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arissimo, eccomi ad Hiroshima ed ecco l’ultima novità: non sono più quel tale individuo a nome Alberto Moravia, non sono più italiano, europeo, ma soltanto membro della specie. E per giunta membro di una specie destinata, a quanto pare, ad estinguersi al più presto”.
Così comincia la “Lettera da Hiroshima”, che Moravia pubblica sull’Espresso nel 1982, rivolgendosi a un lettore indefinito dopo il suo viaggio nel luogo in cui fu sganciata la bomba. Insieme a altri articoli apparsi negli anni successivi, la Lettera fu pubblicata poi nel volume L’inverno nucleare del 1986. La nuova edizione di questo volume, arricchita di altri scritti e discorsi parlamentari, interviste dell’autore a diversi politici, scienziati e intellettuali, e un saggio di Alessandra Grandelis, è un’occasione per ripensare alla prospettiva originale di Moravia sulla minaccia della bomba atomica.
Quel contesto di decenni fa, tornando a considerarlo oggi, appare straniante ma tutt’altro che inattuale. Si ripensa a un tempo in cui le inchieste di un intellettuale su un periodico avevano un peso politico e uno scrittore esprimeva le sue idee al Parlamento europeo, si ritorna al clima della Guerra Fredda. Eppure, mentre ci s’impegna a ricomporre quel contesto passato, balenano intuizioni che sembrano parlare dell’oggi: “In un futuro non troppo lontano non escludo che ricominci, se non proprio la guerra fredda, almeno la storica rivalità per l’egemonia mondiale tra USA e URSS”, dichiara Moravia nel 1990, aggiungendo: “Ma questa è già una profezia e io non credo ai profeti”. Di qualche giorno fa è la notizia che la Russia di Putin sospenderà la partecipazione al programma New Start sulla riduzione delle armi nucleari, sottoscritto nel 2010 con gli Stati Uniti.
La nostra specie è diventata il soggetto di una nuova consapevolezza universale che si rende necessaria di fronte a una minaccia distruttiva globale.
Di questo libro metterò in risalto non profetiche illuminazioni, ma pensieri originali che ancora ci riguardano. Nella prospettiva di Moravia, la bomba atomica non è intesa come problema politico, né come problema implicito nel progresso scientifico-tecnologico, bensì come problema morale. Che non sia un problema politico vuol dire che per Moravia tutta la diplomazia sul disarmo graduale e sulla moderazione dell’utilizzo bellico delle armi atomiche è fondata su un presupposto sbagliato. Discutendo con un consulente d’alto rango del Partito comunista sovietico, afferma:
Oggi la sovranità consiste spesso nel fatto che in una discussione, mettiamo, sul petrolio, uno dice: o tu mi dai i pozzi di petrolio oppure faccio finire il mondo. Dunque, ci sono coloro che preferiscono il petrolio al mondo. Perciò qui viene fuori proprio il problema della sovranità; cioè l’interesse nazionale viene messo al di sopra dell’interesse della specie. In realtà, nessuna nazione è veramente minacciata; quella che è minacciata è la specie umana. Ne segue che bisogna creare una nuova morale basata sulla specie e non sopra la nazione.
Riecco la tesi della “Lettera da Hiroshima”: la specie diventa il soggetto di una nuova consapevolezza universale che si rende necessaria di fronte a una minaccia distruttiva globale, che la divisione politica tra gli Stati sovrani non sembra capace di arginare.
Moravia proseguirà il ragionamento sul Corriere della sera, affermando: “Pensare di arrivare al disarmo attraverso la politica è come pensare di arrivare alla costruzione di una casa cominciando dal tetto”. Qui presenta un argomento che ricorda la scommessa pascaliana sull’esistenza di Dio: nelle trattative tra Stati si può discutere di armi che non mettono a rischio la stessa esistenza umana, ma non si può trattare su armi che “sono al cento per cento letali”. Bisogna allora fare un salto categoriale verso un “altrove etico”, togliendo l’autorità di trattare la questione ai contendenti armati.
Su queste tesi Moravia è perentorio, anche quando parla da Parlamentare europeo (tra l’84 e l’89), e guarda con disincanto agli incontri bilaterali USA-URSS. Sul piano storico, afferma addirittura che Hitler è risultato “vincitore” della Guerra Mondiale perché è stata accolta “la teoria della soluzione finale ossia di una guerra che doveva concludersi con l’eliminazione totale del vinto e la sopravvivenza del solo vincitore. Cioè appunto col genocidio”. La bomba atomica si fonderebbe infatti sullo stesso principio.
La minaccia di una autodistruzione della specie implica il recupero di una volontà collettiva di specie, religiosa piuttosto che politica, di una “rivoluzione spirituale”.
