L’ 8 agosto del 1926, nel parco della villa romana di Luigi Pirandello, va in scena un duello pubblico tra il poeta Giuseppe Ungaretti e lo scrittore Massimo Bontempelli. Qualche giorno prima, al Caffé Aragno di Roma, accecato dall’ira dopo aver letto l’articolo di Ungaretti pubblicato su Il Tevere dedicato alle “disgrazie” della sua scrittura, Bontempelli si scaglia contro di lui con un sonoro ceffone che Ungaretti non può lasciar passare impunito. Arbitrato dal celebre maestro d’armi Agesilao Greco, il duello dura poco perché al terzo assalto la spada di Bontempelli colpisce l’avambraccio di Ungaretti: nulla di grave, ma il duello è finito ed entrambi gli scrittori sono stati in grado di salvare il loro onore e di contribuire al prestigio della loro immagine, soprattutto se si considera che all’incontro erano stati invitati molti fotografi e giornalisti. Uno di questi, esponendo una fotografia del duello, scriverà che si tratta del “primo poema eroico del Novecento”.
Questo episodio, una curiosità all’interno della biografia di Bontempelli, sembra però nascondere in chiave trasfigurata uno dei caratteri della sua posizione all’interno della letteratura novecentesca italiana: il desiderio di imporre al mondo letterario italiano la sua particolare visione sulle forme della narrazione e, dall’altra, l’anestetizzazione dei ruggiti di questa scrittura da parte di una critica che si assopisce sulla definizione di una normalità spettacolare. La veemenza di sfidare a duello uno dei più autorevoli poeti italiani per un giudizio poco lusinghiero (anche se in realtà i battibecchi esistevano già da prima) e l’aspettativa per uno scontro da gentiluomini che si sgonfia con una riappacificazione che dà lustro a entrambi. L’idea del “realismo magico”, genere letterario che fa capo proprio a Bontempelli, rappresenta plasticamente questa situazione: un modo di fare letteratura dirompente nell’alveo delle lettere italiane, che subisce però un appiattimento che pare non aver mai reso del tutto il valore di questa nuova idea.
A partire dagli anni Trenta del Novecento in Italia, accanto a una linea narrativa che si basa su diverse forme di realismo psicologico, inizia a svilupparsi una tendenza che sposta le coordinate narrative verso territori che costeggiano e sconfinano nel fantastico, una produzione esigua se confrontata con la maggior parte delle pubblicazioni dell’epoca, ma sorprendente per la sua qualità (si pensi per esempio, oltre a Bontempelli, a Tommaso Landolfi, Antonio Delfini o Alberto Savinio, ma anche, più tardi, a Dino Buzzati, ad Anna Maria Ortese o a Luigi Malerba). Nel passaggio tra l’Ottocento e il Novecento tra le opere afferenti al genere fantastico vanno compresi anche quei lavori dove la razionalità viene abbandonata a favore dell’immaginazione, la realtà subisce un processo di smaterializzazione che la avvicina ai mondi dai confini sfumati della surrealtà e dell’onirico: così nascono tra le pagine dei romanzi nuovi mondi in cui le paure e le angosce dell’inconscio possono sfogare tutta la loro forza perturbante emergendo dalle strette maglie della razionalità.
Tra i più importanti autori di questo cambiamento c’è sicuramente Massimo Bontempelli, che però finisce per rientrare in quella ristretta e sfortunata categoria di scrittori che soccombono a un’etichetta che ne appiattisce il lavoro con semplificazioni definitorie, il realismo magico appunto, che rimane tuttora, nell’immaginario comune e con un certo margine d’errore, un tipo di letteratura che passa da Bontempelli per giungere a Garcia Marquez. Partito da posizioni simili a quelle di Pirandello, da cui riprende il gusto per i caratteri sempre ambigui della realtà, Bontempelli decide infatti di proseguire su quella linea portando all’estremo la confusione percettiva sui piani della realtà, trovando un’espressione essenziale di queste ambiguità in alcune opere teatrali come Nostra Dea e Minnie la candida, rispettivamente del 1925 e del 1927. In un piccolo libro che raccoglie una serie di sue divagazioni, La donna del Nadir, Bontempelli spiega in maniera esplicita quali sono le ragioni del suo interessamento verso quella specifica declinazione del reale:
Sempre e dovunque l’Occulto, per operare, si serve di intermediari naturali; sempre e dovunque il Potere superiore si cala e nasconde entro una legge naturale. La storia naturale è il complesso e l’armamentario degli strumenti che in tal modo l’Occulto tiene a propria perenne disposizione.
