E siste nella cultura italiana una specificità tutta provinciale che da molto tempo viene nettamente sottorappresentata – in letteratura come al cinema. I motivi sono molteplici, a partire da una forma di orgoglio periferico che lascia i provinciali in provincia. Effetto non secondario della retorica del chilometro zero, del poco ma buono, dei Latour e dei Latouche che offrono una possibilità di decrescita felice raccontando quanto è bello il paesello e quanto è catartico il capannone, spesso di papà o di nonno. Almeno fino a quando il cinese non se lo compra o il nordafricano non se lo occupa. Un po’ di colpa di questo nuovo e ostinato permanere dove si è nati – motivo per cui forse si diventa cretini, a parafrasare lo Stefano Nardini di Valerio Mastandrea in Non pensarci di Gianni Zanasi – è di Gianni Celati e dell’impatto lungo e carsico generato (non volutamente) da Viaggio in Italia e da Narratori delle pianure, e poi dall’antologia Narratori delle riserve, lavori che hanno dato libero sfogo a una lamentazione vittimistica del territorio che fuori dall’Emilia Romagna perse anche ogni afflato ironico, restituendo ai lettori l’angoscia e la paranoia per una distesa padana infinita fatta di particelle sottili.
L’idea di Celati e dei fotografi che parteciparono alla costruzione di quell’immaginario, Luigi Ghirri in testa, a dire il vero era l’opposto, ovvero restituire sguardo e dignità su luoghi fino ad allora ritenuti periferici e desolati. Per farlo Celati applicò alla letteratura e alle sue lunghissime e ossessive camminate uno sguardo incantato, ma fortemente consapevole: un occhio da raffinatissimo novelliere. La ricezione fu però pessima, nel senso che colpì al cuore solo una nicchia di lettori e di studiosi che tramutarono così quel fragile incanto in una declamazione del periferico, e non della sua liberazione. Un canto alla bellezza del capannone abbandonato, ma senza nessun rave dentro e attorno.
Ci provarono allora Umberto Eco e Remo Ceserani nel 2009 con una bellissima antologia einaudiana dedicata alla nebbia a liberare la pianura padana dal piagnisteo dei pochi ma buoni, ma il tempo aveva già cristallizzato quella visione e di Celati stesso quell’interpretazione che lo castrava di quell’eros magnifico al tempo stesso parallelo e opposto ad altri due grandi provinciali: Pier Paolo Pasolini e Aldo Busi. Quell’eros rappresentava l’origine di una fuga che era permanenza ostentata nei luoghi. Un pascolare che portava Celati da Los Angeles all’Africa passando sempre per la foce del Po e quella pianura infinita. Il risultato fu così invece che letterario meramente narrativo, nell’accezione però più lontana possibile da quella celatiana. Da un lato l’interpretazione del mondo in forma di scatola, ovvero Baricco e la narrazione come arte applicata, dall’altro nell’interpretazione della scatola come un mondo quindi Andrea Vitali e il lago, i giallisti di montagna e di riviera con il conseguente recupero di un padre nobile come Piero Chiara: l’Aldo Palazzeschi di Luino.
Una Detroit nazionale salvata dalla desolazione solo per la sua frammentazione e per quell’ossatura fatta da piccola impresa, capacità di arrangiarsi e produzione di debito nazionale.
Tutto ciò non ha fatto che rinsaldare e stereotipare le due capitali italiane: Milano e quella vera, Roma, contestualmente a una crisi economica lunghissima per l’Italia che dal 1992 non ha più visto una capacità di crescita sostanziale e che ha così inevitabilmente reso provincia e provinciale qualunque luogo e qualunque cosa. Quello che a Milano diventava Rigenerazione&Innovazione e a Roma Potere&Pigneto, nel resto d’Italia non esisteva nemmeno come discorso, un grado zero da deserto obbligato. Una Detroit nazionale salvata dalla desolazione solo per la sua frammentazione e per quell’ossatura fatta da piccola impresa, capacità di arrangiarsi e produzione di debito nazionale che potrebbe pure definirsi come collusione e familismo spinto. Genova, Firenze, Bologna, Napoli e Palermo ormai facenti funzione di grandi alberghi diffusi con rivendite di prodotti tipici da centro commerciale; città che così non sembrano più in grado di esprimere una loro autonomia culturale e tanto meno economica, pur con tutte le isole, le nicchie e la fatica di resistere dei pochi ma buoni, ma anche dei pochi ma davvero bravi.
