C osì, praticando entomologia, ho la conferma che l’immaginario è reale […]. Ogni volta che vado in cerca di un insetto vengo traslato in un altro mondo, anche quando mi trovo nel parco vicino casa o in una desolata area industriale abbandonata in prossimità del quartiere in cui abito da una vita. In tali luoghi familiari eppure estranei, non vado a caccia d’insetti come una creatura superiore che dall’alto allunga la sua mano, bensì sprofondo in un abisso esposto all’incontro con l’imprevisto, l’inatteso, la sospensione del sapere in un limbo d’incredulità.
Sogno e realtà
Non riesco a credere nel reale, neppure quando mi si presenta sotto gli occhi (o meglio, alternatamente un occhio alla volta, disgiunto in due immagini sfalsate e non sovrapponibili) ingrandito nei dettagli. Non riesco a pensare che le proprietà ontologiche possano essere applicate anche all’immaginario. Ne deriva che la mia immaginazione è quasi del tutto schiacciata su un calco della realtà. Mi devo sforzare per credere nel reale e mentre lo ritraggo, talvolta scarabocchiando disegni in punta di matita, mi si palesa per quello che è: un prodotto dell’immaginario. Si creano millimetrici spostamenti, scarti impercettibili nel campo ottico. Ma si tratta più d’imperfezioni percettive che di fantasie. Da bambino sognavo Tenebrionidi, non supereroi a fumetti: trascorrevo ore fantasticando, incollato al microscopio invece che alla televisione. Forse è per questo schiacciamento della fantasia sul piano della realtà che oggigiorno non mi fido di ciò che si mostra nel Diaperis (palpi, antennomeri, tibie, uncini).
Continuo a osservare il coleottero nel microscopio. Il sogno entomologico su questo Tenebrionide è forse un incontro con la retorica, tentativo d’un uso ludico della lingua. Invece delle sue forme vedo ramificare il regno cadente dei rovi, in parte rugginosi e contorti come filo spinato.
Ho in testa rovi frammisti a cespugli di quelle piante infestanti, dal polline allergenico, tipiche dei terreni incolti, simili ai farinelli ma con le foglie palmate a lamina frastagliata, le quali d’inverno si fanno d’un triste colore tra il bruno e il verde scuro e che passano sotto il nome di Artemisia, certamente la cespugliosa Artemisia verlotiorum, ossia l’assenzio selvatico.
Da bambino sognavo Tenebrionidi, non supereroi a fumetti: trascorrevo ore fantasticando, incollato al microscopio invece che alla televisione.
Intorno un pullulare di acari rossi, tardi nei movimenti, ondivaghi (ciascuna pianta accoglie contenuti diversi, la pianta è per sua natura ospitale). Qualche arbusto di verbasco che spunta qua e là sul terreno e, sul prato lì ai miei piedi, le spugnole, commestibili, quasi piccoli alveari pensili. Sul bordo degli scarponcini da trekking s’aggira, con passo felpato, un Crisomelide metallico dalla forma sferica come un seme di viburno. Una Chrysolina banksi di un bel verde bronzato e il ventre rossiccio, oppure una grossa Timarca nera e goffa, dai tarsi palmati. Oppure ecco, molto più probabilmente la lenta Chrysolina rossia che a quel tempo era ancora chiamata sanguinolenta, dal bordo rosso fiammante delle elitre nere e lucide. Se toccata sembra sanguinare, secernendo istintivamente dalle giunture un liquido rosso velenoso che la protegge dai predatori. Il peridio delle vesce lacerato sotto i passi libera nuvolette di innumerevoli spore, come piccoli peti colorati.
Scene di caccia
Ho appena finito il caffè e riportato la tazzina Richard Ginori in cucina. Ora siedo in studio fissando lo sguardo in un angolo della stanza mentre sorseggio un bicchiere d’acqua. Non riesco più a scrutare dentro il microscopio e, come imbambolato, preferisco lasciarmi trasportare dalla fantasia, raccontarmi una storia alternativa. Ricordo il momento della cattura di questi quattro Diaperis nell’interstizio marcio, la melma viscosa di batteri e di spore, tra funghi viscidi e colorati. Ecco la carie bruna del legno, originata da funghi come i Polipori, che si nutrono di cellulosa ma non di lignina: di colore tra il marrone e il grigio, è detta anche “carie cubica” perché l’interno del tronco colpito, che perde la propria durezza e la resistenza longitudinale, si sfalda in frammenti a forma di cubetti. Dove il fungo si nutre del legno, destrutturando la cellulosa in composti commestibili del carbonio, era un indistinto brulicare di ombre. Apparve ai miei occhi stupefatti un’intera colonia di esemplari rannicchiati in ibernazione. I micetofagi si svegliarono intontiti dal freddo, dall’improvviso manifestarsi della luce, amanti delle tenebre, appunto, simili a dei diavoli mascherati.
Ricordo il momento della cattura di questi quattro Diaperis nell’interstizio marcio, la melma viscosa di batteri e di spore, tra funghi viscidi e colorati.
Si dovette sentire rumore di passi, quel giorno di febbraio, passi pesanti sul suolo freddo dell’inverno. Sospeso il canto dei passeri infreddoliti mentre osservavo la crea del legno. Il linguaggio scardina la percezione diretta del ciclo vitale mentre mi ritrovo, nel ricordo, in un bosco simile a una pineta paludosa. So bene oggi che ogni bosco dà nutrimento e che la selva è fatta per perdersi, abbandonando i sentieri, guardando dietro gli alberi, nel fogliame e in tutto ciò che sta nel mezzo. Non mi apparve allora il verde smeraldo delle chiome, o l’azzurro del cielo, o il rosso delle foglie secche, bensì una sedia sfondata, un copertone lacerato.
Se ci ripenso, come in un grande affresco o in un arazzo vedo il quadro nella sua interezza e percepisco adesso il mio collo come un grosso ramo cilindrico. Riesco a figurare in me l’ascia, il dolore dell’ascia che penetra fino a tre quarti. Sono io il corpo dentro il quale trovai il Diaperis. Colpivo e battevo la mia carcassa vuota, martoriata, quand’ecco che nello strappo della trama del legno marcio, nella mia stessa carne, in prossimità del fungo, si palesò il riflesso rapsodico nero e arancione del Diaperis, zigrinato sulle elitre, simile al fulmine, alla saetta.
Continuai a scavare con delle grosse pinze metalliche nelle venature, nell’accostamento delle gradazioni di colore e delle sfumature, nelle scanalature, nello sfaldarsi, nello sfascio della materia. Ero vicino a una baracca di legno coperta di lamiera. Al contatto con le fredde pinze saltavano fuori i Diaperis, simili a delle palline rotolanti in quell’humus vitale. Li avevo trovati, come fossero pigmenti, piccoli nodi colorati nella trama del tessuto, e uscivano da lì a getto continuo, come una fontana miracolosa, prodigio di generosità incondizionata che è tipica solo del sogno.
Un estratto da Memorie dal sottobosco di Tommaso Lisa (exorma, 2021).