda il soggetto, l’Io, il viaggiatore si getta sempre in avanti; non porta se stesso, tutto se stesso, nel suo procedere, ma ogni volta annienta l’intera sua identità precedente e si getta via.
Pur decantando la fluidità dell’io e la proiezione del movimento, tratti salienti di questa seconda modalità del viaggiare, il caso dei Vagabondi si distingue per l’autoconsapevolezza narrativa: se anche “la meta del mio pellegrinaggio è sempre un altro pellegrino”, come recita uno dei primi passaggi del romanzo, questo pellegrino è, proprio come il testo, “mutilo, diviso in pezzi”. I frammenti che vanno a costituire la totalità dell’opera sono infatti intervallati da mappe, documenti, aneddoti storici e brevi intervalli di “psicologia del viaggio” e digressioni a carattere scientifico, che forniscono al lettore delle indicazioni sul metodo con cui affacciarsi al romanzo. È sufficiente un piccolo spostamento interpretativo, la sostituzione dell’atto del viaggiare con quello del leggere, dello spazio con il testo, per rintracciare l’intento poetico di Tokarczuk:
Da questo punto di vista, il tempo umano si suddivide in tappe, così come il movimento nello spazio è diviso in pause-luogo. […] Le tappe del tempo che le pause separano l’una dall’altra spesso le chiamiamo episodi. Non sono consequenziali, in qualche modo interrompono il tempo, ma non ne diventano parte. Sono accadimenti autonomi, ciascuno di essi incomincia da zero, ogni principio e ogni fine sono assoluti.
I vagabondi ha infatti la curiosa proprietà di contenere nel racconto stesso le istruzioni per decifrarlo, esortando il destinatario a esercitare autonomamente una “cognizione per strati” creando la propria personale interpretazione, ma soprattutto ad allenare la mente a congiungere “tutto con tutto nella convinzione che tutto questo, se messo insieme, significa qualcosa, ma non sappiamo cosa”.
I vagabondi ha infatti la curiosa proprietà di contenere nel racconto stesso le istruzioni per decifrarlo.
Se la consequenzialità a cui il lettore è abituato viene quindi accantonata a favore dell’infinita proliferazione nello spazio, analizzato nelle sue macro e microdeclinazioni e integrato con esempi che spaziano dalle carte geografiche all’anatomia umana, è possibile leggere I vagabondi come un esempio applicato dello spatial turn, orientamento degli studi culturali e letterari che si prefigge di mettere in discussione l’egemonia dello storicismo nell’analisi di testi e fenomeni. Rifacendosi alle intuizioni di Foucault e Lefebvre e alla loro integrazione con il materialismo dialettico messa a punto dall’urbanista Edward Soja, lo spatial turn cerca di operare in direzione di una sintesi tra sviluppo storico e produzione sociale dello spazio, come rilevato da Friedrich nella sua disamina della materia. In uno dei succitati frammenti dei Vagabondi intitolati Psicologia del viaggio, è la stessa Tokarczuk a tradire un’inclinazione verso le poetiche possibili di questo approccio: “Porsi questo genere di domande è più che mai proficuo nella psicoanalisi topografica, per la quale cogliere il significato profondo dei luoghi contribuisce alla decifrazione del cosiddetto itinerarium, ovvero del percorso individuale del viaggiatore, del senso profondo del suo viaggio”. E, proprio come la scrittrice vede il tempo come “un semplice strumento atto a misurare i piccoli cambiamenti”, anche nello spatial turn, nota Friedrich, il concetto di temporalità viene accantonato a favore di una mappatura cognitiva simultanea, in grado di mettere in rilievo “le costellazioni spaziali”.