Questo lo stato dell’arte dentro al quale prende corpo un viaggio a tratti biblico che porta Michele Masneri da Brescia (via Liceo Classico Statale Arnaldo) a Milano e poi a Roma. Un movimento apparentemente ovvio, almeno nella tratta Brescia-Milano, ma in realtà non così comune. Abbandonare la certezza dell’eccellenza lombarda in doppiopetto salmone garantita dall’allora presidente Roby Formigoni per rischiare l’affondamento nell’incertezza seppur quieta e ciotta di Roma, non era più cosa dai tempi di Goffredo Parise e Giuseppe Berto. Di quel viaggio, di quel pezzo di vita Michele Masneri ha deciso di farne materia da romanzo. Un pezzo convincente di letteratura contemporanea che è roba parecchio inedita per il panorama italiano odierno, fatto per lo più di traduttori prestati al romanzo. E Paradiso (Adelphi) di Masneri ha tutta la forza inedita di uno sguardo che mischia disincanto provinciale a ingenuità capitale e che traduce alla perfezione nella figura di un protagonista tanto dinoccolato quanto curioso come è Federico Desideri, giovane di professione giornalista, o meglio partita IVA. La trama è semplice: partire dalla Milano delle parole prive di sostanza per finire a Roma in cui prive di sostanze sono le persone.
Segui i soldi, dicono i giornalisti veri; non seguire i soldi è invece quello che spesso fanno i giornalisti di costume o di cultura (ovvero a perenne partita IVA). Desideri si trova così immerso in una fanghiglia in cui l’apparenza è tutto, ma a coglierla serve ben più della lezione sulla leggerezza di Italo Calvino che a Roma visse (odiandola) più che in tutte le altre città della sua vita. Masneri alla sua seconda prova narrativa dopo Addio Monti (minimum fax, 2014) offre uno slancio nuovo che in parte mutua dal suo lavoro di giornalista e soprattutto di gaudente abitante romano, per quanto possa essere gaudente un bresciano a Roma. E la sensazione è che se in parte ci sia una commistione pericolosa, soprattutto nel linguaggio, tra il fare il giornalista e provare a dare forma a un romanzo – che non è questione di postura o di qualità alta o bassa –, Masneri risolve invece efficacemente l’annosa questione con la consapevolezza salda che l’incertezza regna sovrana, e che il misto lino in qualche modo contiene più verità del puro lino. Se Addio, Monti ancora conteneva un desiderio di letteratura capace di offrire un’idea personale di Roma, anche con guizzi che già rivelavano le qualità di Masneri, qui è la concentrazione sullo stato delle cose che rendono a Paradiso una forza e un’originalità inedite.
Masneri risolve invece efficacemente l’annosa questione con la consapevolezza salda che l’incertezza regna sovrana, e che il misto lino in qualche modo contiene più verità del puro.
La messa in discussione infatti non è quella che riguarda il ruolo del romanziere (categoria così fluida, ma in un certo senso facile da indentificare), ma quella del giornalista. Ormai alleggerito, oltre che dall’INPGI anche dall’istituzione del giornale, il giornalista si trova ad affidarsi esclusivamente alla scrittura e al linguaggio come elemento primo per affrontare una notizia che non sta più in quello che un tempo veniva definito fatto, ma in un andamento che sta tra il detto e il non detto, tra il complotto e la tragedia (tra Dagospia e gli alberi pizzuti). Una commedia all’italiana che dopo aver perso l’autobus per molti anni (Monicelli dixit) ora scambia la corriera per un auto blu.
E in questa ambiguità Roma resta il miglior paio di occhiali possibili per vedere il reale, o quello che si presume tale. Ma soprattutto permette di scegliere, partendo da una scrittura colta e raffinata come quella di Masneri, se raccontare davvero il presunto reale o invece magari abbandonarsi (finalmente) a una narrazione letteraria che diviene del reale il suo presupposto, prima ancora che il suo verosimile. Un luogo altro che sta tra l’Esquilino e Tomba di Nerone, uno spazio infinito e compresso al tempo stesso, di immaginario e di possibilità che convivono parimenti – come sempre a Roma – alle impossibilità. Masneri con Paradiso ci avverte che Roma esiste a dispetto di Milano, ma non viceversa, e questo è già quanto, ed è già il motivo per cui Federico Desideri affonda a Roma, ma ritrovandosi in qualche modo – in un modo preciso e sostanziale – in un’umanità che non sta negli altri, ma finalmente in se stesso, con l’amore e le paure messe a nudo come in una tragedia, ma anche come in una liberazione.
A una prima e rapida lettura si può pensare che Paradiso possa stare in quel luogo che appartenne ai romanzi di Luca Goldoni o Nantas Salvalaggio, giornalisti al tempo stesso provinciali e di città, pigri e avventurosi, ma comunque figli di un Novecento solido e fermo, in cui fare il giornalista voleva dire avere una casa (anche di proprietà) e una centralità imprescindibile. Ora invece quel mestiere ha sempre più il sapore del superfluo, ma anche dell’urgenza che aiuta e agevola una sensibilità a una leggerezza che porta Masneri inevitabilmente dalle parti dell’amato Arbasino, ma anche di Goffredo Parise, pur senza ancora la loro controllata e felice ferocia.