Queste idee trovano una sistemazione teorica nell’esperienza della rivista ‘900, fondata e diretta da Bontempelli a partire dal 1926, rivista caratterizzata da un’apertura cosmopolita e dalla volontà di sprovincializzare la cultura italiana aprendo ai fermenti delle maggiori avanguardie europee del periodo. È importante però valutare come questa declinazione della letteratura abiti l’opera di Bontempelli: in primo luogo si può infatti notare come lavori dalla natura simile fossero apparsi anche in precedenza (vista infatti la fumosità della definizione, cosa dire per esempio dei racconti E.T.A. Hofmann?), anche se questo non toglie nulla all’esperienza di Bontempelli, che opera un simile rovesciamento di prospettiva in una realtà culturale abitata da “Strapaese”, con tutto il suo carico di antagonismo verso il cosmopolitismo e l’esterofilia.
In secondo luogo, per valutare con precisione il lavoro di Bontempelli, è altrettanto importante sottolineare come non tutta la sua opera sia segnata in maniera totalizzante dal realismo magico. Si potrebbe infatti immaginare l’influenza di questa scelta stilistica di Bontempelli (che trova per esempio straordinarie declinazioni in Eva ultima o Vita e morte di Adria e dei suoi figli) come un movimento tempestoso all’interno della sua opera, che dai primi e più forti effetti sulla scrittura, pian piano si allontana continuando però a depositare alcuni frammenti che vengono processati fino a divenire parte integrante, e quasi inconsapevole, della scrittura. Capire questa relazione tra Bontempelli e il realismo magico è probabilmente l’unico modo per non commettere la stessa operazione di appiattimento di chi cerca solo il fantastico nella sua opera, oltre a essere il modo per apprezzare alcuni caratteri dei suoi racconti.
La pubblicazione da parte di Utopia Editore (che già lo scorso anno aveva pubblicato Gente nel tempo, quello sì tra i risultati più alti del realismo magico bontempelliano) di Il figlio di due madri risponde a questa situazione, perché si tratta di un romanzo dove emergono tutte le peculiarità della scrittura di Bontempelli di cui si è parlato, oltre a essere una testimonianza della sua capacità di costruire e muovere i fili della narrazione con una certa maestria. Tenendo bene in mente questi due caratteri della scrittura, si potrà anche valutarne l’incidenza nella declinazione del realismo magico che, come capita in alcune delle opere di Bontempelli, non può essere considerato come l’unico metro per valutarne i risultati, ma come uno degli ingredienti, probabilmente quello con il maggior peso specifico, responsabili dell’atmosfera finale.
Nelle pagine di L’avventura novecentista Bontempelli si concentra sui rapporti che esistono tra la narrativa e le arti figurative, mostrando come i pittori del Quattrocento italiano siano anche per gli scrittori degli importanti punti di riferimento per la loro capacità di disegnare storie con “precisione realistica e atmosfera magica”. Questi “maestri”, come li definisce Bontempelli, possono essere considerati a ragione come dei predecessori della narrativa moderna, proprio perché il loro realismo è “avvolto in una atmosfera di stupore, espressione di magia”: in altre parole, aggiunge Bontempelli,
ciò che è realtà, natura, per acquistare un valore d’arte, deve essere dominato dalla immaginazione.
