I n Italia abbiamo scoperto Lucia Berlin solo da qualche anno con le due raccolte La donna che scriveva racconti e Sera in Paradiso. In realtà, anche negli Stati Uniti è stato riconosciuto da poco il valore di questa scrittrice nata nel 1936 in Alaska e morta nel 2004 in California: potremmo tracciare una linea ideale che percorre il Paese da nord a sud e immaginare di farla proseguire attraversando il Messico e arrivando fino in Cile, dove Berlin abitò da adolescente in una delle tante case che cambiò nel corso della sua vita.
Nel memoir Welcome Home, che arriva solo fino al ‘65 perché Berlin morì prima di finirlo, la scrittrice parla della sua vita attraverso le case in cui ha abitato. Nell’introduzione, il figlio cita un’intervista della madre, avvenuta appena un anno prima della morte: “Ho abitato in molti posti, è ridicolo, e proprio perché mi sono spostata tante volte, per me il posto è importante”. E poi aggiunge: “Sto sempre cercando… cercando una casa”.
Consideriamo che nel momento dell’intervista, il 2003, Lucia Berlin ha 67 anni e una vita fatta di molte vite, in cui, come dice lei stessa, ha cambiato più di 33 case. Scriverà anche una lista ironica dei problemi avuti in ogni casa: niente riscaldamento in Montana quand’era bambina, scarafaggi in Texas, temperature glaciali in un appartamento di New York stavolta con i figli piccoli, tempesta di sabbia ad Albuquerque, e poi terremoti in Cile, finestre rotte e polizia tutta la notte a Oakland, spacciatori e scorpioni in Messico.
Questa è solo una piccola parte di un elenco tragicomico, da cui possiamo indovinare anche il tono dei racconti, la descrizione di luoghi pieni di vita – che sia il mare verde-blu del Messico, un villaggio minerario con baracche di cartone o la sala d’aspetto di un ospedale nella parte più povera di Oakland. C’è una gioia negli oggetti, nei dettagli, nelle situazioni, nei caratteri che prescinde dagli avvenimenti: è la gioia del movimento, quella che comunemente potremmo definire la vita umana. Lucia Berlin diceva: “Mi piace sentire che la vita va e questo è tutto ciò che accade: che la vita va.”
Quando Berlin dice di cercare un posto in cui sentirsi a casa, non intende la stanza tutta per sé auspicata da Virginia Woolf per ogni donna che vuole scrivere. Lucia si arrangia come può, perché arrivata a 31 anni con tre divorzi e quattro figli, quella stanza riesce a trovarla soltanto la sera dopo cena: è la sua cucina. Ed è ancora il figlio Jeff a ricordare la madre al tavolo dove di solito mangiavano, con una bottiglia di bourbon accanto, mentre loro già dormivano e spesso venivano svegliati dal suono della macchina da scrivere. Se Lucia ha dunque concentrato quella stanza tutta per sé in un tavolo usato di giorno per le attività domestiche, resta da capire dov’è la casa che è andata cercando tutta la vita.
Berlin nella sua opera ricombina i dati della propria esistenza, lasciando che sia il lettore a riconoscere lo stesso personaggio in racconti diversi.
La prima casa di Berlin è in Alaska, a Juneau, un posto in cui vivrà pochissimi mesi: è la figlia primogenita di un ingegnere minerario che si sposta continuamente per lavoro, portando con sé la famiglia composta al tempo dalla moglie e dalla figlia Lucia, cui seguirà poi una sorella, Molly, che nei racconti di Berlin diventa spesso Sally. Berlin fin da piccolissima vive in comunità minerarie, Idaho, Kentucky, Montana, posti molto freddi, in cui la casa si riduce talvolta a una sola stanza per tutti. Ma proprio in una di queste casette, una capanna di legno dove abita un amico del padre, il vecchio Johnson, Lucia Berlin farà il suo primo involontario esperimento di scrittura. Prende delle vecchie riviste disseminate lì dentro, strappa i fogli e le attacca alle pareti senza seguire nessun ordine. L’idea – scrive anni dopo nel memoir – era comporre un patchwork con quelle pagine, dal pavimento fino al soffitto, di modo che Johnson nelle buie giornate invernali avrebbe potuto occupare il tempo leggendo le pagine spaiate alle pareti e inventando storie che le collegassero.
Questa azione di collage, definita da Berlin anni dopo “la sua prima lezione di letteratura”, prevede infinite possibilità combinatorie dello stesso materiale. La casualità delle pagine, e il tentativo di ricostruire un senso, avrebbero portato il vecchio a riflettere in modo diverso su quelle storie, a una loro ri-significazione.