Lo spatial turn non è però privo di criticità. Friedrich osserva infatti come il campo di studi sia costantemente soggetto a ridefinizioni dovute alle complessità dell’epoca in cui viviamo: la globalizzazione, l’iperconnessione e l’interdipendenza mediatiche, i flussi migratori e la sensazione di vivere alla “fine della storia” gettino la disciplina in uno stato di “ambivalenza epistemologica” tipica del decostruzionismo postmoderno, che può essere superata soltanto con una corretta integrazione della dimensione temporale. I suoi esponenti meno dogmatici, infatti, “hanno compreso che non si tratta di rimpiazzare il tempo con lo spazio, ma che gli spazi per noi significanti sono ciò che da sempre sono stati: spazi creati dal movimento umano nel tempo e nella storia”. La posizione di Tokarczuk, tuttavia, sembra voler sospendere la temporalità a favore di un doppio movimento: uno proiettivo, imperniato sull’analisi del movimento in sé; l’altro statico, concentrato sulla scoperta di relazioni orizzontali e olistiche tra gli elementi del testo, tecnica già sperimentata con la minuziosa descrizione delle differenti percezioni temporali dei personaggi di Nella quiete del tempo. “Il luogo”, scrive l’autrice, “è una pausa nel tempo, è una sosta temporanea della nostra percezione sulla configurazione degli oggetti. A differenza del tempo, il luogo è un concetto statico”.
Oltre che sul viaggio, allora, I vagabondi insiste sulla descrizione di sguardi esterni e onnicomprensivi, di vedute aeree e di collocazioni di oggetti in una totalità, corpi ed elementi che vanno a comporre un insieme. È il caso della frequente menzione delle wunderkammer, ricettacoli di oggetti rari e straordinari che riproducono interi microcosmi nello spazio ristretto di un’unica stanza, capaci di far vedere al lettore “il mondo dall’alto, il suo bellissimo ordine calmo. Un ordine antisettico […] racchiuso nelle conchiglie e nelle caverne, nei granelli di sabbia e nei voli regolari di ogni aereo, nella simmetria”. Anche disgregato, lo spazio può quindi fungere da terreno di sperimentazione in cui le soluzioni di continuità tipiche del romanzo, arte narrativa delle conseguenze par exellence, vengono momentaneamente sospese o riarrangiate a seconda della sensibilità autoriale. Abbiamo allora gli itinerari arbitrari di Sebald, passeggiate meditative dove l’autore ci accompagna lungo il corso di epoche, sentieri e opere di scrittori e poeti venuti prima di lui, i dedali ironici e allucinati di Gospodinov, che come ogni labirinto rivelano un disegno solo se visti a volo d’uccello, e i “romanzi-costellazione” di Tokarczuk, gabinetti delle curiosità che forniscono una reinterpretazione pratica del concetto benjaminiano di costellazione.
Se infatti, come scriveva Benjamin in Il dramma barocco tedesco, “le idee si rapportano alle cose come le costellazioni si rapportano alle stelle”, l’obiettivo ultimo dell’autore è la restituzione di una leggibilità attraverso corrispondenze contingenti, costruite per giustapposizioni di ritagli, frammenti ed elementi disparati in cui il lettore è in grado di rinvenire un percorso interpretativo, uno dei tanti possibili. Discernere una costellazione, una strutturazione apparente di fenomeni che a uno sguardo d’insieme formano una figura leggibile, è un modo di destreggiarsi tra le parole mantenendo aperta l’interpretazione del tutto, dal momento che quest’interpretazione, incompleta e soggetta alla sensibilità del singolo, non si esaurisce nelle intenzioni dell’autore o del narratore. Per Tokarczuk il mondo è fatto di interconnessioni, la frammentazione della forma romanzo non è che propedeutica all’esercizio di sintesi dei contenuti. Non è un caso che la disgregazione della forma romanzo giunga a compimento proprio nei Vagabondi. È di nuovo Magris a notare, sempre in prefazione a L’infinito viaggiare, l’equivalenza tra viaggio e letteratura, entrambi visti come una forma di “esplorazione, decostruzione e ricognizione del mondo e dell’io”. Compito della lettera, punto spaziale in cui i due si congiungono e da cui si dipartono, è proseguire lo spostamento e la sistemazione: “La scrittura continua il trasloco, impacca e disfa, aggiusta, sposta i vuoti e i pieni, scopre – inventa? trova? – elementi sfuggiti all’inventario e perfino alla percezione del reale”. Nella loro collocazione, i frammenti sono essi stessi una forma di totalità.
