L uigi Meneghello è nato il 16 febbraio 1922, l’anno della marcia su Roma, ed è morto il 26 giugno 2007, durante la mia prima settimana di factotum in una libreria di Mestre. Il libraio mi diede la notizia a voce bassa, guardando per terra. Non ne avevo mai sentito parlare. Leggere non mi interessava poi tanto, scrivere mi sembrava semplicemente ridicolo.
Meneghello cresce come Ur-fascista, giocoso e brillante balilla iperuranico, vince i Littoriali del 1940 (vedi: Fiori italiani), ventenne, attraversa una crisi valoriale grazie all’incontro con Antonio Giuriolo – professore senza la tessera del PNF – e una volta sbandato come alpino a Tarquinia l’8 settembre, torna in qualche modo a Malo, vicino a Vicenza; da Malo poi sale in montagna, a liberare l’Italia dai tedeschi, da sé stessa (vedi: I piccoli maestri).
Dall’autunno del 1943 nel bellunese e sull’Altopiano, fino agli ultimi giorni di aprile, a Padova in Piazza dei Signori, Meneghello fugge alle retate, organizza la guerriglia e – suo malgrado – spara. Finita la guerra, si trova a fare parte della direzione regionale del Partito d’Azione, (ri)nato dalla visione di La Malfa, Calamandrei e altri. Le dinamiche di partito, gli scarsi risultati, le operazioni di chirurgia estetica subite dal Paese lo deludono (vedi: Bau-Sète!). A venticinque anni, “chili sui sessanta, denti trentuno abbastanza regolari”, Meneghello parte per l’Inghilterra: la seconda metà del secolo lo vedranno autore di un paio di capolavori del Novecento italiano e fondatore a Reading del Dipartimento di Italianistica più importante d’Inghilterra (vedi: Il dispatrio). Ora invece le cose si fanno serie.
Un modo disonesto di vivere
“Tutto quello che ho scritto è nato sempre con una componente polemica: […] un’opposizione tra genuino e spurio, autentico e contraffatto, che investe specialmente il modo di vivere e di pensare, ma anche naturalmente il modo di scrivere. […] Mi pareva che praticare quel tipo di prosa [la moda ermetica, la prosa accademica] non sia un modo disonesto di scrivere, ma un modo disonesto di vivere.”
È Meneghello stesso a ringraziare l’Inghilterra per averlo aiutato nella costruzione di un approccio morale – e non solo estetico – al gesto della scrittura. Se in inglese si ha qualcosa da dire, l’unica cosa da fare è dirla nel modo più semplice e diretto possibile. Se non hai niente da dire, tasi. “Lo scopo delle scritture oneste è di arrivare il più vicino possibile alla realtà delle cose” (non riesco a non leggere la frase con un forte accento, dal fondo roccioso della ragion pratica veneta). Naturale che il tema ricorrente nelle pagine dello scrittore diventi il rapporto tra esperienza e scrittura,
un rapporto veduto spesso, e non senza ragione, come una funzione della ‘memoria’: […] devo dirvi però che quando posso io cerco di non usare la parola ‘memoria’, per evitare certe associazioni collaterali in chiave di sentimento e di nostalgia, il côté emotivo della faccenda.
Mi torna in mente un reperto fraseologico dell’infanzia, no sta far cine, “non fare cinema” o non esagerare, non proiettare ipotetiche angosce sulle pareti di questo mondo reale, così semplice senza di te (memorabile la scena dell’autore ventenne in compagnia di Magagnato, un compagno di studi, che si chiedono scettici chi siano tutti questi angosciati che si trovano nei libri, no se capisse cossa ch’i gai…, e iniziano a contorcersi in mezzo al tram, facendo facce straziate…). Come la Resistenza, anche il dopoguerra, lo schooling, il destino di Malo, qualsiasi cosa ci si impunti di preservare attraverso il racconto diventa uno strafanto delicato, frangibilissimo e complicato.