Ecco perché Moravia si dichiara “zoologicamente ma anche religiosamente, membro […] della specie”. La minaccia di una autodistruzione della specie implica il recupero di una volontà collettiva di specie, religiosa piuttosto che politica, di una “rivoluzione spirituale”. L’affermazione ha un lato provocatorio, indicando che l’“umanità” di cui ha parlato l’umanesimo sembra perduta. Ma ha anche un lato filosofico, richiamandosi alla tesi di Schopenhauer di una volontà della natura che orienterebbe ogni atto verso lo scopo della sopravvivenza, e che l’essere umano non seguirebbe più avendo imboccato la via di un possibile suicidio.
Un’altra via che Moravia non prende, come accennavo, consiste nell’attribuire il problema alla scienza e alla tecnologia e a come queste fatalmente avrebbero trasformato l’umano. In proposito è interessante un confronto con le tesi di Günther Anders, che ne L’uomo è antiquato (1956) – presentato come “un ibrido incrocio tra metafisica e giornalismo” – esaminò criticamente come la tecnologia ormai pervasiva modificasse la vita umana, facendo particolare riferimento alla bomba. La tecnica per Anders è un fato che progressivamente disumanizza l’umano, portando a un’esperienza che egli definisce “vergogna prometetica”.
Prometeo ha riportato una vittoria troppo trionfale, tanto trionfale che ora, messo a confronto con la sua propria opera, comincia a deporre l’orgoglio che gli era tanto naturale nel secolo passato e comincia a sostituirlo con il senso della propria inferiorità e meschinità. “Chi sono io mai – domanda il Prometeo del giorno d’oggi, il nano di corte del proprio parco macchine, – chi sono io mai?”.
Il senso di inferiorità rispetto alla tecnica, che ormai ha oltrepassato ampiamente le prestazioni umane e prolifera autonomamente, risulta insuperabile, e porta a pensieri di compromesso e di resa indotti dalla sensazione di aver perduto la propria autonomia. Nel mondo tecnologico e automatizzato, “libere sono le cose; mancante di libertà è l’uomo”. Moravia avrebbe potuto condividere la preoccupazione umanistica di Anders, ma divergeva rispetto alla diagnosi di un inarrestabile declino dell’umano e alla tesi andersiana di una difficoltà d’immaginare un’alternativa. Per Moravia, viceversa, è possibile reagire con l’immaginazione e con la scelta etica della rinuncia.
L’immaginazione: nel racconto C’è una bomba N anche per le formiche (1983, incluso nel volume) un uomo, che segue una scia di formiche armato di una bombola d’insetticida, riflette sull’analogia: “Noi siamo delle formiche e il nostro insetticida sarà la bomba N”. La differenza è che le formiche esposte alla minaccia dello sterminio “vogliono vivere”, mentre gli umani ancora esitano di fronte alla nuova possibilità dello sterminio. Il racconto si conclude con una doppia citazione:
Lui sospira di nuovo e poi dice: “Non hai letto l’Ecclesiaste? Alcune migliaia di anni fa, ha detto: ‘Non c’è nulla di nuovo sotto il sole’; nessuno può dire: ‘Guarda, questa cosa è nuova.’ Questo pensiero dell’Ecclesiaste è stato valido, diciamo, fino al 1945; fino, cioè, alla bomba atomica; adesso non è più valido: ci sono molte cose nuove e, almeno per ora, non riusciamo a farcene un’idea chiara. L’ultima di queste cose nuove è la bomba N. Puoi forse dire, a proposito della bomba N, niente di nuovo sotto il sole? Eh no, proprio no. E allora, forse, delle cose di cui non si può parlare, è meglio tacere.
La frase conclusiva è una cripto-citazione dell’ultima proposizione del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein. Qui si pone proprio la questione di pensare ciò che oltrepassa i limiti della scienza: oltre le proposizioni che descrivono il mondo, esaurendo la funzione denotativa del linguaggio, c’è l’esperienza del Mistico, che riguarda non i fatti ma i valori etici e estetici. Si compone così, negli scritti di cui stiamo parlando, una linea di letture: Schopenhauer, Wittgenstein (grande lettore del primo), a cui si accosta in questi scritti anche Freud (altro lettore di Schopenhauer). Quel che accomuna questi riferimenti è la nuova esigenza di fermare una pulsione inconscia e irrazionale autodistruttiva, che alla metà del Novecento ha assunto la parvenza di una conseguenza inevitabile della tecnica nella bomba, ed elaborare, come concluderà dopo una conversazione con Ernst Jünger, un “tabù della guerra”: “L’umanità ha saputo creare il tabù dell’incesto; perché non potrebbe domani creare quello dell’omicidio organizzato e collettivo?”.