Il recupero della dimensione orale, comunitaria ed empatica del racconto può riaffermare una serie di connessioni tra gli individui.
Viene quindi da domandarsi quale sia il ruolo del narratore, o persino se I vagabondi, con il suo impianto testuale così peculiare, possa averne uno. Ebbene, la scrittrice opta per un radicale mutamento di prospettiva, come proposto nel suo discorso di accettazione del Nobel: in un’epoca di crescente atomizzazione e proliferazione di informazioni istantanee, piagata dalla polifonia di narrazioni in prima persona, Tokarczuk auspica l’avvento di un nuovo tipo di narratore “in quarta persona”, capace di trascendere i vincoli della grammatica e della separazione dei personaggi, di ignorare confini e tempo per rivelare le connessioni nascoste fra gli elementi dell’insieme. In quella che forse, più che una vera e propria costellazione, è una semplice correlazione spuria osservata da chi scrive, Tokarczuk sembra riprendere le intuizioni del Benjamin del Narratore, avanzando l’idea di czuły narrator, del “narratore tenero”, come una delle possibili modalità di ritorno del narrare.
Il recupero della dimensione orale, comunitaria ed empatica del racconto, che per il critico tedesco era andata perdendosi con l’avvento del romanzo, dell’informazione e del trauma della guerra, può riaffermare una serie di connessioni tra gli individui, gli esseri umani e non umani, l’ambiente e l’esperienza di tutto ciò che trascende i sistemi di produzione e riproduzione sociale della contemporaneità. La memoria del narrare si compone per Benjamin di una “lenta stratificazione di strati sottili e trasparenti”, maturata attraverso lo scambio, la comunicazione e la condivisione del patrimonio culturale. È per questo che Tokarczuk sente il dovere di raccontare “come se il mondo fosse una singola entità vivente che si forma di continuo davanti ai nostri occhi”, un’entità di cui il destinatario della narrazione fa parte sia nella decifrazione che nella costruzione del senso, attività che, nella forma-costellazione, procedono di pari passo.
Bauman scrive che la nuova tecnica del potere si serve dell’arte della fuga, e che affinché questo “sia libero di fluttuare, il mondo deve essere privo di recinti, barriere, confini fortificati e posti di frontiera”, cercando di eliminare qualsiasi rete di legami sociali, specie se radicati in un territorio. In uno strano movimento d’inversione, il narratore di Tokarczuk parte da questo stesso presupposto e ne inverte la rotta, spostandosi fuori da qualsiasi recinto, barriera e confine fra i generi letterari e non per far rinvenire questi stessi legami nell’armonia del testo e nella percezione del lettore, infiltrandosi tra righe e frammenti per invitare il destinatario a traslare l’esperienza della lettura sul piano della vita e dell’azione, ricreando quelle impressioni di totalità e di appartenenza ormai perdute. Anche senza condividere in toto l’inclinazione spirituale dell’autrice o l’efficacia di una simile manovra, è indubbio che questa sperimentazione abbia prodotto (e possa continuare a produrre) in letteratura risultati originali e riusciti. La sospensione del narratore “tradizionale” rende il romanzo, per Tokarczuk, un terreno di negoziazione del senso, così che il testo stesso possa liquefarsi e rimodellarsi, proprio come l’arbitrarietà delle figure delle costellazioni, in base alle attese del destinatario-lettore.
Si ritorna allora a Calvino, che quarant’anni fa affermava: “Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”. Così, quasi ad anticipare la svolta di Tokarczuk, la sottesa analogia tra persone, testi e narrazioni frammentarie soggette alla libera interpretazione palesa la necessità di esercitare tutte le facoltà che Calvino augurava al romanzo del futuro. Ma un tale narratore richiede un tale lettore, e a un czuły narrator deve corrispondere un czuły czytelnik: un lettore ricettivo, empatico e fantasioso, altrettanto capace di rinvenire un proprio personale cosmo della percezione nelle infinite costellazioni che si celano nell’esistenza.