S fogliando gli scritti teorici di Martin Amis o le sue interviste sul metodo, e circoscrivendo il campo ai testi sugli autori a lui più vicini e congeniali, impressiona l’attenzione che lo scrittore inglese dedica agli aspetti formali della scrittura e al mestiere dello scrittore, ed emerge quasi sempre l’idea di un’essenza naturalmente centrifuga del romanzo, un artificio che esiste per aprirsi all’esterno, per offrirsi ai lettori. In un saggio su Nabokov, raccolto in L’attrito del tempo, evidenzia una sorta di separazione nella vita dello scrittore che si attua nel momento della creazione artistica:
La lingua conduce una doppia vita e lo stesso vale per i romanzieri. Parlano con parenti e amici, si occupano della corrispondenza, si districano nella lettura dei giornali, consultano i menu e le liste della spesa, rispettano i segnali stradali, eccetera eccetera. Poi entrano nel loro studio, e lì la lingua esiste in una forma completamente diversa: è il regno dell’artificio e della forma.
In effetti, se si ripercorrono con la mente le voci che narrano le storie dei suoi romanzi o si riaprono i suoi libri, non sarà così difficile vedere il formarsi di una lingua che ha la forza di creare un mondo letterario perfettamente autosufficiente. In un’intervista che rilasciò a fine anni Novanta per Paris Review, Amis, rispondendo a una domanda sull’importanza del plot, permette ancora di addentrarsi nei cunicoli della sua mente di scrittore e prima dice che il “plot è realmente importante solo nei thriller”, mentre dopo, riferendosi direttamente alla sua opera, sottolinea: “Money è stato molto più difficile da scrivere rispetto a London Fields perché è, essenzialmente, un romanzo senza plot. Lo potrei chiamare a voice novel. Se la voce non funziona, sei fottuto”. Se leggendo Money e London Fields non ci accorgiamo di alcun scricchiolio, né nella struttura né nelle storie dei romanzi, ma anzi, ci sentiamo contagiare dalla voluttà di John Self nel primo e veniamo cullati dall’intreccio di registri differenti nel secondo, diventa chiaro come Amis sia stato tra i maggiori prosatori degli ultimi decenni: straordinario modulatore della narrazione in prima persona in un’epoca in cui sempre di più questa veniva sovra-utilizzata, sempre capace di accordare questa voce alla realtà da rappresentare, fosse questa gradevole o meno, accomodante o respingente.
Amis è stato uno straordinario modulatore della narrazione in prima persona in un’epoca in cui veniva sovra-utilizzata, sempre capace di accordare questa voce alla realtà da rappresentare.
Ma questa straordinaria abilità di Amis nasce anche dalla frequentazione assidua dei libri di altri scrittori e da un lavoro molto spesso capace di mettere in luce i meccanismi che regolano la scrittura altrui, come se l’esercizio critico fosse una messa in prova delle tecniche e delle scelte del narratore che trova risonanza in un ristretto alveo di suoi colleghi. Amis descrive così la sua attività critica negli anni Settanta:
In fatto di critica letteraria avevo principî morali ferrei. Non facevo che leggere libri di critica: mi portavo dietro i miei Edmund Wilson e William Empson praticamente ovunque: nella vasca da bagno, in metropolitana. Prendevo questa faccenda molto sul serio. E non ero mica l’unico; anzi. La gente, nel tempo libero, parlava di critica letteraria.
Si spiega anche così, in effetti, l’attenzione, quasi totalizzante nei suoi saggi, per pochi e sceltissimi scrittori come gli amici Chirstopher Hitchens o Saul Bellow, o il maestro assoluto Vladimir Nabokov, anche se poi, tra le sue pagine critiche, c’è spesso anche spazio per esempio per Don Delillo, Philip Roth o Philip Larkin. Ciò che impressiona leggendo i saggi raccolti in L’attrito del tempo o La guerra contro i cliché è la capacità analitica di Amis, che affronta la scrittura altrui mettendosi sempre alla pari del testo; affrontandolo, come suggeriva Nabokov, come fa un bravo lettore, non leggendo “col cervello o col cuore, ma con la schiena”, e, scrive Amis, restando in attesa di quel “formicolio rivelatore tra le scapole” di cui parlava lo scrittore russo ai suoi allievi alla Cornell University. Amis dà un’immagine del tempo in cui si dedicava primariamente alla critica che racconta il valore totalizzante di una passione quando si ha vent’anni, e cioè quando, negli anni Settanta, lavorava nella redazione del Times Literary Supplement (“mi presentavo alle riunioni di redazione con i capelli lunghi fino alle spalle, una camicia floreale e stivali tricolori alti fino al ginocchio (ben nascosti, va detto, dalle tende indiane dei miei pantaloni a zampa d’elefante)” e la critica letteraria rappresentava il punto nevralgico di ogni momento, il perfetto corollario a una “vita privata alquanto bohémien, hippy ed edonistica”.
