D i alcuni libri non si può scrivere subito. Una volta chiusi, la voce del lettore di professione deve tacere e lasciare che le pagine e le frasi che li compongono continuino a parlare nella loro lingua segreta ancora per un po’; perché alcuni libri, questi libri, si rivolgono non solo al momento presente, ma anche a quello imminente. Serve un’occasione che, a saper aspettare, arriva sempre. Tomás Nevinson, di Javier Marías, è uno di questi libri. Non sono riuscito subito a scriverne: ho lasciato il libro su un tavolo fin troppo ingombro. L’ho spostato su questo comodino o su quella sedia, gli ho destinato la sommità dell’ennesima pila e alla fine, sfiancato, l’ho sdraiato in fondo allo zaino che porto con me ogni giorno. Adagiato su quello scomodo fondale, Nevinson ha continuato a guardarmi come un relitto mettendo a dura prova la capacità di resistenza della mia scelta.
Per giorni e giorni, finché in un arbitrario slancio di autodeterminazione non ho deciso che la mia temperanza aveva dato sufficiente prova di sé. Ma le circostanze, me ne rendo conto solo ora, hanno giocato in questo, come spesso accade, un ruolo infinitamente superiore a quello del mio libero arbitrio: da più di tre mesi, già piegato da oltre due anni di riduzione forzosa della propria indipendenza, quel concetto sfuggente che nella gazzarra quotidiana risponde al nome di “mondo” s’accapiglia disordinatamente su un’invasione che se probabilmente non è paragonabile a quella nazista della Polonia, sicuramente si è già assicurata un lungo capitolo sui manuali di storia prossimi venturi. Scoperchiando un vaso di Pandora che dal 2014 se ne stava lì in bella vista (ad avere gli occhi per vedere), il 15 febbraio scorso le truppe cammellate della Russia putiniana hanno varcato a colpi di cannone il confine ucraino, e mentre ancora si discute inutilmente di chi siano le colpe e cosa si dovrebbe fare per scongiurare il precipitare degli eventi, i media del pianeta ammanniscono in loop 24/7 messaggi di solidarietà che ai più scettici ricordano, né più né meno, la caricatura di un appello pacifista. Personalmente, non ho idee, ma opinioni, come quasi tutti. Anzi, come tutti. Perché la verità, chiunque ne parla ma nessuno ha le prove della sua esistenza. Per crederci occorre un atto di fede, una fede incrollabile ma cieca. In mancanza, mi dico, ben venga un’umile – e rispettosa – sospensione del giudizio (o della credulità, fate voi). Pure, è proprio in questo confuso frangente che il romanzo di Marías s’è ripreso il suo posto sul tavolo da lavoro per mettere in scacco l’ipocrisia dei più con la forza della ragione e il suo imperfetto contrario: la capacità di persuasione che solo la grande letteratura possiede.
Lo schema congetturale di questo nuovo romanzo è lo stesso su cui Marías ha costruito l’ossatura di quelli che, nei primi anni Novanta, ne hanno decretato il successo internazionale.
Uscito quattro anni dopo Berta Isla, di cui rappresenta, come si dice, il rovescio della medaglia, il sedicesimo romanzo dello scrittore spagnolo si apre infatti con un dilemma etico che, sfidando un luogo comune, suona in questi mesi tanto più attuale che universale: il dilemma etico è un doppio prologo che ci mostra la scena di un film di Fritz Lang – Duello mortale, del 1941 – in cui Thorndike, il protagonista (interpretato da Walter Pidgeon), ha la possibilità di uccidere Hitler poco prima che questi scateni la Seconda guerra mondiale; e la storia dello scrittore tedesco Friedrich Reck-Malleczewen (morto a Dachau nel febbraio del ’45), che nel 1932 ebbe davvero quella stessa opportunità. Marías si domanda se un crimine maggiore possa giustificarne uno minore e se quest’ultimo, laddove impedisca il primo, non smetta addirittura di essere tale.
In altre parole: cosa sarebbe successo qualora, in una miracolosa intersezione di rette parallele, sia il personaggio di finzione che quello reale avessero premuto il grilletto davanti all’uomo che ha incarnato il male del Novecento? Ma poi: è così facile uccidere qualcuno? Oppure, lo diverrebbe sapendo di cosa la potenziale vittima si renderà colpevole nel tempo? Se per analogia sostituissimo al nome di Hitler quello di un qualsiasi “cattivo” dei nostri giorni scopriremmo, insieme a Marías, che la risposta a queste domande è tutt’altro che scontata. E poco importa che in un’intervista rilasciata un paio di mesi fa a Paolo Lepri sulle pagine del Corriere della sera lo stesso scrittore spagnolo, interrogato sulla possibilità di considerare legittimo, alla luce di quello che sta succedendo al confine nordoccidentale d’Europa, l’assassinio di Vladimir Putin, si sia cavato d’impaccio con un salomonico quanto sibillinamente lapidario “Immagino che se succedesse molti non ne rimarrebbero rattristati”. Perché un conto è considerare tale atto legittimo, un altro compierlo.
Evidentemente uccidere non è un atto così estremo né così difficile e ingiusto se si sa chi deve essere ucciso, quali delitti ha commesso o annuncia di voler commettere, quanto male sarà risparmiato con la sua morte, quante vite innocenti si salveranno al prezzo di un solo sparo, di uno strangolamento o di tre coltellate, è questione di pochi secondi ed è fatta, è tutto finito e si va avanti – quasi sempre si va avanti, l’esistenza è lunga, certe volte, e mai nulla si ferma del tutto –, ci sono casi in cui l’umanità respira sollevata e applaude, sente che le è stato tolto un grosso peso dalle spalle, si sente grata e leggera e in salvo, libera e sorridente grazie a un assassinio, transitoriamente felice.