Similmente, Berlin nei racconti ricombina i dati della propria esistenza e lascia che sia il lettore a riconoscere lo stesso personaggio in racconti diversi, per cui cambia il nome, l’età, il periodo della vita. Troviamo una bambina con il busto per la scoliosi che ha appena cambiato scuola per l’ennesima volta e cerca di farsi accettare dalle compagne di El Paso; nel racconto successivo questa bambina è già una donna di cinquant’anni di Berkeley che deve nascondere la propria istruzione per trovare lavoro come donna delle pulizie; in quello dopo ancora è un’adolescente di una ricca famiglia americana che aiuta il padre a intrattenere gli ospiti cileni, mentre la madre è sola in camera con una bottiglia di brandy; e poi, è una giovane madre squattrinata in New Mexico, che porta i pannolini sporchi in una lavanderia a gettoni dove fa amicizia con un indiano alcolizzato, lo aiuta a mettere i panni in lavatrice quando il delirium tremens alle mani glielo impedisce. Infine, è un’ex moglie a New York che scherza con l’altra ex moglie di un ex marito in comune, Max, musicista eroinomane che sta per risposarsi, o forse no, chi lo sa, magari la terza donna è una di passaggio – e si potrebbe continuare ancora a lungo.
Questi racconti partono da una pagina sempre diversa della vita di Berlin, situata in un passato più o meno lontano. Non cambia solo il tempo in queste storie, ma la prospettiva. La lente di Berlin non ha mai lo stesso fuoco: a volte la protagonista del racconto è ispirata a sé stessa, altre volte a un’amica. Oppure alla zia Tinny, che nel racconto Noel, Texas 1956 sale sul tetto con una bottiglia di whisky e non vuole più scendere, il marito ha dato una grande festa di Natale, ma lei non vuole saperne di rivedere i parenti, e guarda dall’alto con disgusto gli invitati, urlando: “Sgualdrine” alla figlia Bella Lynn e a Lou, sua cugina: entrambe si sono fatte lasciare dai mariti, quelle stupide, e al più presto scapperanno con qualche altro “disadattato analfabeta”.
La sua scrittura sparge mercurio, non immobilizza nulla in un solo verso, non rinuncia a descrivere scene in contraddizione tra loro.
Lou, cioè Lucia Berlin, si era sposata per la prima volta a diciassette anni, e per questo venne disconosciuta dai genitori (soprattutto dalla madre, che – come ci racconta altrove la scrittrice – durante quel Natale aveva provato a suicidarsi senza riuscirci, tagliandosi le vene e lasciando un biglietto d’addio firmato Maria la Sanguinaria). Il primo marito di Lucia Berlin, un giovane scultore già in carriera, l’aveva lasciata appena saputo che aspettavano il secondo figlio.
Lou nel racconto successivo è diventata Maya di Albuquerque, e poi ancora Lisa che abita a New York, e poi c’è Cassandra, e Carlotta, Maggie, Claire, Lucia, Jane, e poi il racconto in prima persona di una bambina, di cui non si dice mai il nome, che è andata da poco ad abitare in casa dei nonni a El Paso con la madre alcolizzata e la sorella Sally, perché il padre è partito per la guerra. La bambina si trova all’improvviso in un contesto completamente diverso dalle miniere conosciute durante l’infanzia, un paesaggio boschivo dove lavoravano uomini di varie nazionalità: è il Texas bruciato dal sole, quello dei bianchi del Sud che guardano con disappunto la sua amicizia con una bambina siriana, dei valori del Ku Klux Klan del nonno dentista che ormai lavora poco per via dell’alcool, ma che conserva nel suo studio l’insegna scritta tanti anni prima: Io non lavoro per i negri.
La madre di Berlin non avrebbe mai voluto tornare nelle terre natali, da dove era fuggita sposandosi, per non abitare più con un padre alcolizzato che durante una lite aveva quasi cavato un occhio al figlio (lo zio John adorato da Lucia); un padre che probabilmente, suggerisce la voce narrante, l’aveva abusata da piccola, considerato il comportamento con le nipoti Lucia e Sally, quando le prende in braccio e si dondola su una sedia.