Amis affronta la scrittura altrui mettendosi alla pari del testo, affrontandolo, come suggeriva Nabokov, non leggendo ‘col cervello o col cuore, ma con la schiena’.
Nei suoi romanzi, grazie a questa capacità radicale di leggere e comprendere le opere altrui, di scardinare i marchingegni narrativi e ritrovare le matrici che ne permettono il funzionamento, Amis riesce in effetti a costruire un materiale straordinariamente omogeneo che unisce la narrazione alla riflessione su di essa, illudendo il lettore che questo sia un procedimento semplice e naturale, ma, in fondo, dando continuamente saggio di una stupefacente abilità di tessitura. In piccolo, per quanto riguarda l’ampiezza del volume, lo stupore regna sovrano in La freccia del tempo, un romanzo di argomento storico, debitore di alcune pagine di Primo Levi, che descrive la vicenda di un uomo dai molti nomi, Tod Friendly/John Young/Odilo, medico e complice dei crimini nazisti che, nel momento in cui inizia il romanzo, sta per morire. In La freccia del tempo si avverte innanzitutto una scissione nel protagonista, come se questo non fosse capace di accettare i crimini che ha commesso cercando nomi differenti che ne annacquino la colpa. A risaltare forse più di ogni altra cosa, però, è la straordinaria tecnica narrativa di Amis, che non racconta semplicemente la storia all’indietro, capovolgendo gli episodi e muovendo quindi dalla morte sin verso la nascita, ma, utilizzando l’evocativa immagine di Daniele Giglioli, attua una vera narrazione a ritroso, “come una pellicola che si riavvolga inquadratura per inquadratura”.
Questo significa, e qui sta il vertiginoso gioco di specchi messo in piedi da Amis, che ciò che il protagonista vede e ricorda è ciò che è accaduto dopo e non quello che è successo prima: per esempio, il lavoro di medico procede all’inverso ed è segnato da quello che, alla voce narrante, appare come una malvagità gratuita (“Entra un tizio con una benda intorno al capo. Non perdiamo tempo. Gliela togliamo subito. Ha un buco nella testa. Ed ecco che cosa facciamo. Vi piantiamo un chiodo. Prendiamo un chiodo – un bel chiodo arrugginito – dalla pattumiera o da qualche altro posto”) almeno fino all’arrivo ad Auschwitz, dove l’inversione temporale lo porta a essere un “guaritore” perché gli ebrei, dopo essere stati uccisi, in realtà gli sembrano tornare in vita e poi salire su dei treni per tornare a casa. Qui la tecnica narrativa, oltre a costituire un avvincente saggio delle possibilità che offre la scrittura di raccontare le storie, pare offrire un preciso punto di vista sulla Shoah e sulla possibilità di raccontarla: se ciò che è accaduto ad Auschwitz rifugge ogni spiegazione, solo in un orizzonte narrativo che corre all’inverso e dove le azioni non sono quello che sembrano, con il ribaltamento dei rapporti di causa-effetto, tutto questo può acquisire un senso, altrimenti impossibile.
Anche nel caso di questo romanzo, pur nella sgradevolezza del personaggio e della vicenda che viene narrata, Amis costruisce un mondo che irretisce e cattura il lettore, operazione che si ripete in molti altri suoi libri. Il romanzo Money, de profundis intorno all’ossessione per il denaro di un regista britannico in cerca di finanziamenti negli Stati Uniti, riesce addirittura a duplicare l’effetto avviluppante già nella prima manciata di pagine, prima con la lettera al lettore che apre il volume:
Questo è il messaggio di un suicida. Quando lo troverai (e cose di questo genere andrebbero sempre lette con calma, pronti a cogliere ogni possibile indizio o rivelazione) John Self non esisterà più.
Poi, con la descrizione fugace, ma incisiva, di un incidente sulle strade di New York:
Mentre il mio taxi lasciava la Franklin Delano Roosevelt Drive da qualche parte intorno alla Centesima, una Tomahawk carica di neri uscì di corsia squaleggiando e si infilò di prua sulla nostra rotta. Sbandammo e centrammo qualcosa, uno spartitraffico o una buca: con il fragore di un colpo di fucile il tettuccio del taxi si abbassò di colpo e mi picchiò con violenza in pieno cranio.
