

I testi di Roberto Bolaño fino a oggi pressoché inediti in italiano e che da qualche giorno è possibile leggere nell’edizione dei racconti completi (Tutti i racconti) pubblicata da Adelphi nella traduzione di Ilide Carmignani, sono apparsi, fatta eccezione per “Il contorno dell’occhio (Diario dell’ufficiale cinese Chen Huo Deng, 1980)”, per la prima volta in Spagna nel 2007, tre anni dopo il capitale 2666 e quattro anni dopo la morte del loro autore. Stando alla testimonianza di Ignacio Echevarría, amico e all’epoca agente di Bolaño, sono i racconti a cui lo scrittore cileno lavorò negli ultimi anni della sua vita. La cartella in cui quasi tutti sono stati ritrovati portava la dicitura “BAIRES”.
Spesso, quando ci si avvicina al materiale ritrovato di un morto illustre, capita di trovarsi di fronte a “bozzetti, tentativi, esercizi segreti” condotti “in una stanza buia e sconosciuta”, simili alle creazioni del poeta Ponç Altés evocato in “Il provocatore”, che per una frazione di secondo fanno la loro comparsa, per poi ripiombare con un passo di danza nel nulla. Fossili, resti di un’era perduta di cui non si potrà mai cogliere la totalità. Eppure i racconti del Segreto del male ‒ questo il titolo scelto per l’edizione del 2007 ‒, sembrano possedere un valore nuovo, ulteriore, diverso da quello di una confortevole familiarità, rispetto a quanto già letto, e arrivano ancora una volta a smentire la convinzione diffusa secondo cui i racconti di Bolaño nella maggior parte dei casi non siano altro che studi periferici, manovre di avvicinamento, esercizi preparatori a un nucleo romanzesco ben più solido e decisivo. Se non si considera la totalità del lavoro dello scrittore cileno come un progetto di superamento e ridefinizione della forma, non si può capire che ci si trova di fronte a un movimento niente affatto concentrico, ma eccentrico all’ennesima potenza, frutto di una volontà deliberata e vitale.
Nella letteratura di Roberto Bolaño, quanto appare incompiuto non lo è mai davvero. Quanto sembra doppio in realtà è ossessivo. Basterebbe confrontare le coppie cardinali che è possibile identificare nel complesso dell’opera per rendersene conto. La nouvelle Amuleto non è solo l’espansione di un capitolo dei Detective selvaggi; Stella distante non è la voce dedicata a Carlos Wieder in La letteratura nazista in America in scala aumentata; il racconto “Muscoli” non è un bozzetto di Un romanzetto lumpen; la biografia di Amalfitano di cui si legge in 2666 differisce per larghi tratti da quella dell’Amalfitano dei Dispiaceri del vero poliziotto, eccetera. Si tratta di formulare una teoria dell’orrore basata su due fattori: la necessità dell’incompiutezza e la tracciabilità dei movimenti del tempo tra le cose, delle cose nel tempo.
Se non si considera la totalità del lavoro dello scrittore cileno come un progetto di superamento e ridefinizione della forma, non si può capire che ci si trova di fronte a un movimento niente affatto concentrico, ma eccentrico all’ennesima potenza, frutto di una volontà deliberata e vitale.
Ciò che in questi racconti suona nuovo, per così dire, è un’aria di presagio, un presagio originario e al tempo stesso un ultimo presagio, come se lo scrittore, mentre vi lavorava, non facesse che ripetersi i versi che si leggono in una delle sue Poesie perdute: “Cerca di non dormire, Roberto… Anche se il sonno ti chiude / le palpebre, cerca di non dormire… Ricorda immagini felici”. Arrivato alla fine, quel presagio è tutto ciò gli resta, tutto ciò che ha mai avuto. Ecco, quindi, che da questa prospettiva i testi del Segreto del male sembrano produrre una deviazione, un movimento di scarto, quasi la distanza tra Bolaño e la materia della sua letteratura, tra il mondo a parte di 2666 e le antiche ossessioni riguardanti la generazione perduta dei latinoamericani, negli ultimi anni, si sia fatta più ampia e difficile da colmare.