E tuttavia il primo passo costa: né Thorndike nella finzione né Reck nella realtà premettero il grilletto nel momento cruciale, benché entrambi già sapessero fin troppo bene che avrebbero eliminato un essere malvagio e insano, una pestilenza, un marciume, con “una faccia a luna di un color grigio cenere, gelatinosa, un corpo di costernazione e oppressione”, “l’essenza di una mostruosità”. Sì, se ne rendevano conto, ma non era ancora accaduto l’inimmaginabile. […] Ciò che non è ancora accaduto manca di peso e di forza, ciò che è previsto e imminente non basta, nessuno dà ascolto alla chiaroveggenza, mai, occorre che tutto sia confermato da fatti terribili, quando ormai è troppo tardi e non sono più rimediabili né si possono disfare.
Già, “tuttavia il primo passo costa”. E allora, come comportarsi? Il senso del quesito – un’efficace applicazione del principio filosofico del duplice effetto – e lo schema congetturale di questo nuovo romanzo sono gli stessi su cui Marías ha costruito l’ossatura di quelli che, nei primi anni Novanta, ne hanno decretato il successo internazionale (Un cuore così bianco, del 1992, e Domani nella battaglia pensa a me, 1994). Con un’aggiunta: la rievocazione di quel mondo di spie, intrighi e vite sospese che già caratterizzava la trilogia raccolta sotto il titolo de Il tuo volto domani (uscita tra il 2002 e il 2007) e che adesso serve alla trama per svelare il vero tema che celano gli interrogativi da cui siamo partiti: l’impunità dell’anonimato o, detto altrimenti, la pena impossibile per i “soliti ignoti”. Perché, a ben vedere, prima ancora che condonato in virtù di un fine più grande – la cui valutazione è e resta sempre ipotetica e discrezionale – l’omicidio sarebbe davvero possibile, legittimato oltre che legittimo, se come nel delitto perfetto l’omicida restasse, soprattutto davanti allo specchio della sua coscienza, senza volto e senza nome. Ovvero, senza identità.
Una condizione sostenibile solo a patto d’essere garantita dagli stessi princìpi che governano la giustizia. Ma anche una condizione pericolosa, perché il suo rovescio più drammatico è quello del fanatismo terroristico, il cui principale fondamento è, come scrive Roberto Calasso ne L’innominabile attuale, “l’idea che soltanto l’uccisione offre la garanzia del significato” e “a quel fondamento si aggregano poi le varie motivazioni che rivendicano l’atto”.
Le spie sono costrette, come i romanzieri, a rinunciare a ciò che sono e farsi passare per ciò che non sono, o per il contrario di quello che sono.
E è proprio qui che entra in gioco quella che potremmo chiamare “The Nevinson Situation”; perché oltre a essere il marito di Berta, infatti, Tomás è anche un agente segreto che, tornato a Madrid per godersi il più o meno meritato riposo dopo una vita spesa al servizio di un supposto bene comune e superiore, viene richiamato all’ordine per un’ultima, decisiva missione; incagliato negli ingranaggi di un ménage coniugale a cui, redivivo Chabert (la novella di Balzac sull’impasse identitaria è la prima suggestione letteraria a venire in mente oltre quella, cinematografica, di Martin Guerre), fatica a abituarsi, il protagonista di Marías non ci mette molto a lasciarsi convincere dal subdolo Bertram Tupra – già suo mentore e maestro – a imbarcarsi in una missione che lo porterà nell’immaginario paese di Ruán, al confine nordorientale della Spagna, sulle piste di una misteriosa donna per metà spagnola e per metà irlandese coinvolta, dieci anni prima (ossia nel 1987), in alcuni attentati dell’IRA e dell’ETA. Ma per compiere quello che gli hanno inculcato come dovere – ovvero, non governare ma fare giustizia – Nevinson deve mettere di nuovo in palio sé stesso, perché le spie, soprattutto quando agiscono da infiltrati, sono costrette, come i romanzieri, a “rinunciare a ciò che sono e farsi passare per ciò che non sono, o per il contrario di quello che sono” (così Marías al settimanale di El País nel 2017). Solo in questo modo l’impossibile può diventare possibile e l’illecito lecito.
Solo consegnandoci all’indistinzione il netto confine che separa il bene dal male diventa una linea sottile e appena visibile. Sotto le mentite spoglie del professore di letteratura inglese Miguel Centurión – nome tanto più improbabile quanto, per ciò stesso, verosimile – Tomás Nevinson si ritrova in questo modo a fare i conti con la storia del proprio paese – e non solo –, morso dal sottile desiderio di tornare a essere “inavvertito”, invisibile, poiché sa che “l’unico modo per non farsi domande sull’inutilità di ciò che si è fatto in passato è continuare a farlo” e “il solo modo di sopportare un’esistenza fatta di sofferenza è perpetuare la sofferenza, averne cura e alimentarla e lamentarsi, esattamente come le carriere delittuose possono continuare solo se si persevera nel delitto, quelle malvagie solo se si insiste nel fare male, prima agli uni poi agli altri, finché non rimane più nessuno che non ne sia toccato”. Pure, come Marías registra sul finale, proprio questa coazione a ripetersi rinunciando a quello che siamo è in qualche modo la sola, indispensabile – se non ineluttabile – condizione per persuadersi “che alcuni crimini siano meno crimini di altri, a seconda di chi li commette e contro chi, e del motivo per cui li commette”. Ebbene, ora, se noi non fossimo stati noi, cosa avremmo fatto davanti a Hitler? Protetti da un cono d’ombra che nasconde il nostro viso, cosa faremmo a Putin?