Per Moravia è possibile reagire con l’immaginazione e con la scelta etica della rinuncia.
Ecco l’aspetto morale della riflessione di Moravia: “Ora la questione” – scrive prendendo le distanze da tante analisi della intrinseca malvagità della tecnica – “non è tanto di sapere se la tecnologia è funesta quanto di vedere che uso se ne fa”. In questo senso, “l’atomica è una questione, diciamo così, morale”, che va affrontata senza compromessi: rinunciando. Tornando al paragone con l’eredità del nazismo, Moravia scrive: “Bisogna rifarsi allo spirito di Norimberga almeno per quanto riguarda le armi nucleari, ammettere francamente che l’arma nucleare è e non può non essere un’arma nazista e condannarla e proibirla ‘fuori’ della politica. In realtà si tratta di estirpare lo spirito suicida del nazismo una volta per tutte”.
Per questo tema la riflessione di Moravia ricorda quella di Sciascia, che certamente Moravia aveva presente. Ne La scomparsa di Majorana (1975), Sciascia ipotizzava che il geniale fisico italiano potesse essere sparito, ritirandosi forse in un convento, per rinunciare alla responsabilità scientifica e etica della ricerca sulla bomba atomica, di cui avrebbe intuito in anticipo l’esito e le implicazioni. L’indagine di Sciascia seguiva Majorana nella sua visita a Werner Heisenberg, col quale il fisico discusse di fisica atomica poco prima della sua scomparsa nel 1938. Un itinerario simile è intrapreso alcuni anni dopo da Moravia, che va a trovare il fisico Carl Friedrich von Weizsäcker, allievo di Heisenberg e partecipante al programma tedesco di sviluppo della bomba, che dopo la guerra scrive libri filosofici ed è vicepresidente dell’Istituto internazionale per gli studi strategici di Londra.
È un incontro straordinario. Nella sua residenza vicino a un lago nei pressi di Monaco, come ricorda Moravia, Weizsäcker ha un “rifugio antiatomico di tre vani o quattro dotato di tutte le comodità e di tutti i ritrovati scientifici”. L’anziano scienziato dagli occhi “blu cupo” di “durezza germanica”, appare inizialmente come una sorta di dottor Stranamore, agitato da un “affanno ipocondriaco”. All’inizio della conversazione stupisce Moravia elaborando una stima dei morti che farebbe la bomba (quattro milardi) e ne conclude che la civiltà umana potrebbe sopravvivere. Incalzato da Moravia che obietta a questa previsione falsamente consolatoria, Weizsäcker concede che il problema è l’impiego dell’arma, che pure è tanto improbabile come opzione militare, e con un vertiginoso rovesciamento passa dal calcolo all’esigenza morale, alzando la posta:
Quanto alla causa profonda della guerra nucleare, io penso che se la civiltà è così buona come sostiene di essere e come pensano che sia i suoi difensori, allora la civiltà stessa dovrebbe abolire la guerra. In realtà la guerra nucleare è una conseguenza logica e naturale della nostra civiltà; ma una conseguenza che forse è possibile evitare. Per evitarla, poi, sono più favorevole ad un pacifismo assoluto che ad un tentativo di abolire le armi nucleari. Penso che la “non violenza” di Gandhi potrebbe avere un futuro.
Insomma, è “più facile abolire le guerre che le armi”. Sullo sfondo del dialogo c’è un’attenzione al movimento pacifista e antiatomico che si stava sviluppando all’epoca, e un comune scetticismo sulla diplomazia internazionale. Ma è interessante ricordare altri elementi più remoti che fanno da sottotesto a questo incontro. Weizsäcker, come è emerso da documenti relativi alla sua prigionia insieme a altri fisici tedeschi alla fine della guerra, si sarebbe impegnato per il mancato sviluppo dell’atomica nella Germania nazista. Quell’opzione è uno dei temi del dramma Copenhagen (1998) di Michael Frayn, che immagina il celebre incontro tra Heisenberg e Bohr durante la guerra, in cui forse si parlò anche del programma di sviluppo della bomba. Quel che nel testo teatrale non si vede è che Weizsäcker era con Heisenberg, e in realtà svolse un ruolo importante nel colloquio. Moravia si trova di fronte a un personaggio che ha vissuto in carne e ossa il dilemma etico della bomba, e lasciando i panni dell’intervistatore azzarda a un certo punto un’affermazione su cui i due sembrano convergere: “Non si dovrebbero fare le cose che non sono alla misura dell’uomo”.