N el libro Le fantasticherie del passeggiatore solitario, Jean-Jacques Rousseau rifletteva sull’esigenza di staccarsi dalla frenetica e inviperita vita quotidiana parigina per vivere in una simbiosi certamente più docile e appagante con la natura. Riflettendo con se stesso, Rousseau cerca compensazione e sollievo da questo rapporto, slanciandosi nell’incoraggiamento della libera realtà del sogno, della contemplazione e della divagazione libera. Proprio concentrandosi su questi aspetti, scriveva: “il sentimento dell’esistere, spogliato di ogni altro affetto, è in se stesso un sentimento prezioso di contentezza e di pace, che basterebbe, da solo, a rendere l’esistenza amabile e dolce a chi sapesse allontanare da sé tutte le impressioni mondane e sensuali che senza posa, quaggiù, vengono a distrarci e guastarne la dolcezza. Ma la maggior parte degli uomini, agitati da continue passioni, conoscono poco questa condizione, e non avendola provata se non in modo imperfetto e per pochi istanti, ne conservano un’idea vaga e oscura, che non ne fa sentire la grazia”.
Circa un secolo dopo un altro autore scrisse pagine memorabili sulla fatica e soddisfazione di un rapporto davvero intimo con la natura, alla ricerca di una conciliazione che dipendesse dalle scelte arbitrarie, ma libere, dell’uomo. Il Walden ovvero Vita nei boschi di Henry David Thoreau rappresenta ancora oggi un documento unico e imprescindibile per assaporare l’ambizione di un uomo e la convinzione di un legame indissolubile da costruire con la natura. Tra le scoccate contro ciò che ne turba l’ordine come la caccia o l’inconsapevolezza del bene da lei custodito, la natura ritratta da Thoreau assume le vesti di una grande madre che si proietta nella coscienza di ognuno, unica via per l’autore per tentare di raggiungere una propria pace:
Io credo che sarebbe un passatempo assai più nobile se andassimo a caccia di noi stessi. Volgi il tuo occhio all’interno, e scoprirai migliaia di regioni, nel tuo cuore, vergini ancora. Viaggiale tutte, e fatti esperto in cosmografia interiore. […] Siate dei Colombo per interi, nuovi continenti e nuovi mondi dentro di voi, aprendo nuovi canali, non di commercio ma di pensiero. […] Se volete imparare a parlare tutte le lingue e abituarvi ai costumi di tutte le nazioni; se volete viaggiare più lontano di tutti gli altri viaggiatori, essere acclimatati a tutti i climi e fare sì che la Sfinge si batta la testa contro una pietra, obbedite al precetto del vecchio filosofo: Esplorate voi stessi. A metterlo in pratica occorrono vista buona e nervi saldi. Sono solo gli sconfitti e i disertori che vanno alla guerra, vigliacchi che fuggono e si arruolano.
Per Rousseau e Theoreau dunque la natura riveste la funzione di farsi tramite dell’indagine di se stessi, via di esplorazione privilegiata per una conoscenza che possa definirsi davvero tale.
Queste però sono parole che, al di là dell’importanza loro e dei rispettivi autori, hanno per noi oggi forse ancora poco da dire, perché sono immagini di tentativi estremi che non si addicono alla nostra contemporaneità. Eppure il rapporto tra uomo e natura, costitutivo della nostra stessa essenza, vive in questi anni di un rinnovato interesse. Il grande punto di rottura, forse poco preventivato, ma a cui oggi è impossibile non riferirsi, è stata la pubblicazione dell’enciclica di Papa Francesco Laudato Si’, le cui parole hanno attraversato la società in maniera trasversale, investendo con il loro peso le più diverse persone, dai preti più illuminati (cioè i pochi che ne hanno colto davvero il peso epocale) al mondo dell’associazionismo laico e comunque sempre legato alla Chiesa, dal mondo dei critici a quello dei giornalisti, tutti uniti nel tentativo arduo di estrarre il significato più intimo delle pagine papali.