Nessuno parla con nessuno nella casa dei nonni. Tutti mangiano nella loro camera. Sembra una casa degli orrori. Poi un giorno il nonno dà fiducia a questa bambina, la nipote primogenita, la porta nel suo studio dentistico e le chiede aiuto per strapparsi tutti i denti: ormai è arrivato il momento di mettersi la dentiera, una dentiera che lui stesso ha preparato. Sa già che a un certo punto potrebbe svenire dal dolore – e in effetti succede, il nonno sviene, si fa la pipì addosso, c’è sangue dappertutto e la piccola gli porge delle bustine di tè da tenere fra le gengive, come gli aveva visto fare con i pazienti, e in un certo senso si diverte, si sente finalmente utile.
Nonostante l’orrore della vecchiaia, della pelle cadente, dell’alcol che ha consumato il corpo, si ride e ci si affeziona a questo nonno che si fida ciecamente della nipote, che però a un certo punto – è pur sempre una bambina – non ne può più. Telefona alla madre, che appena li raggiunge nello studio dentistico, scivola sul sangue del padre e resta orripilata dalla scena (una scena che può piacere a vecchi e bambini, al nonno e alla nipote, non a una persona adulta). Il nonno per calmare la figlia, cioè la madre di Berlin, le versa del whiskey. Ritroviamo i tre che aspettano il taxi, il nonno e la madre bevono Jack Daniel’s per strada. Un quadretto idilliaco, tanto che la madre si spinge a dire: “Ha fatto un buon lavoro” riferendosi alla dentiera, e la bambina le chiede
“Non lo odi più, vero mamma?”
“Oh sì – disse lei – certo che lo odio”.
Più Berlin mostra situazioni terribili, più restiamo affascinati dal movimento inesausto che vediamo scorrere, prorompere, nelle pagine.
Morire è come spargere mercurio. In un attimo torna tutto di nuovo insieme nel tremulo ammasso della vita.
La sua scrittura sparge mercurio, non immobilizza nulla in un solo verso, non rinuncia a descrivere scene in contraddizione tra di loro: Berlin manca totalmente di ideologia nella scrittura. Non nasconde nulla, non mente. Lo dice una delle tante alter-ego in un racconto: “ho esagerato, ho mescolato realtà e finzione, ma non ho mai mentito”. Il suo sguardo va dappertutto, è consapevole della posizione che occupa anche se si definisce un’osservatrice invisibile. Berlin è una donna bianca – wasp, come dice lei stessa – ha vissuto in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, frequentando e dando voce a ogni classe sociale, facendo mille mestieri, dalla professoressa all’infermiera, dalla studentessa di dottorato alla donna delle pulizie.
Prendiamo per esempio due racconti “Carmen” e “La barca de la Ilusion”: in entrambi c’è una donna incinta con un marito eroinomane. Nel primo, la donna all’ottavo mese deve andare da El Paso a Juarez, attraversando il confine tra Texas e Messico, per procurare eroina al marito: quando torna, la bambina nasce prematura e non sopravvive; nel secondo, invece, c’è un’altra donna incinta – sempre americana – che ha portato il marito in una piccola città costiera messicana per tenerlo lontano dalla droga. A un certo punto proverà a pugnalare uno spacciatore appena uscito di prigione che cerca il marito.
Sono due situazioni al limite, ri-raccontate proprio dall’ex moglie di New York in un altro racconto, “Le mogli”, in cui le due donne, un po’ piagnucolando un po’ bevendo, confortano le loro vite. “Ho dato a Max (Buddy Berlin) gli anni migliori della mia vita”. L’altra, ridendo, le risponde: “Ho dato a Max gli anni peggiori della mia vita”. Nessuna sa cosa sia meglio, e in entrambe c’è un affetto, un calore, che è il calore riservato da Berlin a tutti i suoi personaggi, come se alla fine ognuno avesse semplicemente fatto quello che poteva, della sua vita.
Per rendere questo movimento in scrittura, Berlin ricorre a una polifonia di punti di vista: nei suoi racconti ci sono temi standard continuamente variati, come una partitura jazz in cui ogni strumento ha l’occasione di esibirsi. Ci sono delle specie di centri tonali (la donna divorziata con figli, la giovane sposata con l’artista immaturo, la bambina dimenticata a casa da adulti alcolizzati, l’alcolizzata che fa amicizia nei centri di recupero, l’infermiera che si prende cura/innamora dei pazienti) attorno ai quali, come una musicista, Berlin costruisce variazioni o parafrasi dello stesso tema, ampliando o riducendo la storia a seconda delle esigenze della singola unità di misura del racconto.