Lo stesso accade con le prime righe di quello che è, forse, il romanzo più importante di Amis, L’informazione, dove è davvero difficile rimanere insensibili davanti al celebre attacco:
Le città di notte contengono uomini che piangono nel sonno, poi dicono Niente. Non è niente. Solo un sogno triste. O qualcosa del genere… Passa rasente sulla nave del pianto, con i radar delle lacrime e le sonde dei singhiozzi, e li scoprirai. Le donne – e possono essere mogli, amanti, muse macilente, pingui nutrici, ossessioni, divoratrici, ex, nemesi – si svegliano, si girano verso questi uomini e domandano, con femminile bisogno di sapere: – Che cosa c’è? E gli uomini dicono: – Niente. No, non è niente davvero. Solo un sogno triste. Solo un sogno triste. Ma certo. Solo un sogno triste. O qualcosa del genere.
Oltre che per il suo incipit, L’informazione è un romanzo straordinario per la sua capacità di descrivere con dovizia, sensibilità e disillusione i grovigli che caratterizzano ogni rapporto umano e che, in questo caso, si stringono e si allentano tra gli scrittori Richard Tull e Gwyn Barry. Poco importa se, nello scrittore sfortunato che invidia l’altro di successo, Amis abbia davvero raccontato Julian Barnes. D’altronde, in un’intervista degli anni Ottanta, Amis ha detto che “i romanzi sono cose artificiali. Non sono come la vita. Sono molto più armoniosi. Non sono caotici come la vita.” Ciò che importa davvero è che questo libro è una riflessione sulla letteratura tutta e sul suo rapporto con i lettori e la realtà. Perché, ancora una volta, dietro la storia intrigante e tragica di questi due scrittori così diversi, si cela una riflessione metaletteraria che mette a confronto due tipi di romanzo, e quindi di scrittura e di cultura. Richard Tull, “modernista abbandonato su un’isola deserta”, è l’autore di due romanzi complessi e per niente attraenti per il lettore comune (“Richard, si può tranquillamente dire, era una noia mortale dalla prima all’ultima pagina”) e si trova senza editore né pubblico, mentre l’amico Gwyn ha trovato uno straordinario successo con un romanzo dalla storia semplice che si offre in tutta la sua trasparenza di contenuti a qualsiasi lettore. Questi due personaggi simboleggiano in realtà due ingombranti totem che si fronteggiano, da un lato il romanzo letterario del Novecento (quello che richiede tempo e fatica, che rimanda ai maestri di Amis, come Nabokov e Bellow, ma anche a Joyce, “il miglior scrittore di romanzi geniali” come viene definito dal narratore di L’informazione); dall’altro invece una forma di narrazione più semplice e accomodante, sincera con il lettore rispetto alla sua natura poco profonda, ma altresì, come nel caso di Gwyn, foriera di fama e successo.
In un’intervista degli anni Ottanta, Amis ha detto che ‘i romanzi sono cose artificiali. Non sono come la vita. Sono molto più armoniosi. Non sono caotici come la vita’.
Ma se comunque la natura differente di questi romanzi, e soprattutto la conseguente idea diversa di letteratura e, quindi, della vita, è al centro del dissidio tra i due protagonisti, come capita in molti dei romanzi di Amis, la sua voce si rivolge direttamente al lettore che, da un certo punto di vista, viene chiamato a schierarsi, non solo tra i personaggi, ma a capire cosa cerca, che tipo di romanzo predilige. In un testo intitolato Buoni lettori e bravi scrittori, Vladimir Nabokov sottolinea come il corpo a corpo con il testo senza semplificazioni né scorciatoie sia l’unica strada percorribile per diventare uno scrittore e per conoscere davvero la letteratura e, prosegue, ciò che caratterizza un’opera d’arte è sempre la “creazione di un mondo nuovo” e che “la prima cosa da fare sarebbe studiare quel mondo nuovo nel modo più circostanziato possibile accostandoci a una cosa per noi del tutto nuova”. Se le cose stanno davvero così, difficile che Amis non abbia letto queste pagine. Non dovrebbe essere complicato scegliere se parteggiare per Richard o Gwyn, ma ancora una volta Amis non ha intenzione di insegnare niente e l’ultima parola è lasciata al lettore, invitato dal narratore a esprimersi, a leggere attivamente questa storia tormentata e, per certi tratti, poco edificante, a entrare tra le spire di una vicenda fatta di gelosia e disincanto. E in effetti nella versione originale in lingua inglese, l’incipit si tinge proprio della voce di Amis (“Cities at night, I feel, contain men who cry in their sleep”), una prima persona che dice molto della tecnica di narrativa di Amis, sempre pronto a rivolgersi, come narratore e come autore, al lettore.
Amis non ha intenzione di insegnare niente e l’ultima parola è lasciata al lettore, invitato dal narratore a esprimersi, a leggere attivamente la storia.