E tutto questo già presenta una sua evidente peculiarità: nel corso del suo pontificato il Papa ha scritto un’altra enciclica, Lumen Fidei (2013), che non ha certo una portata minore, ma che non ha ricevuto l’accoglienza di quella del 2015. Lì l’attenzione è impostata sul più grande mistero cristiano, quello della fede e in particolare nel quarto capitolo, intitolato “Dio prepara per loro una città”, si concentra con sguardo rinnovato sul rispetto per il creato, luogo in cui i fedeli sono chiamati a trovare “modelli di sviluppo che non si basino solo sull’utilità e sul profitto”, sul tema dei rapporti sociali, con un forte richiamo alla fraternità, e sulla ricerca di forme giuste di governo che guardino al bene comune e non a quello di pochi.
Pure l’Evangelii Gaudium, esortazione apostolica del 2014, dove si parla di “una Chiesa in uscita” che riesca a farsi carico con la sua comunità di operare nella società globale, non ha avuto la risonanza dell’enciclica Laudato Si’. Le ragioni di un simile interessamento stanno senza dubbio nella potenza del testo, scevro da dettami religiosi complessi e poco concreti, ma anche nel tema della “casa comune”, la natura, il pianeta. La fortuna editoriale del tema spinge ad una riflessione, soprattutto in questi ultimi anni che hanno visto, dopo la pubblicazione nel 2016 del prezioso volume di Anna Maria Ortese Le piccole persone (Adelphi), che si inserisce in pieno in questa linea, l’uscita di due importanti ristampe, Natura di Ralph Waldo Emerson (Donzelli) e La persona è sacra? (Castelvecchi) di Simone Weil. In quattro testi così diversi soprattutto per i presupposti da cui muovono, è possibile in ogni caso identificare un pensiero comune, impossibile da trascurare per vivere la contemporaneità.
Tentare qui un’analisi complessa dell’enciclica è compito non necessario per il nostro discorso, ma è di indubbia rilevanza evidenziarne i passaggi essenziali. Ce ne sono almeno quattro, equamente distribuiti all’interno dello scritto. Il primo, che riveste un ruolo fondamentale anche per i riferimenti al patriarca ecumenico Bartolomeo, è quello che sottolinea la preoccupazione comune tra le diverse fedi riguardo l’ambiente. Citando proprio Bartolomeo, Papa Francesco scrive: “Il Patriarca Bartolomeo si è riferito particolarmente alla necessità che ognuno si penta del proprio modo di maltrattare il pianeta, perché ‘nella misura in cui tutti noi causiamo piccoli danni ecologici’, siamo chiamati a riconoscere ‘il nostro apporto, piccolo o grande, allo stravolgimento e alla distruzione dell’ambiente’”. L’attenzione si concentra subito sulla radice del problema, e questa è una caratteristica del testo, che mai si perde troppo nella teoria ma anzi affonda continuamente nella pratica quotidiana. Qui Francesco parla, attraverso Bartolomeo, di peccati contro la creazione, commessi dagli uomini che “distrugg[o]no la diversità biologica nella creazione di Dio; che compromettono l’integrità della terra e contribuisc[o]no al cambiamento climatico, spogliando la terra delle sue foreste naturali o distruggendo le sue zone umide”; gli esseri umani, conclude Francesco, “inquinano le acque, il suolo, l’aria: tutti questi sono peccati. Perché ‘un crimine contro la natura è un crimine contro noi stessi e un peccato contro Dio’”. Risiede qui, nel peccato contro la natura come peccato contro Dio, l’essenza più intima dell’enciclica, nonché la sua carica rivoluzionaria.