Dal punto di vista estetico, quali le influenze? “Poeti credo, piuttosto che prosatori”. Letteratura angloamericana quanto, se non più, di quella italiana e francese. Rileggendolo poi, le epifanie… si trovano interi paragrafi ritmati da grappoli di endecasillabi, prosa alatissima e bestemmie, il dono dei dialoghi e una ferocia ironica, quasi sadica, nel ricorso al linguaggio accademico.
Meneghello ha vissuto emarginato dal panorama culturale italiano, dai suoi duelli vanitosi, dalla sua albagìa, come unico rifugio da questa pochezza “un vero e proprio stato di isolamento, parte ignoranza, parte rifiuto, parte (mi pare giusto dirlo) disprezzo”. I suoi libri sono nati in un vuoto pneumatico da cui sono state risucchiate le mode le tendenze i manifesti i movimenti, la letteratura italiana coeva e i suoi anfratti. A casa si è sentito forse solo a Reading e, di sicuro, a Malo.
Bisogna – èssare – bòni
Capita che Meneghello accosti la stesura dei suoi libri a una pratica esorcistica. Nei Piccoli maestri l’oggetto dell’operazione sono i rimorsi di “non aver saputo fare una guerra semplice e felice”; nei Fiori italiani invece da esorcizzare c’era “una carriera scolastica esteriormente facile e felice, ma sfociata in una crisi personale abbastanza grave”. Qualcosa di analogo vale anche per Bau-Séte!, nato anche dal rimpianto di non avere contribuito alla creazione di una classe dirigente degna di questo nome.
Il più grande esercizio di esorcismo, però, resta Libera nos a Malo. Da esorcizzare c’erano il patetismo nostalgico, ma anche quel cancaro del tempo che svola, la prurigine e la povertà di un Paese arretrato, ma anche un’Italia sempre più stretta dal nodo scorsoio del progresso, sospesa tra l’essere ingoiata e l’ingoio. Libera nos a Malo è un esordio del 1963 ed è un capolavoro.
Uno stimolo cruciale, quando scrivo specchiandomi, è di riconoscere che non ho combinato molto di buono a questo mondo, anzi: pretese smodate, sostanza poca, pugni dati a sproposito, meschini strokes di tennis, e poi avarizia nei sentimenti, goffaggini e impacci nei rapporti sociali, sbandate teoriche e pratiche in vari campi privati o pubblici, e la ciliegina di qualche modesto attacco isterico.
Meneghello non ha iniziato a scrivere presto. Alla soglia dei quarant’anni si confida con Katia, la moglie, ebrea jugoslava sopravvissuta ai campi di sterminio e accanto a lui fino alla morte, lamentando di non avere mai concluso niente nella vita, tranne quei “fogliettini scritti d’estate” a Malo, dopo le serate trascorse cazzeggiando con i vecchi amici; Katia ignora il bluff e gli consiglia di riprendere gli appunti, e insomma, perché non metterli insieme e farne qualcosa? Passa qualche anno e in Italia si stampa uno degli incipit più importanti dal dopoguerra:
S’incomincia con un temporale. Siamo arrivati ieri sera, e ci hanno messi a dormire come sempre nella camera grande, che è poi quella dove sono nato. Coi tuoni e i primi scrosci della pioggia, mi sono sentito di nuovo a casa. Erano rotolii, onde che finivano in uno sbuffo: rumori noti, cose del paese. Tutto quello che abbiamo qui è movimentato, vivido, forse perché le distanze sono piccole e fisse come in un teatro. Gli scrosci erano sui cortili qua attorno, i tuoni quassù sopra i tetti; riconoscevo a orecchio, un po’ più in su, la posizione del solito Dio che faceva i temporali quando noi eravamo bambini, un personaggio del paese anche lui.
Sarà che il Veneto è una regione di Fedeli – e di conseguenza, di grandi bestemmiatori – sarà l’infanzia ruotata intorno alla catechesi, ma i racconti delle omelie, anche in rilettura, svettano: “[Il don] taceva a lungo presso la balaustra […], poi proferiva in tre brusche emissioni il suo messaggio: Bisogna – èssare – bòni. Questa era la predica.” Oppure un Don Antonio, che annuncia il tema della predica con un severo “La Madonna”, china la testa per mezzo minuto, per poi aggiungere: “La Vergine Santissima”. La china di nuovo, per “minuti interi, il silenzio calamitato pareva ormai senza misura”, e conclude: “Sia lodato Gesù Cristo”. A me questa predica pare commovente, scrive Meneghello, e con umiltà mi accodo.