“Benvenuto! Fatti avanti, questo è un piacere e un privilegio. Lascia che ti aiuti. Dammi il cappotto, lo appendo qui (oh, per inciso, il bagno è da quella parte). Perché non ti siedi sul sofà… così puoi regolare la distanza dal fuoco” recita l’incipit di La storia da dentro (traduzione di Gaspare Bona). L’ultimo libro di Amis, uscito in Italia per Einaudi pochi giorni dopo la morte dello scrittore, non sfugge alla caratteristica sollecitazione nei confronti del lettore e lo fa, in questa occasione, in maniera ancora più diretta, con un invito ad addentrarsi fisicamente in un libro che prende la forma di una conversazione in salotto. In effetti, La storia da dentro è un lungo e straordinario percorso tra la vita e le opere di Amis, tra i successi e le disfatte, gli amici e i nemici, un itinerario dove il protagonista assoluto diventa il lettore, che Amis immagina essere “un lettore attento e ancora molto giovane” che forse ha “pensato di fare lo scrittore” e sta “lavorando a qualcosa” e che tra le pagine riceverà “qualche buon consiglio sulla tecnica, per esempio come comporre una frase che blandisca l’orecchio del lettore”.
C’è, nel preludio del romanzo, una pagina dove Amis racconta di essere stato invitato a tenere una conferenza alla scuola media della figlia a New York e, davanti a un uditorio di ragazzi, ha parlato di cosa significa fare lo scrittore in quella che è forse una delle più limpide dichiarazioni di poetica e, nello stesso tempo, un commovente ritorno alla mente adolescenziale: “Si dà il caso che nessuno meglio di voi sappia esattamente cosa significhi fare lo scrittore. Siete in piena adolescenza. L’età in cui si acquisisce un nuovo grado di consapevolezza di se stessi. O un nuovo grado di comunione con se stessi. È come se sentiste una voce, che è vostra ma non sembra vostra. È diversa da quella cui eravate abituati, sembra più articolata e perspicace, più pensosa e anche più giocosa, più critica (e autocritica), e anche più generosa e indulgente. Questa voce evoluta vi piace, e per conservarla vi ritrovate a scrivere poesie, magari a tenere un diario. Cominciate a riempire quaderni. In beata solitudine vi trastullate coi vostri pensieri e sentimenti, e a volte sui pensieri e sentimenti degli altri. In solitudine. […] Gli scrittori sono adolescenti in stallo, ma felici di esserlo.
In questo Preludio è condensato non solo il libro, ma forse l’intera opera di Amis, con i riferimenti al tentativo continuo di scrivere la propria vita e le interrogazioni sul life-writing (che “contiene tutto, da Proust agli annunci personali”), il racconto della nascita e dei fallimenti della scrittura (che a un certo punto sembrano anche chiudere la questione sul romanzo aperta in L’informazione: “Il mondo non rallenterà, quindi la poesia cederà altro terreno – come prima o poi potrebbe succedere anche al romanzo letterario), diventando un campo di interesse minoritario, più”–, le amicizie che hanno costellato una vita intera e attorno a cui ruota il racconto (l’amico Hitchens, morto dello stesso male di Amis, Bellow, “fenomeno di benevolenza e amore”, Larkin, tutte anime fraterne con cui continuare a parlare).
La storia da dentro è però probabilmente, più di ogni altra cosa, un libro sulla vita scritto all’ombra della morte (“Sì – dice Amis al lettore –, è vero, penso alla morte, quasi in continuazione, nel senso che è sempre nei miei pensieri, come una canzone indesiderata”), il perfetto connubio tra l’esistenza e il pensiero malinconico su ciò che di essa resterà, portato avanti con uno stile indimenticabile che si muove perpetuamente tra spirito comico e afflati tragici, perfetto specchio delle oscillazioni dell’esistenza registrate quando la fine si avvicina a grandi passi:
Senti che l’uscita si sta avvicinando, mentre sei trascinato verso il completamento della tua realtà. E si avvicina con ridicola fretta. […] È giunto il momento di sentirsi come un treno fuori controllo, che attraversa sfrecciando una stazione dopo l’altra. Ma ai tempi in cui mi arrampicavo sugli alberi, giocavo a rugby e di tanto in tanto nel cortile della scuola sfidavo le bambine a campana (tre attività che oggi mi paiono terribilmente pericolose) non è che il treno viaggiasse più lentamente. Nabokov ne indica addirittura la velocità: 5000 battiti all’ora. La vita corre verso la morte a 5000 b/h.
È strano pensare, chiuso il libro, che questo commiato di Amis sia l’ultimo che potremo leggere e che il suo dialogo con il lettore non avrà un nuovo capitolo, ma è certo che la gratitudine dello scrittore inglese è la stessa del suo lettore e, almeno questa, non avrà fine: “Mi mancherai anche tu, con il tuo calore, i tuoi incoraggiamenti, la tua clemenza. È giunto il momento. – Beh, arrivederci. Ho detto arrivederci, mio lettore. Arrivederci, caro, intimo, gentile lettore”.