Ciò che in questi racconti suona nuovo, per così dire, è un’aria di presagio, un presagio originario e al tempo stesso un ultimo presagio. Arrivato alla fine, quel presagio è tutto ciò gli resta, tutto ciò che ha mai avuto.
“La mia proposta letteraria ha un legame diretto con la mia vita. La mia proposta letteraria è la mia vita” dice Bolaño in un’intervista. E aggiunge: “La proposta letteraria, la poesia del poeta, è il poeta stesso. Sempre”. Se si tengono a mente queste parole, forse è possibile collocare i racconti del Segreto del male in uno spazio liminale, distinto dal resto della sua produzione per un dettaglio quasi impercettibile. Nella prefazione all’edizione spagnola dei Cuentos completos, Lina Meruane annota: “ciò che ora la inquieta è la reiterazione [nell’intera opera di Bolaño] della stessa locuzione, triste e minacciosa. ‘Non lo rivide mai più’, ‘Non ci saremmo più rivisti’, ‘Non ci rivedremo mai più’, ‘Come se non dovessero mai più rivedersi’”. Meruane si domanda:
Perché un autore dalle così ampie risorse stilistiche e strutturali, dalla retorica così disinvolta e limpida, dall’immaginazione così debordante, ripete così tante volte questa frase? Non può trattarsi di una svista o di un’abitudine formulare, bensì di un volontario gesto di addio da qualcuno che si è perduto lungo il cammino o del desiderio di rievocare amici, scrittori, nemici, amanti, poeti del passato incrociati lungo la strada, figure che gli hanno lasciato una ferita nella memoria. In quei ‘mai più’ pulsa qualcosa che resiste alla scomparsa.
Di ripetizioni, ritorni, fantasmi del possibile, l’ultima produzione di Bolaño è piena. Basti pensare a “Labirinto”, senza dubbio il racconto più bello dell’intera sezione, in cui i movimenti degli occhi di un osservatore e i mutamenti della luce sono sufficienti ad animare una fotografia in cui posano Jacques Henric, Jean-Joseph Goux, Philippe Sollers, Julia Kristeva, Marie-Thérèse Réveillé, Pierre Guyotat e Marc e Carla Devade. Il risultato è un movimento irreale e al tempo stesso concreto, in cui i soggetti della foto, “creature letterarie”, vengono baciati sulle labbra dalla letteratura senza che se ne accorgano, e, senza mai spostarsi, deambulano nella Parigi delle loro vite, negli interni domestici delle loro vite, nelle passioni delle loro vite, come all’interno di un diorama animato.
Il Segreto del male, nella sua indubitabile unità, somiglia a una rinuncia all’eternità o forse, più precisamente, a un tentativo di fuga dal paese delle ultime volte. È come se, all’improvviso, le cose abbiano smesso di finire e abbiano iniziato a ripetersi.
sognai mio figlio circondato da quel paesaggio che era stato il mio paesaggio, il paesaggio atroce dei miei vent’anni, e qualcosa nel suo atteggiamento divenne comprensibile. Se mi avessero ammazzato in Cile nel 1973 o all’inizio del 1974, lui non sarebbe nato, e orinare dal bordo della piscina, come se stesse dormendo o di colpo si fosse messo a sognare, equivaleva a riconoscere, attraverso un gesto il fatto e la sua ombra: essere nato e la possibilità di non essere nato, essere al mondo e la possibilità di non esserci. Nel sogno capii che quando Lautaro aveva fatto pipì nella piscina stava anche sognando, e capii che io non avrei mai potuto avvicinarmi al suo sogno ma che sarei sempre stato al suo fianco. E appena mi svegliai mi ricordai che da bambino una notte mi ero alzato e avevo orinato a lungo dentro l’armadio di mia sorella. Ma io ero un bambino sonnambulo e Lautaro, per fortuna, non lo è.
Nell’ultimo racconto del Segreto del male, il narratore dice: “Una sera, quando avevo vent’anni ed ero un giovane sensibile, in una pensione del Guatemala, sentii due uomini parlare nella stanza accanto”. Anche se non siamo mai stati in Guatemala e se di anni adesso ne abbiamo il doppio, di là dalla parete, di tanto in tanto, ci capita di sentirli ancora. È questo, siamo d’accordo, è miracoloso.