Bisogna, non si deve: “la parola dovere in senso morale è sconosciuta al dialetto; c’è invece l’espressione bisogna, nel senso in cui si dice che morire bisogna. […] Bisogna lavorare non otto ore, o sette ore, o dieci ore, ma praticamente sempre.” L’autore quindi precisa come questo tipo di lavoro sia quello che Arendt definisce labour, il lavoro necessario alla sopravvivenza, l’imperativo fisiologico, l’uscita dall’Eden. Ecco che “è un gran lavoratore” diventa la lode zenitale dalla provincia vicentina a quella veneziana, fino e compresi i confini bellunesi e rodigini.
A unire la ricerca del reale e la sensazione di inanità, di inconcludenza, c’è un filo che rintraccerei nelle origini dell’autore. In Libera nos l’autore indaga, ipnotico, intorno alla fonte del senso di Comunità del paese, il perché “ci sentivamo parte di un mondo: la Arendt sostiene con ammirevole lucidezza che il ‘mondo’ solido e reale, in quanto distinto dalla caduca e illusoria ‘natura’, si produce quando l’artigiano interpone tra noi e la natura le cose che fa: res da cui reale.” Il reale è lo spazio in cui le cose si fanno, e le cose sono vere (come la lingua che le designa, il dialetto vicentino), l’educazione non lo è (come la lingua che la veicola, l’italiano).
Nulla mai resse di ciò che costrussi con più bislacco impegno nella vita: una forza impietosa ruba il sacco degli ovicini alla ragna intorpidita […]: scorrevoli sfericiattole si spargono sul foglietto dei fratini di Sant’Antonio – Non ho concluso niente a questo mondo, porco-demonio.
Quella di Meneghello non è una prova di modestia, è una ferita. Quando scrive di non avere mai lavorato, per “lavorato” sottintende travagliato, tribolato, rispettato le istruzioni del genoma di Homo Faber padano.
È cambiato qualcosa, da quei tempi? Tutto, e niente (“i tempi mi oscillano sotto la penna, era, è, un po’ di più, molto meno”). La necessità di èssare bòni mi sembra la stessa di oggi; più facile soddisfarla quando la gente, come in queste pagine, sta insieme. In Libera nos qualunque traiettoria biografica viene inclusa in una dimensione sociale onnipervasiva. Le vecchie stanno con i bambini, i bambini con gli animali, le vecchie con i preti, i preti con i contadini, i contadini con i partigiani, i partigiani con i professori… la gente si sporca si incasina e mente, si diverte e gode, qualsiasi cosa gli capiti gli capita sbattendo il muso contro un altro essere umano.
Non è sexy sottolineare questa presunta verità patetica – ovvero, vivere significa essere contro/insieme a qualcuno, e non nonostante qualcuno – ma può servire in tempi in cui gli spazi, più o meno urbani, si sono svuotati della loro dimensione sociale, scaricata sul consumo culturale, etilico: in breve, sul consumo.
Liberaci dal male
Come si fa a essere buoni? Non è semplice sondare l’ethos dei piccoli maestri, il cicìn della faccenda, la ciccia… Volevano un’Italia “moderna”, laica, giusta; volevano anche andare in camporella come una volta, tornare a bagolare, smetterla di sotterrare gli amici… Perché una cosa deve escludere l’altra? E cosa significa, alla fine, ethos?