Lo scopo della letteratura è allora quello di imparare a dominare il mondo attraverso l’immaginazione “fino a poterne sconvolgere a piacere le leggi. Ora, il dominio dell’uomo sulla natura è la magia”. Magia, natura, immaginazione e arti figurative sono alcuni degli elementi che compongono Il figlio di due madri, a partire dall’evento iniziale che muove tutta la vicenda: Mario, il bambino protagonista, nel giorno del suo settimo compleanno esce per una passeggiata con la madre Arianna, moglie dell’agiato Mariano, e, dopo essersi addormentato al parco, al suo risveglio non riconosce più la madre e le chiede di riaccompagnarlo a casa sua, dove ad aspettarlo c’è la sua mamma. Scosse, scombussolate, ma mosse anche da una dissonante razionalità cartesiana, la madre e l’istitutrice accompagnano il bambino, prima Mario, adesso Ramiro, in questa nuova casa dove incontrano in effetti una donna, Luciana, che aveva perso il figlio proprio sette anni prima.
Il romanzo sembra allora essere la storia di una reincarnazione, e anche se alcuni critici hanno sottolineato come in questo caso il realismo magico sveli in maniera un po’ troppo didascalica la sua natura, l’irruzione del fantastico nella vita quotidiana, non c’è dubbio che Il figlio di due madri sia uno degli esperimenti bontempelliani più armonici e persuasivi dove troviamo proprio quest’andamento inverosimile, con colpi di scena notevoli, ma descritto con una precisione e uno sguardo che, come ha scritto Asor Rosa, “allude a una semplice e realistica ‘cronaca’ di fatti reali”. Nella storia del romanzo, che presto si trasforma in uno tragico scontro tra le madri, la narrazione assume quindi la “precisione realistica di contorni, solidità di materia ben poggiata sul suolo; e intorno come un’atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un’inquietudine intensa, quasi un’altra dimensione in cui la nostra vita si proietta”, assecondando proprio le parole che Bontempelli aveva scritto intorno al realismo magico.
Anche l’aspetto figurativo, di cui Bontempelli parla nei suoi scritti teorici, trova in questo libro, una sua declinazione ben precisa, che si riversa nella descrizione degli ambienti. Roma, altra protagonista della storia; subisce infatti una spaccatura antitetica in questo romanzo, tra il quartiere Lodovisi, quello da cui provengono gli altoborghesi Arianna e Mariano, e Trastevere, il quartiere popolare di Luciana e del piccolo Ramiro. Marinella Mascia Galateria nella sua Prefazione nota giustamente come in questa polarità tra i luoghi emerga la straordinaria capacità di Bontempelli di costruire in maniera quasi cinematografica, con l’affastellarsi di elementi che ricordano i procedimenti visivi dello sguardo, un romanzo che vive su luoghi che “non sono soltanto degli sfondi”.
La capacità di Bontempelli di sostenere una forza narrativa dove i dati della realtà si trasformano in mito, favola e sogno fa della sua esperienza di scrittore un capitolo importante all’interno della nostra storia letteraria.
A questi due luoghi si legano poi tutte le duplicità che caratterizzano il romanzo, come le due madri che sembrano a loro volta le rappresentanti universali dello scontro mai sopito tra razionalità e magia. Il milieu da cui provengono Arianna e Mariano fa sì che la loro ricerca del bambino stranamente scomparso sia il più possibile attaccata a ciò che concretamente si può fare per recuperarlo, mettendo in campo le conoscenze e le abilità che contrassegnano i tentativi legali a cui procederanno. Luciana invece vive nel mito, nella possibilità che le cose riacquistino il loro posto nel mondo attraverso la contemplazione e in un rapporto con la natura che si sublima nell’unione finale tra la terra e il cielo, tra il mare e le stelle.
La ferita all’avambraccio provocata a Ungaretti nel famoso duello a casa Pirandello, può allora assumere il valore simbolico del lavorio incessante praticato da Bontempelli sulla letteratura italiana e sugli auctores che vi si ergevano come intoccabili patriarchi: un taglio piccolo, che non mette in pericolo la sopravvivenza, ma, come in uno dei racconti più disturbanti di Tommaso Landolfi, uno degli autori per certi versi più in linea con la letteratura di Bontempelli, un taglio che apre a un mondo diverso, sconosciuto e probabilmente troppo poco frequentato.