Quasi 200 anni prima, il filosofo Ralph Waldo Emerson, ministro della Chiesa unitaria, con il suo saggio Natura si scagliava contro la barbarie dell’uomo che non dava alla natura quell’importanza capitale per lui ovvia. Sempre assecondando una visione cristiana del mondo, Emerson si batte per una comunione indispensabile tra uomo e natura:
la più grande beatitudine offerta dai campi e dai boschi è la suggestione di un’occulta relazione tra l’uomo e la vegetazione. […] L’ondeggiare dei rami nella tempesta è nuovo e al tempo stesso antico per me. Mi sorprende, e pure non è sconosciuto. L’effetto che produce è quello di un più nobile pensiero o di una più elevata emozione che mi raggiunse nel momento in cui ero convinto di pensare esattamente o di operare rettamente. Pure è certo che il potere di produrre una simile gioia non risiede nella natura, ma nell’uomo, o nell’armonia di entrambi.
In queste parole si nasconde un messaggio che non può non dirsi estremamente contemporaneo: l’uomo deve ritrovare il proprio posto nel mondo, ripristinare quel dialogo decaduto tra natura, uomo e Dio, che pervade il creato. La via per raggiungere questo, scrive Emerson, sta nel ristabilire un equilibrio che vive solo nella corrispondenza, nella fratellanza, tra l’uomo e la natura. Non siamo molto distanti da quello che scrive Papa Francesco quando suggerisce che l’esistenza umana si basa su tre relazioni fondamentali strettamente connesse:
la relazione con Dio, quella con il prossimo e quella con la terra. Secondo la Bibbia, queste tre relazioni vitali sono rotte, non solo fuori, ma anche dentro di noi. Questa rottura è il peccato. L’armonia tra il Creatore, l’umanità e tutto il creato è stata distrutta per avere noi preteso di prendere il posto di Dio, rifiutando di riconoscerci come creature limitate.
Esagerando un po’ i termini, ma non in maniera che se ne eluda il significato, la vera fede sembra stare per Francesco (e anche per Emerson) nel recupero di un triangolo che unisca uomo, Dio e natura: l’infrazione di solo uno di questi legami trascina nel peccato.
Su un altro versante sta invece la riflessione di Anna Maria Ortese, che non incrocia la religione per come normalmente intesa, e basa invece la sua esperienza della natura su un piano assolutamente umano e terreno. La raccolta di scritti curata da Angela Borghesi, Le piccole persone, ne riflette la composizione più vera e autentica. Se infatti per tutto il corso della sua opera Ortese non manca mai di concentrare la sua attenzione sul rapporto tra uomo e natura (cosa infatti sono i grandi romanzi di Ortese se non delle spietate rappresentazioni del fallimento di un rapporto egualitario e sincero tra gli uomini e le altre creature), questa raccolta, che presenta molti materiali inediti, rappresenta una summa di tutto il suo pensiero. Il filo rosso che lega i testi è la riflessione sul dolore, ma uno spazio equivalente ha la natura perché anche nel suo maltrattamento umano Ortese trova le cause della situazione odierna. Nel testo che apre la raccolta – “Ma anche una stella per me è Natura” –, e che ha anche per la sua posizione un ruolo programmatico, la scrittrice analizza le mutazioni che il rapporto con la Natura subisce nel corso della vita dell’uomo. Qui il pensiero di Ortese è assai vicino a quello di Emerson. Lo scrittore americano in Natura scriveva: “il sole illumina solamente l’occhio dell’uomo, ma risplende dentro l’occhio e nel cuore del bambino. L’amante della natura è colui i cui sensi interni ed esterni sono ancora in pieno accordo tra di loro; chi ha saputo conservare lo spirito dell’infanzia perfino nell’età adulta”.