Volevo… informarmi un po’ sul loro ethos, ma naturalmente c’è lo svantaggio che in dialetto un termine così è sconosciuto. Non si può domandare: «Ciò, che ethos gavìo vialtri?». […] Tu puoi voltarlo e girarlo, quel concetto lì, volendolo dire in dialetto, non troverai mai un modo di dirlo che non significhi qualcosa di tutto diverso; anzi mi viene in mente che la deficienza non sta nel dialetto ma proprio nell’ethos, che è una gran bella parola per fare dei discorsi profondi, ma cosa voglia dire di preciso non si sa, e forse la sua funzione è proprio questa, di non dir niente, ma in modo profondo. Ce ne sono tante altre di questo tipo; la più frequente, all’università, presso studenti e professori, era istanze. Adesso che ci penso anche istanze in fondo vuol dire ethos, cioè niente.
L’autore, ventenne, era già consapevole dell’arretratezza sistemica del Paese, zavorrato – tra le altre cose – dal suo fondo agricolo. Il progresso passa per l’industrializzazione dell’agricoltura; la vita in campagna, invece, chini sui campi, la consiglierebbe a chi “vuol leggere e studiare seriamente, e in libertà. […] E intendo lavoro duro, faticare sul serio, seminare, zappare, mietere. Arare, caro mio! Non ti pare un modo sensato per garantire l’indipendenza della classe intellettuale?” Quantomeno, nei campi, il raccolto non dipende dalla pubblicità. Come detto, l’autore non si metterà mai in pace con l’idea di lavoro culturale, nonostante ne rappresenti un esempio. Virtuoso, indipendente, coerente, ma sempre un esempio.
Nei Ritratti, l’intervista/documentario di Mazzacurati e Paolini, si discute anche dell’incivilimento di un Paese che aveva bisogno di essere civilizzato; Paolini incalza Meneghello, chiede allo scrittore della crisi d’identità che ha colpito l’Italia nella seconda metà del secolo non abbia colpito soprattutto il Veneto… certo la regione ha corso, gaveva pressa, andava di fretta e l’incivilimento – Meneghello sottolinea: necessario; Meneghello ricorda: era giusto dare alla gente case comode, lavori meno usuranti – poteva solo accelerare, inciampare e continuare la sua corsa. La barchessa diventa capannone, il capannone si riempie e oggi si svuota, nei garage si nascondono BMW e si appendono cappi, eccetera. Così Meneghello, attraverso una testimonianza di Lino Pertile, amico e collega, rievoca sulle pagine del Sole l’avvento del capitale nella campagna di Pianiga, vicino a Padova:
Un coetaneo che ha fatto fortuna lo porta a visitare [il visitatore è Pertile] il villino a due piani dove abita. La visita finisce teatralmente nel garage, dove c’è una spettacolosa novità, un’automobile praticamente di lusso. Qui avviene uno scambio che chiude il saggio. “‘Ma questa è tua’ domanda il visitatore, incredulo. ‘E de chi vuto che la sia, diocan?…’ e ci siamo messi a ridere, a ridere, a ridere”. Mi pare colta qui nell’essenza la Stimmung attuale del nord-est. Nei più consapevoli, queste risate innaturali, inquiete. Semplici, antiche bestemmie che sono in realtà scongiuri, preghiere laiche…
Che poi, come raccontarlo, senza bestemmia? Per Meneghello la chiarezza non è un elemento negoziabile nell’esposizione. Barbieri, nella sua orazione funebre, lo ricorda parlando di onestà in cui si fondono onore e fatica, e cita Il dispatrio, “se le cose non si fanno bene è meglio non farle”: la pulsione espressiva di Meneghello non è mai stata rigurgito di vanità ma il riflesso di una “serena, operosa, instancabile responsabilità”. Bisògna rimanere onesti, bisògna scrivere bene, bisògna essare bóni. Non hai scelta.
Tutte le pagine dello scrittore vicentino mettono in chiaro una cosa: chi scrive non è speciale. Leggere va bene, è importante: ma non basta. C’è invece qualcosa-che-basta? Ci si trova la sera con gli amici, sotto il neon rosa del bar, e non sappiamo cosa dirci. Non abbiamo concluso niente, e sono gli anni Trenta, gli anni Sessanta, il 2017. Va tutto bene. “Parliamo perché abbiamo la bocca”; scriviamo perché abbiamo le mani.