All’inizio degli anni ‘90, Lucia si trasferì a Città del Messico per assistere la sorella minore Molly, malata di cancro, con cui aveva riscoperto un rapporto solo cinque anni prima, all’inizio di una malattia che sembrava risolta. Esistono molti racconti, le famose variazioni, su questo stesso tema: due sorelle che si ricongiungono dopo una vita trascorsa in paesi diversi e ricominciano a parlare – della loro infanzia orribile, della madre pazza o alcolizzata, del nonno, della gelosia di Lucia verso quella sorella minore che era più protetta dalla nonna. Soprattutto, c’è sempre un momento in cui la sorella maggiore cerca di consolare la minore a proposito della madre.
Nei suoi racconti ci sono temi standard continuamente variati, come una partitura jazz in cui ogni strumento ha l’occasione di esibirsi.
In un racconto chiamato Mamma, siamo al capezzale di Sally. Vediamo le due sorelle scherzare su questa madre orribile, “mamma odiava la parola ‘amore’, la pronunciava come di solito si dice troia” dice Lucia, “e odiava anche i bambini.” Di colpo il momento scherzoso si trasforma in qualcos’altro. Sally dice: non so se mi ha rinnegato perché mio marito era messicano o perché era cattolico. Ma l’altra sorella vuole farla ridere ancora, e le dice: “sì, mamma diceva che la chiesa cattolica aveva messo in giro la voce che l’amore rende felici per far fare figli alla gente”. Ma l’amore rende infelici, fa bagnare il cuscino di lacrime, fa fumare due sigarette alla volta, e via così.
Ormai l’atmosfera è cambiata, Sally racconta che la madre non aveva voluto vederla neppure quando le aveva detto: “Ho bisogno di te, mamma”. Sally si mette a piangere, allora la sorella più grande – Berlin – comincia a raccontarle ogni sera delle storie come fossero favole sulla madre, storie divertenti o storie precedenti all’alcolismo. Un’immagine che si impone sulle altre: una giovane donna si affaccia dal parapetto della nave per Juneau, Alaska (dove poi sarebbe nata Lucia). Lucia s’inventa il personaggio della madre giovane. La madre si è lasciata alle spalle il Texas, la Grande Depressione, il nonno, la povertà e sogna il nuovo paese. Iceberg e gabbiani. Quasi barcolla per il freddo, ha diciannove anni. Sa che il futuro marito la sta aspettando nel paese dove ha deciso di ricominciare un’altra vita.
All’inizio tutto funziona, ma a un certo punto la donna lasciata spesso sola con la figlia comincia a bere, il marito la trova ubriaca con la bambina, e da quel momento non le permetterà più di toccarla, se ne occuperà lui con l’aiuto di una donna eschimese. Lucia costruisce per la sorella un nuovo romanzo familiare. Le racconta del trasferimento in Texas, poi in Arizona, la madre smette di bere ma ha paura delle figlie, pensa siano state loro ad abbandonarla, a odiarla. “Così si proteggeva – dice Lucia – prendendoci in giro e ferendoci perché non potessimo noi ferirla per prime”. È un racconto nel racconto.
Quando si trasferiscono in Cile, la situazione peggiora, la madre ha paura di sbagliare, ricomincia a bere, il marito diventa il suo carceriere. “La teneva chiusa in camera, le razionava l’alcol ma non l’ha fatta mai curare, mentre noi proprio in quel momento cominciavamo a essere giovani, capisci Sally quanto doveva essere difficile per lei?” Sally allora comincia a calmarsi, annuisce, la storia la convince, dice: “Raccontami ancora di lei con le lacrime agli occhi sulla nave.” Lucia continua: “Mamma quel giorno in nave credeva che papà sarebbe sempre rimasto con lei, capisci? Lei pensava di tornare a casa”. E la sorella a quel punto comincia a dire: “Poverina, poverina, se solo le avessi detto quanto le volevo bene.” E così finalmente si addormenta.
A quel punto, solo a quel punto, dopo aver consolato la sorella che ora può morire in pace, la voce narrante alza lo sguardo verso di noi: “Quanto a me… io non ho pietà”.
Lucia Berlin sembra dirci: forse mia sorella ha potuto credere a questa storia, forse voi avete creduto a questa storia, forse anch’io a tratti ho creduto a questa storia; ma è una storia, appunto. Questo è il potere manipolatorio e incantatorio della scrittura, che sola può contenere tempi e luoghi in cui abbiamo vissuto, e può illuderci in certi momenti di essere tornati a casa.