Ortese, in maniera non molto differente, rintraccia nell’età dell’infanzia e della prima giovinezza il legame più rispettoso ed autentico (già in Corpo Celeste scriveva che “Il fanciullo o l’adolescente capisce ciò che l’adulto non capisce più”), mettendo in relazione i bambini, e il loro punto di vista, con quella porzione di umanità racchiudibile nel mondo dei più umili e degli offesi, portatori di un’autenticità nei rapporti che Ortese ha sempre difeso. In Le piccole persone, la natura corrisponde “a una forza e un respiro grandioso, a un evento senza origine, a un ritmo senza riposo, come quello del mare, a una corrente fantastica, incomprensibile, di cui a ciascuno di noi non è dato scorgere che un punto, quello dove si affaccia, per subito sparire, il suo ‘io’”. Ma lo scrittore adulto configura questo rapporto attorno allo scetticismo, senza alcuna speranza, anzi con il dolore, per una ferita che è uno strappo rispetto all’“altrove raggiante” ormai sfuggito. Ortese compie inoltre un ulteriore passo in avanti, scrivendo come sia proprio questa memoria dell’età infantile a poter trasformare un uomo in uno scrittore, perché scrivere, suggerisce, è “cercare ciò che manca, dappertutto”.
Ortese insiste molto su questo punto, tanto da affidare alla scuola un compito così importante: “una scuola che formi le generazioni alla conoscenza della Terra, e ai doveri dell’uomo verso tutta la terra. Non ho altra politica. Né altra cultura, forse, se non che leggere nel libro della vita terrestre è la prima strada e scuola per un uomo nuovo”. Ed è anche Papa Francesco a sottolineare la necessità di un’educazione ecologica, nel sesto capitolo dell’enciclica, in paragrafi significativamente intitolati “Puntare su un altro stile di vita”, “Educare all’alleanza tra l’umanità e l’ambiente” e “La conversione ecologica”. Nel corso del libro di Ortese si incontrano feroci critiche al pontificato di Papa Giovanni Paolo II, denunciato per lo smisurato antropocentrismo della sua pastorale che dimentica “la terra e tutti i suoi figli”. Proprio in questa divaricazione tra la scrittrice e la Chiesa si insinua la vicinanza ideale con le pagine di Laudato Si’: l’idea del suo rapporto con la Natura assume un aspetto quasi religioso, seppur profondamente immerso in un mondo laico e lontano dalla fede nel Dio cristiano. Esiste ovviamente una differenza, se infatti Papa Francesco nel suo testo sottolinea la necessità di uno sforzo nel rispettare la trinità composta da uomo, Dio e Natura, la visione di Ortese non si discosta troppo da questo triangolo, posizionando però, al posto di Dio, la Ragione, intesa come principio regolatore delle azioni umane.
Che sarebbe dell’uomo, se già alla nascita, egli sapesse qualcosa – solo qualcosa – della sua vera condizione? Di abitante di un pianeta che non esiste nemmeno, se non come un’ipotesi, forse, nell’ordine delle grandezze, sempre più infinite grandezze universali? Che ne sarebbe della sua iniziale allegria, esuberanza, decisione? Delle speranze degli umili, come delle glorie e l’arbitrio dei potenti?
Sono queste le domande sulle cose ultime che si pone Ortese nel suo libro. C’è una breve e icastica frase di Simone Weil, tratta dal saggio Non ricominciamo la guerra di Troia, dove la filosofa riflette su quello che definisce “il carattere irreale del conflitto” e in cui si rintraccia tutta l’angoscia davanti ad una civiltà che sta definitivamente perdendo il senso dell’equilibrio, della misura e del limite: “Questa epoca di sedicente tecnica non sa che battersi contro mulini a vento”. L’urgenza che allora Weil sente è quella che spinge chi ha a cuore le sorti del mondo: “Agiamo, lottiamo, sacrifichiamo noi stessi e gli altri in virtù di astrazioni cristallizzate, isolate, che è impossibile mettere in rapporto tra loro e con le cose concrete”. Si tratta di un invito all’azione, a recuperare un equilibrio perduto che risponde ai bisogni originari, fisici e morali, dell’uomo. E questo illuminante invito di Weil, non è molto lontano da quello di un testo di Ortese, scritto intorno al 1981, che si chiude con un desiderio di riappropriazione dell’uomo della sua vera natura, unica via, secondo la scrittrice, per comprendere veramente la natura “celeste” dell’uomo e della Terra dove abita.
Nel triangolo ortesiano di cui si è detto poco prima, la definizione di Ragione è mutuata dalla concezione che ha Simone Weil, che trova parte del suo significato anche nel breve La persona è sacra?. In questo testo, scritto durante l’esilio londinese, Weil muove dalla riflessione critica sulla parola “persona”, plasmando una profonda meditazione filosofica che tocca i temi più profondi di tutta la sua filosofia. “Perché mi si fa del male?” si chiede Weil, consegnando a questa domanda tutta l’esigenza di giustizia che merita l’essere umano. “Viviamo in un mondo dove nulla è a misura dell’uomo; c’è una sproporzione mostruosa tra il corpo dell’uomo, lo spirito dell’uomo e le cose che costituiscono attualmente gli elementi della vita umana; tutto è squilibrio. Non esiste categoria, gruppo o classe di uomini che sfugga a questo squilibrio divorante, ad eccezione forse di qualche isolotto di vita più primitiva” scrive Weil, ed è proprio nell’isolotto dove si trova una vita primitiva, e quindi in un ambiente in cui l’uomo è vicino alla natura e ai suoi ritmi, che esso trova la sua giusta misura.
Da Rousseau a Thoreau, da Ortese a Weil passando da Emerson e fino a Papa Francesco esiste una linea comune, un pensiero sulla natura che ogni tanto si assopisce ma che poi, con forza e ciclicamente, torna in evidenza. In questi nostri anni, Laudato Si’ rappresenta certo quel punto di non ritorno: la domanda sulle cose ultime, quelle a cui nessun essere umano può rispondere, ritornano con forza e riecheggiano attraverso le letture di chi su queste domande si è soffermato. C’è un passaggio nel capitolo intitolato “La giustizia tra le generazioni”, il quarto e ultimo di cui si parlava, in cui Papa Francesco sembra, inconsapevolmente o meno, riassumere queste domande e, sostenuto dalla fede e da una fiducia verso gli uomini che segna lo scarto con altre analisi, ne abbozza un itinerario di uscita, con parole che non possono non parlare a tutti:
Che tipo di mondo desideriamo trasmettere a coloro che verranno dopo di noi, ai bambini che stanno crescendo? Questa domanda non riguarda solo l’ambiente in modo isolato, perché non si può porre la questione in maniera parziale. Quando ci interroghiamo circa il mondo che vogliamo lasciare ci riferiamo soprattutto al suo orientamento generale, al suo senso, ai suoi valori. Se non pulsa in esse questa domanda di fondo, non credo che le nostre preoccupazioni ecologiche possano ottenere effetti importanti. Ma se questa domanda viene posta con coraggio, ci conduce inesorabilmente ad altri interrogativi molto diretti: A che scopo passiamo da questo mondo? Per quale fine siamo venuti in questa vita? Per che scopo lavoriamo e lottiamo? Perché questa terra ha bisogno di noi? Pertanto, non basta più dire che dobbiamo preoccuparci per le future generazioni. Occorre rendersi conto che quello che c’è in gioco è la dignità di noi stessi. Siamo noi i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile per l’umanità che verrà dopo di noi. È un dramma per noi stessi, perché ciò chiama in causa il significato del nostro passaggio su questa terra.
E ancora, poco dopo:
La difficoltà a prendere sul serio questa sfida è legata ad un deterioramento etico e culturale, che accompagna quello ecologico. L’uomo e la donna del mondo postmoderno corrono il rischio permanente di diventare profondamente individualisti, e molti problemi sociali attuali sono da porre in relazione con la ricerca egoistica della soddisfazione immediata.